Attualità

Disegnini – Valdivia, K. Navas, Dos Santos

Disegnini, ovvero ritratti in fretta, schizzi, cenni di vita e di storia calcistica. Ogni giorno (o quasi) tre giocatori di tre diverse nazionali del Mondiale, raccontati in breve. Si comincia con Jorge Valdivia, Keylor Navas, Giovani Dos Santos.

di Davide Coppo

“Disegnini” è una rubrica di Studio/Undici per il Campionato del Mondo in corso in Brasile. Funziona così: ogni giorno, o quasi, pubblicheremo tre brevissimi ritratti di altrettanti giocatori presenti in Brasile. Cercheremo di non scegliere i calciatori più famosi e più raccontati, ma quelli più interessanti e forse meno conosciuti. Disegnini si chiama così perché i ritratti non sono altro che schizzi, non veri profili, ma spunti, racconti brevi, ispirazioni. Quest è la prima puntata.

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Jorge Valdivia – Cile

Jorge Valdivia ha due soprannomi molti diffusi tra i calciatori sudamericani. Lo chiamano “el mago” e a volte “el loco”. Sono due soprannomi che possono rappresentare le fondamenta minime per un ritratto di massima di Jorge Valdivia, un ritratto da inserire nell’enciclopedia infinita della poesia calcistica in America, nel capitolo dei poeti instabili e irregolari. Jorge Valdivia è un numero 10 tra i più classici, ha superato i 30 anni, ha giocato in Europa per due stagioni da dimenticare, è diventato grande in due stagioni al Palmeiras, è andato due anni all’Al Ain degli Emirati Arabi a guadagnare 10 milioni di euro a stagione, lì è stato nominato miglior giocatore di sempre del club, gli è stato proposto un contratto a vita che ha rifiutato, è tornato al Palmeiras e ci è rimasto altri quattro anni. Jorge Valdivia è detto “loco” per molti motivi. Essere andato a giocare negli EAU a 25 anni potrebbe essere uno di questi. Un altro è una squalifica di 20 giornate dalla nazionale cilena per essere stato accusato di molestie nei confronti della cameriera di un albergo di Puerto Ordaz, Venezuela, durante i festeggiamenti per una vittoria del Cile in Copa América nel 2007. Quattro anni dopo Claudio Borghi, allenatore del Cile, lo trova ubriaco e in ritardo di 45 minuti all’allenamento della Nazionale due giorni prima di un’altra partita di Copa América contro l’Uruguay, lo rimanda a casa e non lo convoca più. Valdivia torna in Nazionale solo due anni dopo, nel 2013. Intanto Jorge Valdivia vince, con il Palmeiras, una Copa de Brasil, retrocedendo però in Serie B, giocando in Serie B e tornando in Serie A. In mezzo, subisce con la compagna Daniela Aránguiz un sequestro lampo da parte dell’evaso Rogério dos Santos. Nonostante questo, Valdivia continua a vivere e a giocare a San Paolo.

Lo chiamano “el mago” perché ha un talento raro. È un giocatore estremamente tecnico che, tatticamente, gioca tra le linee come uno dei più classici 10 – ricorda Rui Costa in certi movimenti, in un certo modo in cui rallenta la corsa, si guarda intorno e apre l’arco della gamba destra per il passaggio. Ha giocato anche come mezzala e, nel Cile, è stato provato anche come prima punta, ma è da trequartista che dà il meglio. Il passaggio è la prima magia di Jorge Valdivia. Claudio Borghi, suo allenatore in Nazionale e al Colo-Colo, ha detto che Valdivia «vede cose che gli altri non vedono». Dopo un gol di Denilson lo scorso anno, in Palmeiras – Joinville, un gol creato da Valdivia con un filtrante di esterno destro che ha tagliato diagonalmente l’area del Joinville e ha permesso a Denilson di tirare, in corsa e di prima battuta, e segnare il gol del 2-0, Valdivia ha preso il pallone e l’ha riportato a centrocampo. Con la palla sottobraccio si indicava il petto, come per dire “l’ho fatto io”. Era vero, l’aveva fatto lui.

