Attualità

La cosa misteriosa che vive dentro Tiziano Sclavi

Sceneggiatore di Dylan Dog, il fumetto italiano più celebre che ha compiuto trent'anni, e romanziere rinnegato: perché c'è bisogno di rileggerlo.

di Francesco Gallo

Gli anni Ottanta, un decennio che ha visto Israele invadere il Libano, l’Argentina occupare le isole Falkland, Gorbačëv essere eletto Segretario generale del Partito Comunista, il reattore nucleare di Černobyl’ esplodere, e, in Cina, una manifestazione pacifica in piazza Tienanmen — rappresentata anche da un ragazzo in camicia bianca e pantaloni neri, immortalato nel tentativo di sbarrare il passaggio a un carro armato dell’esercito — essere repressa nel sangue, l’incubo dell’Aids. In Italia, l’elezione di Craxi a Presidente del Consiglio, Calvi che si impicca sotto un ponte di Londra, il generale Dalla Chiesa che viene ucciso in un attentato mafioso, il monopolio statale sull’informazione che termina per colpa del Decreto Berlusconi e il debito pubblico che raggiunge i mille miliardi di lire. A cercare di mascherare tutto questo — ma si tratta di imbellettare il volto pallido e freddo di un cadavere — ecco farsi avanti il fremito sconclusionato, la pulsione irragionevole, il desiderio esasperato di esorcizzare la morte che trova una delle sue rappresentazioni nell’edonismo reaganianoÈ in questo clima che il 26 settembre del 1986 fa la sua comparsa nelle edicole italiane il primo numero di un nuovo, insolito fumetto di genere horror; si chiama Dylan Dog, e nel settembre 2016 — appena un mese fa — festeggia trent’anni di vita editoriale.

Le ragioni del suo successo, in Italia senza precedenti, le ha ipotizzate lo sceneggiatore Roberto Recchioni, attuale curatore editoriale della testata. In un manualetto monografico della rivista Scuola di Fumetto ha dichiarato: «[Tiziano Sclavi] è uno che ha visto nascere tutto il male degli anni Ottanta e ha reagito ad esso, creando un personaggio capace di anticipare tutto quello che sarebbe arrivato con i Novanta. Negli anni Ottanta, in pieno reaganismo, Dylan era già un portatore sano della poetica del perdente, che poi sarebbe stata incarnata da Cobain e dal grunge. Negli anni Ottanta, con gli yuppie che dominavano il mondo, [Sclavi] già li stigmatizzava e li metteva al muro, come avrebbe fatto Bret Easton Ellis pochi anni più tardi in American Psycho (ponendo, di fatto, fine a quel decennio)».

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«Posso leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog per giorni e giorni senza mai annoiarmi», pare abbia dichiarato Umberto Eco. Primo in Italia, con Apocalittici e Integrati (1964), a occuparsi del linguaggio del fumetto, Eco analizzava, tra le altre cose, le strisce di Steve Canyon di Milton Caniff, le vignette di Superman di Siegel e Shuster e il rapporto tra il mondo e le noccioline di Charles M. Schulz. Quando, nel 1998, ebbe l’opportunità di dialogare con il fantomatico, misterioso e sfuggente creatore di Dylan Dog, Tiziano Sclavi, Eco cercò — eufemismo — di entrare un po’ di più nel dettaglio: «A me piace Dylan Dog perché di solito è disegnato bene, per le sue continue strizzate d’occhio, mi piace perché sono convinto di sapere tutte le barzellette del mondo e non riesco a capire come mai Groucho ne sa sempre una più di me… A proposito, [Lei, Sclavi] dove le va a prendere? Non è controllabile da nessun essere umano una tale quantità di battute…».

