Attualità

Reporters in the sky with drones

Con i droni i giornalisti (come gli eserciti) potranno essere ovunque, in qualsiasi momento. È un bene?

di Pietro Minto

Il 2012 dovrebbe essere l’anno della fine del mondo, secondo quei menagramo dei Maya, l’anno in cui l’Umanità fa le valige e viene eliminata dalla competizione, lasciandosi alle spalle un’incredibile quantità d’asfalto e pietre. A voler essere pignoli, è un’opzione ancora valida, almeno fino al prossimo 21 dicembre, giorno in cui sapremmo il verdetto dei poli magnetici, o degli alieni, o semplicemente di qualche nostro simile particolarmente stupido, che pigia un pulsante rosso e manda tutto al diavolo. È molto più probabile, però, che il 2012 d.C. sia ricordato come l’anno in cui i droni sono diventati oggettini hipster.

Questi piccoli velivoli senza pilota si stanno infatti rivelando in grado di modificare per sempre il concetto di guerra, e le sue regole, e di turbare i nostri sentimenti, infilandosi in parti delicate delle nostre vite e proponendosi come “oggetti pensanti”. Se a tutto questo aggiungete che la categoria robot-droni fa pendant con Internet e la mente collettiva che frulla al suo interno, bingo: l’ultimo esempio, cogliendo fior da fiore, è quello del tale che ha imbalsamato il suo gatto morto e ne ha fatto il più carino mostro volante a quattro eliche che abbiate mai visto. E poi c’è il movimento Occupy Wall Street, in cui i piccoli areoplanini-spia sono stati utilizzati per monitorare la situazione e trasmettere il tutto in live streaming su Internet, per trasmettere in live streaming gli eventuali abusi della polizia e scontri.

Dalla privacy ai diritti individuali, dalla guerra al divertimento personale, dall’attivismo politico alla tassidermia: i droni sono ovunque. E fanno inevitabilmente gridare al Grande Fratello, anche se c’è chi continua a credere che questa loro capacità di ridefinire per sempre i confini della privacy possa essere usato a buon fine. Matt Waite (a destra nell’immagine) è un giornalista e programmatore web, co-fondatore di Politifact, prima testata online-e-solo online a vincere un premio Pulitzer, che dal 2011 insegna giornalismo all’Università del Nebraska. Qui ha creato il Drone Journalism Lab, un laboratorio che si occupa di monitorare e studiare le crescenti interferenze tra giornalismo e droni (siano essi Ugv, da terra, o Uav, in grado di volare). Un’idea che – ha spiegato a Studio – gli ronzava in testa da molto tempo: «Ho scritto dei tornado della fine anni ’90 e degli uragani dei primi dei Duemila, ed ero esasperato da quanto difficile fosse sapere se un quartiere era stato più danneggiato dell’altro». Tempi relativamente lontani in cui Twitter era solo una strana parolina, non un’ottima fonte d’informazione in caso di catastrofe naturale. Finché un giorno del 2011, a una conferenza sul mapping digitale organizzata a San Diego da Esri, società del settore, vede la dimostrazione di un piccolo drone, X100, in grado di osservare dall’alto una qualsiasi area del globo, comandato a distanza da un tablet. Da qui nasce il laboratorio, che «ha il fine di studiare sia gli aspetti pratici dell’utilizzo di droni volanti nel giornalismo, sia le questioni etiche sul loro utilizzo. Costruiremo qualche Uav per vedere come cambia il regolamento etico quanto i giornalisti possono “volare” velocemente e senza spendere troppi soldi».