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Keylor Navas – Costa Rica

Quando manca un minuto all’inizio della partita, che sia a Valencia o a Madrid, o a Barcellona o a Vigo, Keylor Navas si inginocchia sulla riga di porta, apre le mani e prega. Quello di solito è il minuto in cui i guardalinee controllano che la rete non abbia buchi, e allora succede che mentre lui è immobile a pregare un assistente arbitrale gli giri intorno e con la bandierina tocchi la porta in cui Navas è inginocchiato. Lo fa ogni partita altrimenti non potrebbe giocare, dice. Keylor Navas è nato nel 1986 a San Isidro El General, una città di 100.000 abitanti nel sud della Costa Rica fatta di case basse dominate da una cattedrale moderna, bianca e con due torri, o campanili, come una Notre Dame centroamericana ispirata a Gotham City e circondata da palme; dal 2005 al 2010 ha giocato al Deportivo Saprissa di San José prima di trasferirsi all’Albacete in Spagna, Segunda Division. Gioca titolare ma la squadra retrocede. L’anno dopo va in prestito al Levante, a fare il secondo di Gustavo Munúa. Il Levante si qualifica, nel 2011/13, per la prima volta in Europa League. Nell’estate del 2013 Munúa si trasferisce alla Fiorentina e Keylor Navas diventa titolare. Il Levante finisce la stagione undicesimo, ha uno dei peggiori attacchi di tutto il campionato (il quinto peggiore, con solo 35 gol fatti) ma riesce a salvarsi grazie alla difesa: dopo le prima quattro squadre – Atletico Madrid, Barcellona, Real Madrid e Athletic Bilbao – è quella di Keylor Navas la porta meno battuta. Vince anche, secondo le statistiche, il premio di miglior portiere della Liga. Non Courtois, ma Keylor Navas. Ha parato più di tutti gli altri portieri – 160 interventi – mantenendo una percentuale di successo dell’80,1 per cento e ha subito soltanto 39 reti. Fisicamente e stilisticamente, è agli antipodi di Thibaut Courtois, il più famoso, più celebrato collega belga dell’Atletico Madrid campione di Spagna e secondo classificato in Champions League. Navas è un portiere basso, forse uno degli ultimi portieri bassi in un decennio che ha visto l’altezza media dei portieri alzarsi sempre di più: è un metro e ottantaquattro centimetri. La particolarità di Courtois è l’estrema facilità di intervento: ha un corpo longilineo e lunghissimo a cui sa dare la giusta forza e la giusta spinta per non arrivare in ritardo soprattutto sui palloni bassi. Courtois stupisce per la facilità di intervento, per la sicurezza che riesce a dare con la sobria espressione estetica delle sue parate. È un po’ Van Der Sar (uno dei più grandi portieri dell’ultimo ventennio, sottovalutato soltanto in Italia a causa di una stagione sfortunata con la Juventus) e un po’ Buffon per la sicurezza di cui prima.

Keylor Navas è spettacolo puro. Trattiene pochi palloni ma è la sintesi dell’aggettivo “felino” applicato all’essere umano. I portieri non compiono gesti spettacolari “per i fotografi”, come dicono certi telecronisti: li compiono perché è il loro stile, la loro tecnica, perché invece di due passi laterali preferiscono una spinta e un tuffo. Keylor Navas riesce a ribaltare il suo baricentro come pochi altri nel mondo, riesce a decollare e “orizzontalizzare” il suo corpo in pochi attimi, ed è per questo che ogni suo intervento è spettacolare: perché presuppone uno stacco unico e un’imbardata velocissima, come se fosse un jet acrobatico in picchiata. Trattiene pochi palloni, forse. Di certo Navas non mette in scena uno spettacolo fine a se stesso. Ha vinto anche il premio di Marca per la miglior parata della stagione, un salvataggio decisivo all’ultimo minuto di un Almeria – Levante finita due a due: c’è una punizione per l’Almeria dalla tre quarti, una palla che spiove quasi al confine dell’area piccola e che viene colpita di testa da un difensore dell’Almeria. Navas poteva uscire – se il Levante avesse subito gol avrebbe avuto delle responsabilità gravi – ma non lo fa. Il difensore colpisce la palla a non più di due metri dalla linea di porta, la schiaccia, la dirige in basso, lei, la palla, rimbalza e si rialza e Navas, mi viene da pensare “come se fosse pieno d’acqua”, per il modo in cui il liquido si distribuisce quando si gira una bottiglia mezza piena, in un attimo è in volo, orizzontale, e la tocca prima che oltrepassi la linea. Se il campo fosse più profondo di un metro riuscirebbe a concludere una capriola, o un salto mortale, prima di atterrare.