L’intervista è contenuta in un volume ormai purtroppo irreperibile intitolato Dylan Dog. Indocili sentimenti, arcane paure (EuresisEdizioni). Ha avuto il merito di invitare a dialogare uno dei più illustri studiosi della cosiddetta cultura di massa con il creatore di un personaggio che — dalla seconda metà degli anni Ottanta, quando ha iniziato a intonare con il clarinetto le prime, sulfuree note del “Trillo del Diavolo” di Giuseppe Tartini, fino ai primi anni Novanta, quando le avventure pubblicate a cadenza mensile hanno raggiunto un successo spaventoso — ha visto il numero dei propri lettori balzare da cinquantamila a più di mezzo milione.

Lo scambio di idee e opinioni tra Eco e Sclavi è parecchio interessante. Per molti motivi. Si inizia con Eco che spiega qual è, secondo lui, la differenza che corre tra un’opera d’arte e un’opera di culto, specificando che esistono opere d’arte che, ammesso che lo desiderino, restano incapaci di diventare di culto. Requisito indispensabile per un’opera di culto è quello di essere «sgangherabile»: «La Divina Commedia è sgangherabile, a differenza per esempio del Decameron, perché se prendo solo una parte di una novella, questa non funziona; mentre della Divina Commedia posso prendere anche solo un verso…».

«Sgangherabile» ma anche “sgangherata”; “divelta dai cardini, scardinata” da una tradizione precisa, ecumenicamente accettata, è quell’opera assemblata adoperando le fonti più disparate, eterogenee e, perché no, discordanti, come racconta Sclavi: «Il mio sogno è sempre stato quello di fondere i generi: perciò l’idea di mettere assieme Ernst Lubitsch, Neil Simon e il George Romero di Zombi mi diverte moltissimo. Far parlare i personaggi come fa Neil Simon, ma in un contesto horror… Che meraviglia!».

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Dylan Dog magari non è un’opera d’arte, ma senz’altro è un’opera di culto; postmoderna. E soggetta quindi, secondo Eco, al problema del double coding. Cioè le citazioni; perché le «strizzatine d’occhio» che tanto piacevano a Eco, restano un materiale accettabile e innocuo solamente quando abbiamo la sicurezza che il nostro pubblico di riferimento appartenga a un’élite intellettualmente preparata, in grado di saper cogliere i diversi livelli di lettura. Cosa accade invece — si chiede Eco — a chi, per scarsa cultura o abbondante ingenuità, si dimostra incapace di guardare al di là del primo livello di lettura, e magari, di fronte ai finali di certe storie di Dylan Dog in cui «si avanza maliziosamente il sospetto che […] il mistero esista veramente», rischia di rinnegare i fondamenti razionali del proprio essere? Sclavi risponde: «All’uscita di Arancia Meccanica hanno posto a Kubrick il problema di una possibile emulazione da parte dei giovani di quanto visto sullo schermo; e lui ha risposto che nemmeno con la suggestione post-ipnotica può costringere qualcuno a fare ciò che è contro la sua natura…».

Verso la fine arriva il motivo (forse più bello, perché inatteso) che rende lo scambio tra i due qualcosa di davvero imperdibile. Eco: «Adesso, Sclavi, Le faccio [notiamo la maiuscola] davvero l’ultima domanda. Lei deve scegliere: entro l’anno Tremila ci sarà una catastrofe atomica, ma la civiltà che verrà sarà più o meno come la nostra. Preferisce che sopravvivano gli albi di Dylan Dog o le sceneggiature scritte di suo pugno?». E Sclavi: «Sì, ma la Divina Commedia rimane, però…». Eco: «Sì, sì…». E Sclavi: «Allora scelgo gli albi. Una volta pubblicato l’albo, la sceneggiatura si butta via, non può vivere per conto suo. Tra l’altro, mi sembra doveroso ricordare che un albo è mio (o dello sceneggiatore di turno, visto che non li scrivo certo tutti io) solo per un terzo: come la maggior parte dei fumetti, Dylan Dog è un’opera collettiva, e il merito va diviso in parti uguali tra lo sceneggiatore, il disegnatore e la redazione. Che nel dopobomba resti un albo di Dylan Dog mi pare quindi anche un omaggio e un ringraziamento a tutte queste persone. Poi, non oso dirlo, ma mi piacerebbe che si salvasse almeno un mio romanzo…».

