Attualità

La cupola nel deserto

Una puntata speciale di Maledette bandelle con un estratto del libro che l'autore sta scrivendo, in cui si parla di altri libri e di metafisica, durante un viaggio.

di Cristiano de Majo

Basta essere stati in qualunque deserto del mondo per sapere quanto un deserto sia fonte di ispirazione per domande profondissime e sentimenti metafisici. Ma a questo in America si aggiunge la Cultura Pop, che ha fatto del deserto un luogo di elezione per le più bizzarre comunità new age, per le più astruse ufologie. Ne è esempio l’Integratron, una cupola di legno che si trova a Landers, nei pressi del Joshua Tree National Park, nel sito di Giant Rock, una enorme roccia, considerata sacra dai nativi americani, che copre 540 metri quadri.

Proprio nell’agosto di quell’anno racconta di essere stato contattato da una nave spaziale proveniente da Venere, che lo avrebbe svegliato nel corso della notte e invitato a salire a bordo.

La costruzione dell’Integratron iniziò nel 1954, per mano di George Van Tassel e della sua famiglia. Un personaggio strambo e controverso, questo Van Tassel. Pilota di aerei, nel 1947 acquistò un vasto appezzamento di terreno nel deserto, che comprendeva la roccia gigante, per aprire un piccolo aeroporto e il Come On Inn Cafe. Era arrivato a Giant Rock grazie al non meno controverso amico Frank Critzer, sospettato (pare ingiustamente) di essere una spia tedesca, il quale aveva iniziato a scavare sotto la grande roccia una serie di piccole stanze sotterranee, prima di essere ucciso da un’esplosione, proprio nel tentativo di portare a termine il lavoro. La sua morte spinse Van Tassel a subentrare nella proprietà dei terreni. Nel 1953 l’ex pilota iniziò a praticare nei locali sotterranei delle sessioni di meditazione nella convinzione che gli avrebbero permesso di contattare una forma di vita extraterrestre. Proprio nell’agosto di quell’anno racconta di essere stato contattato da una nave spaziale proveniente da Venere, che lo avrebbe svegliato nel corso della notte e invitato a salire a bordo. Qui avrebbe appreso una tecnica per la rigenerazione dei tessuti cellulari, che avrebbe permesso ai vecchi di non morire e ai giovani di non invecchiare. La costruzione dell’Integratron, che lo stesso Van Tassel definisce “un generatore elettrostatico in grado di produrre un ampio spettro di frequenze finalizzate a ricaricare la struttura cellulare”, inizia dopo pochi mesi. Tra gli anni Cinquanta e i Settanta, l’ex pilota diventa un punto di riferimento per la comunità degli avvistatori di Ufo e Giant Rock una sede di frequentatissimi convegni spaziali. Il racconto del contatto di Van Tassel, arricchito da ulteriori informazioni da lui ottenute negli anni attraverso la comunicazione telepatica, diventa il testo sacro di una religione ufologica, che predica l’esistenza di una civiltà extraterrestre, che per mezzo del suo governo, l’Ashtar Command, sorveglia la popolazione terrestre offrendole supporto materiale e spirituale.

Dopo la morte del suo progettista, avvenuta nel 1977, questa curiosa costruzione è stata acquisita dal Bureau of Land Management per diventare oggi una via di mezzo tra un luogo di culto, che promette ai suoi visitatori, grazie alle potenti correnti magnetiche che lo attraversano, un miglioramento del benessere psicofisico, e un sito turistico, segnalato – ed è questo il motivo che ci portò lì – da guide a larga diffusione.