Reporter volanti
Ma è possibile parlare di droni con il sorriso? L’ultimo numero di The New Inquiry, rivista newyorchese in pdf, intitolato “Game of Drones” ospita un’intervista a Alex Rivera, regista satirico e politico, in cui si parla di questi oggetti come «la più viscerale e intesa espressione del mondo transnazionale e telepresente in cui viviamo», in grado di «esacerbare gli scambi neocoloniali che già esistono», anche se «i nuovi sistemi non sostituiscono quelli preesistenti: vivono in parallelo e mescolati assieme». Waite sembra in una posizione più ottimista e meno drastica. Invita a denunciare i pericoli legati a questa tecnologia, senza però rifiutarla in toto e a priori. «Credo si debba cominciare col dire – mi ha spiegato – che questi sono robot volanti con telecamere. E se sei un fan della tecnologia e del futuro, è molto fico. Se invece sei a disagio con la tecnologia e con l’idea di macchine indipendenti dall’uomo, allora è molto preoccupante». A peggiorare la reputazione di questi strumenti, secondo il giornalista, avrebbero concorso anche i molti film apocalittici, che hanno diffuso l’equazione robot=qualcosa che uccide tutti, e l’inevitabile diffusione di teorie cospiratorie sull’argomento. Per farla breve, quindi, «se pensi che sia una cosa bella e per niente preoccupante, sei un ingenuo; se ti preoccupa ma non ne vedi i benefici, non stai capendo quello che succede».

Secondo Waite e i suoi colleghi del Drone Lab, i droni possono fare molto per i reporter del futuro. Come ha spiegato a Fast Company, un ipotetico “laureato” nel suo corso non si dovrebbe presentare dicendo “Piacere, sono un giornalista-drone” quanto piuttosto: «Sono un giornalista multimediale, e possono fare qualunque cosa, andare in qualsiasi posto, raccontare qualsiasi cosa e utilizzare qualsiasi strumento». Si possono usare durante le guerre o per monitorare zone non facilmente raggiungibili, rendendo semplici umani ubiqui, almeno digitalmente. È il concetto di telepresenza, un tempo monopolio di videoconferenze e videochat, che oggi assume sapori più estremi. Il progetto del laboratorio è piaciuto, e molto: lo scorso mese ha ricevuto 50 mila dollari dalla Knight Foundation, prestigiosa istituzione che lavora per la promozione del giornalismo di qualità.

New new journalism?
Le news stanno cambiando, in molti sensi, non solo per i problemi che conosciamo (crisi della carta stampata, l’enigma del web ecc.) ma anche a causa della presenza sempre più massiccia dei computer nelle nostre vite. E il pensiero corre a Narrative Science, azienda che ha sviluppato un algoritmo in grado di scrivere articoli di cronaca, accumulando dati ed elaborandoli. Pochi mesi fa il co-fondatore della società ha detto a Wired che a suo parere non mancano più di cinque anni alla consegna del primo premio Pulitzer a un algoritmo.

Oppure pensiamo al cosiddetto big data, lo studio di quantità enormi di informazioni da parte di calcolatori superpotenti, in grado di estrapolarne tendenze e fenomeni spesso impercettibili per la mente umana. Anche in questo caso Matt Waite è molto cauto e ricorda che «le cose cambiando lentamente, anche se posso immaginare un futuro in cui i droni saranno dotati di software come quello di Narrative Science, e capaci di scrivere storie in tempo reale, sospesi in aria».

Ma che ne sarà dell’uomo? Si ritroverà un ruolo di puro controllo da terra come quello di molti operatori dei Predator e altri droni militari? «Credo che l’umanità sia impossibile da trasformare in un software. Siamo esseri pieni di difetti, emozionali, distratti e complessi. Lo sdegno, la tristezza, la felicità e l’indifferenza: ecco ciò di cui è fatto l’uomo, e ci vuole un umano per riconoscere l’umanità di una situazione, di una storia, di un’immagine. Quel che dobbiamo tenere a mente è che tutte queste tecnologie sono solo strumenti che ci aiutano a capire cosa succede attorno a noi. Mi piace la tecnologia, davvero, ma alla fin fine quello che mi separa da una macchina è la mia umanità, e credo che quella sarà sempre parte integrante del giornalismo».