Attualità

La Vida Loca

Recensione del documentario sulle Maras salvadoregne di cui parla Roberto Saviano su IL di questo mese

di Cesare Alemanni

Questa recensione de La Vida Loca, il documentario di Christian Poveda sulle Maras salvadoregne, l’ho scritta due anni fa. L’intenzione era quella di pubblicarla su un sito che si occupa principalmente di documentari. Tuttavia i responsabili di quella testata online la giudicarono inadatta, per via della crudezza del documentario in oggetto e così è rimasta nel mio hard-disk fino a sabato, quando ho letto il bel contributo di Roberto Saviano alla storia di copertina di IL di questo mese. Nel suo articolo Roberto ricostruisce con diversi particolari la vicenda del documentario e del suo autore, il reporter franco-iberico Christian Poveda, ucciso nel settembre 2009 dagli stessi soggetti che ha ripreso nel film. Le parole di Saviano mi hanno riportato alla mente la straordinarietà di questo documentario e la recensione che ne avevo scritto che pubblichiamo qui ora, senza rimaneggiamenti, convinti che La Vida Loca e la storia del suo autore meritino tutti i contributi possibili per non essere dimenticate. (C.A.)

 

Nella maggioranza dei casi, un documentario funziona più o meno così: una voce fuori campo ci spiega quello che succede, chi è tizio e chi è caio, perché sono nel documentario e perché qualcuno li ha intervistati e/o semplicemente filmati.

Fortunatamente non esiste solo questa tipologia “standard” di lavori e ci sono anche opere come La Vida Loca in cui le cose accadono e semplicemente vengono riprese; senza che nessuno ci suggerisca quello che sta succedendo, senza interviste agli esperti, senza puntualizzazioni statistiche o storiche, senza scene madri e chiavi di lettura prefabbricate. La Vida Loca non racconta ma mostra. Che cosa? Persone per cui il concetto di “oggi ci sei, domani chissà” è uno stile di vita qualunque più che un’accettazione filosofica dell’imprevedibilità delle cose.

A El Salvador, ogni mattina è davvero una mattina in più se sei membro di una delle due gang (dette maras), la Salvatrucha e la Dieciocho, che da anni “se matano” a suon di reggaeton. Il motivo? Spesso neppure serve. La stessa nascita delle Maras non ha niente a che fare con la storia di El Salvador o con la criminalità locale ma è il frutto di un curioso fenomeno di contro-immigrazione dagli Stati Uniti, perlopiù da Los Angeles, dove gli immigrati Salvadoregni della Salvatrucha e quelli messicani della Dieciocho hanno iniziato a combattersi decenni fa per questioni legate ai racket di quartiere.

Stufi di riempire le proprie prigioni, nei ’90 gli USA diedero il via a una vasta operazione di rimpatrio dei membri delle Maras che nel frattempo si erano mischiati tra loro senza più riguardo per le rispettive nazionalità; così che molti salvadoregni erano entrati nella “messicana” Dieciocho col risultato che, una volta a El Salvador, metà dei rimpatriati ha iniziato a combattere l’altra e viceversa, in una catena di ritorsioni senza fine legate ai cartelli della droga.

A questo punto della storia arriva Christian Poveda, l’autore e regista de La Vida Loca e davanti a lui si presentano due scelte, una facile l’altra meno. Sceglie la seconda e invece di girare con un punto di vista distaccato da cui puntare il dito contro questo o quel problema sociale, questa o quella iniquità della globalizzazione, questa o quella colpa dell’America, preferisce adottare una lente d’ingrandimento e passare diversi anni a contatto con membri di entrambe le gang per registrarne la vita quotidiana senza sovrapporre mai la propria voce o il filtro del proprio sguardo alla situazione che sta filmando. Senza indulgere o porre enfasi sulle tre B del gangster latinoamericano “Baffi, Beretta, Borracho” che tanto piacciono ai “guardoni” di questo genere di documentari. Senza porne nemmeno sul dolore. Senza nascondere o sottolineare nulla sia che si tratti di una festa di compleanno o del funerale del festeggiato, appena pochi giorni dopo.

Etnografia pura, lontana da moralismi e assi di valori, senza giudizi o sermoni umanitari. Solo uno sguardo naturalista su un certo tipo di umanità come se fosse un’umanità qualsiasi, solo che al posto di disegnarsi un geko sulla caviglia si tatua un teschio su tutto il volto e invece di andare all’USL per ritirare gli esami del sangue, una ragazza ci va per ritirare un bulbo oculare finto che rimpiazzi quello in cui gli hanno sparato con una biglia di vetro per semplice divertimento.

Per girare questo documentario Poveda ha passato anni da embedded totale. Poteva essere ucciso al minimo errore durante le riprese. È stato freddato alla fine, dalle stesse persone che gli avevano inizialmente accordato il permesso di farsi filmare, colpevole di aver girato un “film” che ha avuto più successo del previsto, facendo una pubblicità sgradita a chi porta avanti da anni questa mattanza. Ci resta il documentario; forse il migliore mai realizzato sull’argomento.