Per tornare a San Francisco, facemmo un giro largo, attraversammo un pezzo di Nevada e ci chiudemmo per due giorni una stanza al venticinquesimo piano del Treasure Island a Las Vegas. Pagando un prezzo ridicolmente basso, guardando E! Entertainment Channel stesi sul letto king size, mangiando per venticinque dollari all you can eat e scrutando con riprovazione europea i piatti troppo pieni dei nostri commensali, perdendo una cinquantina di dollari alle slot machine e bevendo Bud light a gratis, compatendo le file sterminate di acquirenti di biglietti del Cirque du Soleil, camminando da un albergo all’altro senza uscire all’aria aperta – da Parigi a Venezia, passando per l’antica Roma – provando quel senso di nausea costante, come dopo troppe ore passate davanti a un televisore.

L’ultima tappa prima di San Francisco, fu Lee Vining alle porte del parco Yosemite, un minuscolo abitato tipicamente americano che si sviluppava su un lato della Hwy 395, tra una pompa di benzina e un diner, su una strada che costeggiava una sponda del Mono Lake, un lago abbastanza grande, che la nostra Lonely Planet definiva “una tranquilla e misteriosa distesa di acqua di colore azzurro intenso, la cui superficie simile a un vetro riflette le alte vette frastagliate della Sierra, i coni di giovani vulcani e le surreali torri di tufo”.

La sola cosa che potevamo fare, dopo aver sistemato le nostre cose in un motel, nella stanza piccolissima e scricchiolante, con le zanzariere divelte e le coperte pesanti nonostante il caldo, fu mangiare una bistecca con patate alla tavola calda e scendere al lago. A parte una nutrita colonia di gabbiani, era spopolato, ma sulla riva, nei pressi di una di quelle torri deformi di roccia, vedemmo un ragazzo con i piedi che affondavano nel morbido e disgustoso tappeto di guano e sabbia. Avrà avuto vent’anni ed era decisamente bello, nonostante avesse l’aspetto di un barbone, i capelli lunghi e sporchi, la maglietta e il pantalone laceri. Leggeva in piedi un tascabile spiegazzato, e capimmo, volgendo lo sguardo un po’ più indietro, che avrebbe dormito lì, almeno per quella notte, in una tenda di fortuna, fatta da pezzi di tessuti impermeabili tenuti insieme in qualche modo, che resisteva con molte difficoltà alla forza del vento. Ripensai a Chris McCandless, protagonista della biografia di Jon Krakauer Nelle terre estreme, che nel 1990 aveva lasciato studi, famiglia e comodità borghesi, per intraprendere un lunghissimo viaggio nella natura, terminato due anni più tardi, con la sua morte, in Alaska. La luce del tramonto dava alla scena un senso ancora più epico, mentre io mi chiedevo se il ragazzo non stesse leggendo proprio quel libro, se non fosse un epigono di McCandless, un idealista che inseguiva orme di vita vera scolpite nella letteratura.

“Non mi riesce di rinunciare a tutta questa libertà e semplice bellezza”, scrive il ragazzo in una cartolina indirizzata a un uomo conosciuto durante i suoi vagabondaggi.

Rileggendo il bellissimo libro di Krakauer, scopro che McCandless non è passato molto lontano da qui. Il lago Mead, che viene riportato come una delle prime tappe, lo abbiamo sfiorato attraversando il Nevada. E poi è stato sicuramente a Palm Springs e nella Coachella Valley, prima di intraprendere i lungo viaggio verso le terre estreme dell’Alaska, dove avrebbe perso la vita. Ci si chiede, come lo stesso Krakauer fa, cosa porti un giovane di buona famiglia, bravo negli studi e con ottime prospettive di riuscita sociale, ad abbandonare tutto, interrompendo bruscamente i rapporti con i suoi famigliari, per vagabondare nella natura più selvaggia, rifiutando gli standard della civiltà e le sue assodate e irrinunciabili comodità. Nel libro, McCandless viene descritto come un ragazzo sui generis, con un carattere difficile, testardo, ma senza dubbio non un alienato o un asociale o una persona con problemi di adattamento. La sua ricerca di un’esperienza di fusione con la natura, che all’epoca dell’uscita del reportage di Krakauer su Outside (articolo da cui successivamente nacque il libro), venne bollata da molti lettori come immatura, irrispettosa e sciocca, sembra avere a che fare con una forma molto personale di ricerca spirituale. Spiritualità (come rifiuto delle sovrastrutture umane e tentativo di superare i propri limiti) e bellezzapura (come rapporto di armonia con il creato) sono gli assi su cui si muovono anche altre esperienze simili a quelle di Chris giustamente messe in evidenza nel libro di Jon Krakauer. Ragazzi e uomini di ogni epoca che hanno fatto perdere le proprie tracce nel tentativo di raggiungere qualcosa che è più difficile descrivere che comprendere, forse un senso assoluto dell’esistenza a prescindere dalla storia. “Non mi riesce di rinunciare a tutta questa libertà e semplice bellezza”, scrive il ragazzo in una cartolina indirizzata a un uomo conosciuto durante i suoi vagabondaggi.