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Giovani Dos Santos – Messico

Di Giovani Dos Santos ce ne sono due: uno è quello conosciuto da più o meno tutti gli appassionati di calcio del mondo, quello famoso perché assomiglia a Ronaldinho e giocava nel Barcellona con Ronaldinho, dondolava in campo come Ronaldinho e tirava e dribblava come Ronaldinho – però è messicano e non brasiliano. È lo stesso Giovani Dos Santos reso famoso da Rijkaard, che lo fece esordire in prima squadra a diciotto anni e gli fece giocare 38 partite in una squadra che poteva schierare Samuel Eto’o, Ronaldinho, Lionel Messi, Thierry Henry, Deco. È un Giovani Dos Santos famoso in questo modo superficiale anche a causa di Pro Evolution Soccer o Fifa, i videogiochi di calcio più venduti del mondo: è dal 2000, circa, che la virtualità calcistica ha un grosso peso, non più trascurabile, sull’immagine dei calciatori e sulla loro fama a livello popolare. Dos Santos era un giovane molto veloce e, nei videogiochi, con straordinarie skills tecniche. A PES 2008 era uno dei giocatori con più margini di crescita nel campionato chiamato Master League, e i suoi valori arrivavano a toccare il livello 90 (su 100). Il vero Giovani Dos Santos, quello reale e non la proiezione di sé, ha avuto una carriera difficile e strana, una carriera che a sua volta si può dividere in due filoni: quello della Nazionale messicana e quello delle squadre di club. Dopo quel primo anno con Rijkaard la carriera di Giovani cambia: al Barcellona arriva Guardiola, lui forse capisce che non è aria (come spiega magistralmente Fabrizio Gabrielli nell’articolo “Le promesse del Barça” su Ultimo Uomo, Guardiola era intenzionato a cambiare molte cose nella gestione della squadra rispetto a Rijkaard, e aveva anche suggerito a Bojan, rivelazione diciassettenne della Cantera, di tornare nel team B per farsi le ossa – cosa che Bojan non farà forse suo malgrado), arriva un’ottima offerta dal Tottenham di Juande Ramos e il messicano parte per la Premier League. Ramos al Tottenham cerca il talento puro, forse un po’ troppo puro: con lui come manager arrivano Dos Santos, Pavljučenko e Bentley – e in squadra c’è già Adel Taarabt. Dopo poche settimane Ramos perde il posto e viene sostituito da Redknapp, un tipo calcisticamente e umanamente molto, molto diverso: a marzo sia Taarabt che Dos Santos fanno le valigie. Per il messicano iniziano una serie di prestiti (Ipswich, Galatasaray, Racing Santander) e ritorni a Londra in cui non riesce mai a convincere del tutto nessuno. Nel 2012 firma finalmente un contratto con il Maiorca, nel 2013 va al Villareal e vive la miglior stagione della sua carriera, la prima, dopo otto anni da professionista e da “promessa”, in cui abbia superato i dieci gol fatti. In otto anni di carriera, Giovani Dos Santos ha giocato una media di 25 partite l’anno (giocato, non iniziato) con 5 gol esatti all’anno: poco, molto poco.

Con il Messico, Dos Santos è sceso in campo 73 volte con 14 gol: è molto, moltissimo per un venticinquenne. È che Dos Santos con il Messico gioca meglio, gioca con fiducia e risulta sempre – sempre – decisivo: i suoi tiri di sinistro a girare sul secondo palo sono imprendibili e sono una delle cose migliori con cui perdere un po’ di tempo su Youtube. Giovani è della generazione di Carlos Vela, uno che in Brasile non c’è andato perché dopo una sospensione disciplinare di 6 mesi del 2010 non ha più accettato una chiamata della Nazionale, e nel 2005 hanno vinto insieme i Mondiali U-17 (Giovani secondo Mvp del torneo, Vela capocannoniere davanti a Nuri Sahin). Nel 2009, quando la sua carriera di club era impantanata tra Ipswich e Galatasaray, Giovani vince la Copa de Oro e viene nominato Mvp; nel 2011 la vince ancora. Nel 2010 viene nominato secondo miglior giovane del Mondiale sudafricano. Nel 2012 vince le Olimpiadi di Londra. Con il Messico in Brasile è di nuovo titolare, ma non è una novità. La novità è che sta iniziando a giocare davvero anche da settembre a giugno, quando non deve mettersi la maglia verde della Tricolor.

 

Illustrazioni di Manuel Nurra