Che fine hanno fatto allora i romanzi di Tiziano Sclavi? Nel 1974, firmandosi come Francesco Argento — pseudonimo che omaggia due suoi miti: il cantautore Francesco Guccini e il regista Dario Argento — Sclavi pubblica il suo primo romanzo, Film, scritto a diciannove anni. Esce per una piccola casa editrice, il Formichiere (che oggi non esiste più) e si aggiudica la prima edizione del premio Scanno (tuttora in corso). Come Francesco Argento pubblica, inoltre, due raccolte di racconti: I misteri di Mystère (per Bietti) e Un sogno di sangue (per Campironi). Vista l’accoglienza positiva, intensifica l’attività di scrittore di narrativa. Porta a termine altri racconti e tre romanzi, che, tuttavia, saranno pubblicati solamente a partire dagli anni Novanta — ingiustificatamente, ma comprensibilmente — sull’onda dell’incredibile successo dylaniano. Perché?

_12Nel gennaio del 2016, intervistato dal critico letterario del Corriere della Sera Antonio D’Orrico, Sclavi rivela: «A vent’anni avevo mandato un mio romanzo, Tre, a vari editori. [Natalia Ginzburg] mi telefonò a casa e mi disse che l’avrebbe preso per Einaudi, però doveva aspettare il parere degli altri lettori, in particolare il giudizio di Italo Calvino. E Calvino disse di no. La mia carriera è morta lì». Sarà grazie a Raffaele Crovi, che fonderà la casa editrice Camunia, se altri romanzi di Tiziano Sclavi vedranno la luce. Escono allora, in rapida successione: Tre (1988); Nero (1991); Dellamorte Dellamore (1991); Sogni di sangue (1992), raccolta di storie che ripropone e arricchisce Un sogno di sangue; la versione definitiva di Guerre terrestri, intitolata Apocalisse (1993); Mostri (1994); La circolazione del sangue (1995), tutti successivamente pubblicati anche negli Oscar Mondadori.

Poi accade qualcosa. Nel 1996 Sclavi pubblica un romanzo per Giunti. Non è un giallo, non è un thriller, non è nemmeno un horror. Si tratta di una commedia sentimentale à la Woody Allen, zeppa di personaggi buffi, tristi, disperati, arguti e irrequieti. Si intitola Le etichette delle camicie. Carlo Fruttero la legge, ne resta divertito oltre che ammirato, e convince Sclavi a pubblicare per Mondadori il suo prossimo lavoro, assai più corposo, che riprende ed espande le vicende narrate ne Le etichette delle camicie. Nel 1998 esce Non è successo niente. Peccato però che, nonostante gli sforzi pubblicitari compiuti dalla casa editrice di Segrate, il romanzo ottenga uno scarsissimo successo di pubblico. Resta il fatto che per Sclavi l’esiguo numero di copie vendute (ottomila, pare) rappresenta una cocente, vergognosa delusione che lo induce a isolarsi e a inaugurare una nuova, lunga fase di silenzio. Anche questa interrotta, come la precedente, dalla pubblicazione di un altro romanzo: Il tornado di valle Scuropasso (2006), che a tutt’oggi — sceneggiature di Dylan Dog a parte — resta la sua ultima fatica letteraria.

E poi? Nient’altro. Cosa assai triste, nessuno di questi romanzi è reperibile attualmente in libreria. Su di loro pare essersi abbattuto, con la crudeltà di una ghigliottina, il giudizio dell’autore: «Sui miei romanzi [dice Sclavi a D’Orrico] è meglio stendere un pietoso velo. Patetici tentativi. I miei romanzi sono stati quasi tutti peccati di gioventù. Tutte cose per fortuna dimenticate, andate giustamente al macero».