Qualche mese più tardi il remoto Mono Lake, comparve, con mia grandissima sorpresa, sulla home page di repubblica.it in un titolo che presentava la scoperta di un “batterio alieno”. L’annuncio, che era stato dato con grande risalto dalla Nasa, precedeva la pubblicazione su Science di uno studio dell’astrobiologa Felisa Wolfe-Simon, nel quale si dimostrava l’esistenza di un microrganismo, ribattezzato GFAJ-1, trovato sul fondo del lago, che solo adesso scoprivo essere il luogo con la più alta concentrazione di arsenico del pianeta. Secondo lo studio, il batterio non solo si nutriva di arsenico, ma era dotato di un Dna in cui l’arsenico sostituiva il fosforo, fenomeno mai osservato in nessun organismo vivente. Si parlava di batterio alieno, dunque, perché quella primitiva forma di vita sembrava non avere caratteristiche terrestri. Inevitabilmente pensai a Van Tassel e al Comando Ashtar.

Resta tuttavia ancora in piedi da un punto di vista scientifico l’ipotesi che microscopiche forme di vita aliena, come appunto batteri extraterrestri, nel corso del tempo, possano essere stati trasportati da meteoriti sul nostro pianeta.

La scoperta sollevò sin da subito moltissime critiche da parte della comunità scientifica e, dopo un anno e mezzo, fu confutata da una serie di studi che riscontrarono irregolarità nelle procedure e ipotizzarono che il risultato ottenuto dal gruppo di lavoro di Felisa Wolfe-Simon fosse dovuto a una contaminazione. La vicenda somigliava a quella del meteorite ALH84001, un antichissimo reperto risalente a più di quattro miliardi di anni fa, proveniente quasi certamente da Marte, ritrovato nel 1984 nella zona di Allan Hills, in Antartide. Più di dieci anni dopo, nel 1996, venne pubblicato uno studio, sempre della Nasa, annunciato da Clinton in diretta televisiva e da lui stesso definito “una scoperta epocale”, in cui si sosteneva il ritrovamento sul meteorite di una colonia di batteri fossili, la più piccola forma di vita mai osservata. Anche questo studio fu confutato da un ulteriore studio che individuò in quelle formazioni non una colonia di nano-batteri, ma delle strutture minerali. Resta tuttavia ancora in piedi da un punto di vista scientifico l’ipotesi che microscopiche forme di vita aliena, come appunto batteri extraterrestri, nel corso del tempo, possano essere stati trasportati da meteoriti sul nostro pianeta. Un’ipotesi che avvalorerebbe le teorie della panspermia, meno strettamente scientifiche, anche se prospettate, negli ultimi due secoli, da alcuni illustri quanto discussi scienziati, tra cui spicca il nome di Francis Crick, scopritore del codice genetico e premio Nobel.Secondo i sostenitori della panspermia, l’origine biologica della vita risiederebbe nel cosmo e sarebbe sbocciata sulla Terra in modo casuale, com’è il caso del meteorite che trasporta i batteri da un pianeta all’altro, oppure intenzionalmente a opera di una forma di vita intelligente. In questo secondo caso si parla di panspermia guidata, che costituisce il nucleo fondativo di tutte le cosiddette religioni ufologiche, come Scientology o il Movimento raeliano, che considerano l’uomo, alla stregua delle religione monoteiste, non come un prodotto dell’evoluzione naturale, ma come risultato di un intervento esterno.

