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Diego Marcon e l’indagine dell’oscurità

Breve viaggio nell'opera dell'artista in occasione della sua prima mostra in Triennale.

di Clara Mazzoleni

Diego Marcon, Monelle, 2017, immagine di produzione

Uno dei modi per raggiungere a piedi la Triennale di Milano, scendendo alla fermata Cadorna, è passare per via Giacomo Leopardi. Superato il chiasso della stazione, brulicante di turisti e ragazzini annoiati alle prese coi cellulari, il silenzio di via Leopardi trasporta il passante in una dimensione altra. Può poi capitare di assistere a un concerto di pianoforte che si svolge solitamente nel primo pomeriggio, in un lussuoso palazzo al termine della via. Qualcuno, immerso nell’ombra di una qualche stanza al pianoterra, è solito dimenare sui tasti dita virtuose e velocissime, producendo sonate burrascose, le cui note filtrano da persiane chiuse che non lasciano trapelare alcuna fonte di luce. L’ultima volta che mi sono fermata ad ascoltare uno di questi concerti risale soltanto a un paio di giorni fa, mentre andavo a vedere La miserabile, la prima mostra personale di Diego Marcon in un’istituzione, a cura di Edoardo Bonaspetti. Nato nel 1985 a Busto Arsizio, quest’anno l’artista è tra i finalisti del Premio MAXXI Bulgari e il vincitore della quarta edizione del Premio Fondazione Henraux.

Il pianista misterioso che suona immerso nell’oscurità, Giacomo Leopardi: entrambi mi hanno fatto pensare a Ludwig, un’opera video di Marcon magistralmente descritta da Michele D’Aurizio su Flash Art, attualmente in mostra al MAXXI di Roma. Ludwig è un bambino realizzato in CGI che, accompagnato da un pianoforte intona un lied lamentoso («Dio come son stanco mi sento proprio giù / Vorrei tirar le cuoia e non pensarci più…») tenendo in mano un fiammifero. L’aria di Ludwig, scritta dall’artista e composta da Federico Chiari, è suonata al pianoforte da Marco De Gaspari e interpretata da un bambino del Coro Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala. Proprio quando sembra sollevarsi con un «eppur», il bambino s’interrompe con un improvviso «ahi»: il fiammifero si è spento, lui sparisce, inghiottito dal buio. Si è scottato le dita.

Ludwig, 2018, video, animazione CGI, colore, suono, loop. Prodotto da Fondazione Museo MAXXI / Premio MAXXI Bulgari 2018. Still da video. Courtesy l’artista e Ermes-Ermes, Vienna

Il dondolio del video di Ludwig, che dà il mal di mare e fa presagire una sorta di naufragio (D’Aurizio nota i colori del colletto e del maglione: giallo e azzurro, come l’Europa) contrasta con la staticità lampeggiante di un’altra importante opera dell’artista: Monelle (2017). Qui lo spettatore assiste a uno spettacolo che lo farà trasalire: lo schermo completamente nero s’illumina improvvisamente per poi spegnersi di nuovo, imprimendo nella retina una serie di scene perturbanti. Negli spazi della Casa del Fascio di Como di Terragni appaiono bellissime bambine addormentate e terrificanti presenze realizzate in CGI, impegnate in azioni insensate e incomprensibili. Anche in questo caso l’aspetto sonoro è fondamentale: ogni lampo è accompagnato da un rumore improvviso e sinistro, che rimanda, come tutto il resto, alla dinamica dei film horror.

Potrei descrivere le opere di Diego Marcon una a una (l’ha fatto proprio ieri Cesare Alemanni, in un lungo approfondimento pubblicato su il Tascabile, “Tutto si spegne nel momento in cui lo vedi”) per sottolineare la coerenza del lavoro dell’artista, che alla domanda di Eva Fabbris «Cosa è per te patetico?» (in una conversazione pubblicata su Mousse), risponde: «Patetica è per me la condizione umana e il suo perseverare nel trascinare se stessa come proprio fardello. È per questo che i miei personaggi sono esausti. C’è qualcosa di profondamente doloroso e allo stesso tempo di incredibilmente comico in questo. Vivere è miserabile e nessuno ne è risparmiato. Questo è forse il motivo per cui trovi che il mio lavoro empatizzi con qualsivoglia spettatore: con lui condivido quantomeno l’esperienza di essere al mondo e tanto basta. È un’esperienza in cui si rinnova quotidianamente un sentimento di alienazione e di solitudine. Ogni attività umana è volta ad allontanare questo sentimento dal cuore. “Noi vegetiamo in una società repellente che ha cessato di ferirsi a morte” fa dire Thomas Bernhard a Minetti in una sua pièce teatrale. Per me il ruolo dell’arte resta quello di far precipitare tutto nella catastrofe. Anche questa impresa suona piuttosto patetica».