In difesa dei romanzi di Tiziano Sclavi verrebbe la pena citare Stephen King, che, in On writing. Autobiografia di un mestiere, assicura che molto spesso: «[…] uno scrittore è il peggior giudice del suo lavoro». Immagino di non sorprendere nessuno affermando che lo scrittore che più di ogni altro ha influenzato Tiziano Sclavi è stato Edgar Allan Poe. In effetti, il creatore di Dylan Dog cela più di qualche punto di contatto con l’autore dei Racconti del Grottesco e dell’Arabesco. Uno è sicuramente l’interesse per i gatti. Così come a ispirare Il gatto nero di Poe è stata Cattarina, la docile felina con il pelo a squama di tartaruga che Edgar amava tenere accoccolata su una spalla mentre era intento a scrivere, pressoché immobile, alla scrivania (anche perché nella sua modesta abitazione a Richmond, in Virginia, Cattarina era l’unica fonte di calore), lo spunto autobiografico per una delle storie più godibili di Tiziano Sclavi è sorto osservando il comportamento di uno dei suoi gatti.

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Pubblicata nel luglio del 1992 in un albo speciale di Dylan Dog, si intitola “La cosa misteriosa che vive dietro il frigorifero” ed è forse la storia che più di tante altre tenta di mostrare cosa si nasconde dietro la trama lisa dell’illusione che chiamiamo realtà.
Il protagonista non è l’Indagatore dell’Incubo, ma il suo assistente Groucho, sosia del più famoso dei Fratelli Marx, alle prese con un caso all’apparenza inspiegabile. Il gatto dei coniugi Templeton, Micio, un bel giorno ha iniziato a fissare ipnotizzato l’intercapedine tra la parete e il frigorifero della cucina. Cos’è che riescono a vedere, là dietro, gli occhi spalancati e attenti di Micio, e che i Templeton non riescono a scorgere?

Forse proprio quell’ectoplasma che Tiziano Sclavi ha cercato di afferrare in ogni sua manifestazione narrativa. E di cosa si tratta? Del nulla. Perché secondo Sclavi sono i gatti, più di ogni altro essere vivente, a percepire e a vedere questo nulla: «Quando alzano d’improvviso la testa, e fissano un punto vuoto magari per ore… sì, forse stanno vedendo il più grande mistero dell’universo: il nulla».

Ma non è il nulla che a volte ci è toccato in sorte di vivere durante i momenti più sconsolati delle nostre esistenze. È un altro genere di void, di vuoto. E ha tutto a che fare con quella letteratura che Sclavi, sottraendo i suoi romanzi alla ristampa, ha di fatto reso più povera. Ciò che sarebbe accaduto se avessimo perduto Poe e la sua Cattarina, per intenderci. Come lo so? Perché ho letto (e riletto, e letto ancora) “Sfera”, la seconda canzone che Sclavi fa scrivere all’uomo del Tornado, «dopo tanto tempo […]. Di là in biblioteca una sfera cromata / è sospesa nell’aria, per aria campata. / Il gatto si alza, il muso alla porta, / ma nessuno si allarma, nessuno si volta. / La sfera si muove, comincia a girare, / adagio, in silenzio, nel vuoto spaziale, / riflette, deforma, trasforma, dilata, / assorbe le cose e ne è penetrata, / occhio ghiacciato, specchiologramma, / che sfiora gli oggetti, li accende di fiamma, / fiamma che muore, si spegne ruotando, / passando alla faccia nascosta del mondo, / riflette, ricorda, è memoria riflessa, / perplessa, sommessa, rinchiusa in sé stessa / e cos’è questa cosa, quest’ombra confusa, / questo ragno d’inchiostro, questa oscena medusa, / questa specie di vento, quest’oscuro compagno, / questo sangue che scorre nella vasca da bagno, / questa lama convessa incrostata di umori, / di vomito, pianto, ospedali, bruciori, / cos’è che non vede l’occhio del gatto, / quest’occhio rotondo sbarrato di scatto, / di là, in biblioteca, dove gira la sfera, / dove l’aria si abbuia, dov’è ormai quasi sera». E nel rileggerla ho tremato.