Mi affido di nuovo a James Hillmann che sempre nel Codice dell’anima scrive una cosa che condivido moltissimo: I miti cosmogonici ci situano nel mondo, ci coinvolgono nel mondo. Le cosmogonie moderne (big bang e buchi neri, antimateria e spazio curvo in continua espansione senza meta) ci lasciano nel terrore e nell’incomprensibilità priva di senso. Solo eventi casuali, niente davvero necessario. Le cosmogonie della scienza non parlano dell’anima e dunque non parlano all’anima, non le dicono nulla sulle ragioni della sua esistenza, come sia posta in essere, e quale sia la sua destinazione e quali i compiti da adempiere.

Oltretutto, anche su un piano strettamente logico, così come non esiste una prova certa dell’esistenza di un dio, è dogmatico ritenere che le nostre, per il momento limitate, conoscenze scientifiche provino con assoluta sicurezza la non sussistenza di una creazione. Cresciuto in una famiglia di atei convinti – anche se mia madre ha seguito la trafila non così insolita di un passaggio senza soluzione di continuità dal Pci alla New Age – non riesco a individuare con esattezza il momento in cui la fede nella non esistenza di un dio ha lasciato spazio al dubbio. Di certo prima della nascita dei gemelli e prima che mi ammalassi di tumore. È un dubbio che ho iniziato a coltivare come speculazione filosofica prima che fosse coronato dai miei goffi tentativi di preghiera o dalle mie promesse rivolte a chissà chi per la guarigione di M. È un’ipotesi che ho iniziato a prendere in considerazione a prescindere dai miei bisogni contigui.

Oltretutto, anche su un piano strettamente logico, così come non esiste una prova certa dell’esistenza di un dio, è dogmatico ritenere che le nostre limitate conoscenze scientifiche provino con assoluta sicurezza la non sussistenza di una creazione.

Ma se dessimo per accettata l’esistenza di un creatore, sempre su un piano strettamente logico, l’esistenza di un creatore alieno, ovvero di una civiltà extra-sistema solare che abbia condotto sulla Terra esperimenti genetici, dovrebbe essere considerata altrettanto plausibile, se non più plausibile, dell’esistenza del dio astratto, composto di linguaggio, di una qualsiasi delle religioni monoteiste, che tra per inciso spesso identificano nel cielo il luogo di provenienza della divinità, diventando esse stesse passibili di interpretazioni ufologiche. È anche vero che le genesi che si sono sviluppate intorno al cosiddetto creazionismo non religioso sono sempre caratterizzate da una poco convincente cifra fantastica e suonano ridicole o frutto dei deliri di soggetti squilibrati, come le teorie di Zecharia Sitchin o quelle di Erik von Däniken, rispettivamente interpreti in chiave ufologica dei testi sumeri e biblici. Ma fondamentalmente si tratta di fantasaggisti o di scrittori di fantascienza, come lo stesso Ron Hubbard, fondatore e messia di Scientology.

Per molte delle filosofie ufologiche e new age, Scientology in primis, la malattia ha sempre un’origine psichica, così la guarigione dovrebbe avere le caratteristiche di un risveglio generato da una nuova consapevolezza del soggetto.

Nella Malattia come metafora Susan Sontag sostiene che tutte le teorie che vedono nella malattia un riflesso di una difficoltà psichica o di un problema rimosso sono ingiuste perché tendono a colpevolizzare il malato.

 

Nella foto, la Morongo Valley, in California. David McNew/Getty Images