Monelle, 2017, film 35mm, animazione CGI, colore, suono, loop. Prodotto da In Between Art Film. Fotogramma. Courtesy l’artista e Ermes-Ermes, Vienna

Pensieri che si sarebbero certo trovati a loro agio nel cervello di Giacomo Leopardi («Or poserai per sempre, / Stanco mio cor. (…) Non val cosa nessuna / I moti tuoi, nè di sospiri è degna / La terra. Amaro e noia / La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo (…) E l’infinita vanità del tutto») così come la sonata del pianista misterioso di via Leopardi non avrebbe stonato nel video di Ludwig (non è un caso che Ludwig sia anche il nome del celebre compositore dell’Inno alla gioia). Il nichilismo e il pessimismo cosmico di Marcon sono però privati del tutto del carattere tragico, che in sé contiene sempre qualcosa di epico ed eroico, virando piuttosto verso l’anti-eroico, il soccombente (per tornare a Bernhard e al pianoforte), «l’esausto e il patetico», la stasi.

Il malatino (2017) è un film in loop di un bambino malato costretto a letto, che sembra sul punto di morire ma non muore mai, Dick the Stick’s Saga (2014-2016) è la storia di un soldatino depresso e disorientato, immobilizzato dal dubbio e dall’ansia di prestazione, Untitled (Head falling 01; 02; 03; 04; 05), sono cinque film di animazione in cui teste ciondolano semi-addormentate (ogni fotogramma è stato dipinto e grattato sulla pellicola a uno a uno dall’artista), senza mai potersi assopire del tutto. La miserabile è una variazione sul tema di tutte le opere precedenti, un’immagine immobile, in questo caso, fissata sul muro della sala espositiva. Una scena gelida, o meglio, congelata, illuminata da una linea bianca di neon, che raffigura, questa volta, una “malatina”, al cui capezzale si riuniscono tanti bambini, alcuni molto distratti, altri visibilmente affranti. Fuori dalle finestre, nel buio, s’intravedono dei personaggi, sospesi nel mezzo di enigmatiche azioni.

Il malatino, 2017, film 16mm, colore, senza sonoro, loop. Fotogramma. Courtesy l’artista e AMACI – Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani

Le opere di Marcon rimandano a un immaginario denso e stratificato che indaga nell’oscurità. Penso a un certo Ingmar Bergman (L’ora del lupo, i bambini di Fanny e Alexander) ai pallidi, cagionevoli personaggi romantici costretti a letto (dalla Fosca di Tarchetti alla Ottilie delle Affinità elettive) ad altri che, proprio come l’artista, individuano un proprio ruolo nel mondo proprio attraverso l’empatia con le tenebre (Justine di Melancholia). Si potrebbero elencare tantissime altre suggestioni, ed è frustrante doverne scegliere solo alcune (gli articoli sopracitati allungano la lista delle corrispondenze). Quello che è importante sottolineare, nonostante il lavoro di Marcon si presenti nell’immediato come un processo spinto da necessità emotive e interessi puramente formali (l’immagine in movimento, il montaggio, la luce, il suono, e soprattutto una costante meta-riflessione sul medium prescelto, che non ci permette mai di dimenticarci che quello che stiamo guardando è un film), è il modo in cui le sue ultime opere, e in particolare quelle attualmente in mostra, al MAXXI e alla Triennale, possano essere considerate politiche, pur seguendo una traiettoria tematica ed estetica che non potrebbe essere più lontana da quella dell’arte esplicitamente impegnata o militante.

La miserabile, 2018, vinile adesivo prespaziato nero applicato a parete, tubi al neon, dimensioni variabili. Veduta dell’installazione, La Triennale di Milano, Milano, IT. Courtesy Ermes-Ermes, Vienna. Foto: Andrea Rossetti

Il dubbio e l’indeterminatezza, le figure minacciose, i bambini inermi e soli, innocenti o forse ambigui (per l’analisi della figura del fanciullo nell’opera dell’artista rimando di nuovo a il Tascabile), Marcon mette nero su bianco (o, al contrario, illumina nel buio) la gamma di emozioni di una porzione dell’occidente contemporaneo. Rintronati dai social e stremati dall’impotenza nei confronti di una situazione sospesa tra il tragico, il comico e il grottesco, che ogni giorno vediamo peggiorare senza esplodere mai, ci troviamo invischiati in uno stato di costante spossamento, ironici ma incapaci, per ora, di trovare un modo efficace per controbattere. E mentre si cerca quel modo – quell’eppur – che almeno l’arte possa dare voce all’inquietudine, e con un’allegoria bloccare, come in un fermo immagine, una piccola entità miserabile costretta alla stasi, circondata da individui preoccupati, afflitti o distratti da tante piccole inutili azioni (cosa cercano sotto al letto?) mentre fuori dalla stanza, nel buio, va in scena la realtà.