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La riscoperta di David Wojnarowicz

A più di vent'anni dalla morte per Aids, rinasce l'interesse per un artista emarginato, prima con un libro e ora con una mostra al Whitney.

di Clara Mazzoleni

"Untitled (Buffalo)", 1988–89, courtesy of The Estate of David Wojnarowicz and P.P.O.W., New York

Tra le tante cose che l’artista e scrittore David Wojnarowicz riesce ancora a fare, a più di vent’anni dalla sua morte, è ispirare titoli pungenti e intensi, un po’ come quelli che caratterizzano le opere che realizzò durante la sua vita. La retrospettiva a lui dedicata che ha inaugurato il 13 luglio al Whitney Museum di New York e che rimarrà aperta fino al 30 settembre si chiama History Keeps Me Awake at Night. Il suo memoir, pubblicato nel 1991, un anno prima della sua morte,si intitola Close to the Knives: A Memoir of Disintegration. Un libro da rileggere, soprattutto oggi che si parla tanto (e spesso, paradossalmente, in modo molto stereotipato) di diversity, isolamento ed emarginazione. In questo libro, una raccolta di saggi scritti con un tono mutevolissimo – erotico, umoristico, ingenuo, feroce – Wojnarowicz racconta la storia della sua breve vita disperata, interrogando il lettore e se stesso sulla paura della diversità.

La copertina del memoir di Wojnarowicz pubblicato per la prima volta nel 1991

Se col suo lavoro l’artista ha profetizzato alcuni dei temi che sono tornati al centro del dibattito culturale e politico – non si fonda forse il nostro attuale governo sulla paura del diverso? – c’è una scrittrice inglese che, a sua volta, ha profetizzato l’importanza dell’artista. Sono infatti diversi anni che Olivia Laing, che avevamo intervistato per il numero 35 di Studio, evidenzia l’attualità del suo lavoro, a cui ha dedicato, oltre a una serie di articoli per il Guardian, le più belle pagine del suo penultimo libro, Città sola (l’ultimo, Crudo, parla di un’altra irriducibile outsider a cui, curiosamente, anche Chris Kraus ha dedicato il suo ultimo libro: la scrittrice punk Kathy Acker).

Dall’infanzia in periferia, vittima di abusi da parte dei genitori, a una vita da homeless per le strade di New York, dall’approdo nella scena del Pier 34, che negli anni Settanta divenne un importante incubatrice di energie sessuali e artistiche della scena underground della città, fino alla drammatica morte causata dall’Aids, la storia di Wojnarowicz – decisamente maltrattato dalla vita, come si può evincere leggendo il testo dell’opera qui sotto, “One day this kid…”, un autoritratto dell’artista da bambino circondato dal racconto dettagliato e condensato di quello che un giorno si sarebbe trovato ad affrontare – gode di un lungo momento di riscoperta, dalla biografia scritta da Cynthia Carr nel 2012, Fire in the Belly, alla ristampa nel 2015 di un importante catalogo che raccoglie le sue fotografie, Brush Fires in the Social Landscape, dal libro di Olivia Laing all’importante mostra al Whitney, di cui si sta molto parlando (un esempio: quest’articolo del Financial Times – con un altro bel titolo – “The viruosic rage of David Wojnarowicz”). 

“Untitled (One day this kid . . .)”, 1990, courtesy of the Estate of David Wojnarowicz and P.P.O.W., New York

Ma il libro di Laing non si concentra soltanto sull’esistenza borderline dell’artista-attivista: si impegna anche a raccontare le sue opere, come la serie delle prime fotografie degli anni Settanta “Arthur Rimbaud in New York”, nella quale Wojnarowicz ritrae i suoi amici mentre girano per la città indossando una maschera che riproduce il famoso ritratto del giovane poeta francese, caricando così di eternità, mistero e poesia quelle che erano le loro attività quotidiane. Rimbaud che prende la metropolitana, Rimbaud che si masturba a letto, Rimbaud che vaga per gli squallidi pontili dell’Hudson River. Gay, troppo incandescente per durare a lungo, fuggito in Africa e morto a 37 anni: già prima di sapere che anche l’età della loro fine li avrebbe uniti, Wojnarowicz considerava Rimbaud il suo alter-ego, una persona reale, prima ancora che un artista di cui stimare il lavoro, uno di quegli spiriti inquieti che, proprio come gli artisti di quella che chiamava la sua “tribe” (Nan Goldin, Kiki Smith, Zoe Leonard, tra gli altri), sarebbe riuscito a comprenderlo.

Il lavoro dell’artista è pervaso dalla frustrazione di non riuscire ad appartenere a ciò che ai suoi tempi e nella sua città era considerato bello e giusto. Una posizione che oscilla continuamente tra il disperato desiderio di essere amato da una società che lo rifiuta e al tempo stesso un’irresistibile attrazione per tutto ciò che quella società condanna: l’omosessualità, la promiscuità sessuale, la droga, la ribellione ai canoni imposti. E poi situazioni difficili che fu costretto a sopportare: la vita di strada, la violenza, gli stupri, l’Aids. Un’altra opera importante è “Untitled (Hujar Dead)” fotografie del fidanzato Peter Hujar sul suo letto di morte, nel 1987, sulle quali si leggono parole che articolano fantasie di vendetta: «Porto con me questa rabbia come un uovo pieno di sangue…». Sarà proprio questo sentimento a infondergli un’energia propulsiva che lo porterà a ottenere i maggiori riconoscimenti come scrittore, artista e attivista per i diritti dei malati di Aids negli ultimi anni della sua vita.

Il titolo della mostra deriva da un quadro del 1986 che raffigura gli incubi di un uomo che dorme, ma in tutte le sue opere, che mescolano fotografia, pittura, scrittura e collage (ma, all’inizio, anche musica e video) l’artista delinea una sua visione apocalittica della contemporaneità, determinata da simbologie ricorrenti: fiamme, bombe, esplosioni, cose che vanno in frantumi, colori acidi. E poi, gli autoritratti, il masochismo: c’è una fotografia con la bocca cucita, e un’altra che lo ritrae con il viso che emerge dalla terra, come fosse seppellito vivo (l’immagine ricorda moltissimo una serie di Roberto Cuoghi, un altro artista che, come facevano Rimbaud e Wojnarowicz, indulge nell’indagine delle energie infernali).

“Arthur Rimbaud in New York”, 1978–79, 1990, courtesy of the Estate of David Wojnarowicz and P.P.O.W., New York

Ma una delle sue azioni più significative è forse l’unica alla quale l’artista non ha partecipato. Poco prima di morire, scrisse: «Immagino come sarebbe se ogni volta che un amante, un amico o uno sconosciuto muore di Aids, i suoi amici, amanti o vicini prendessero il suo corpo morto, guidassero per un centinaio di chilometri, fino a Washington DC, oltrepassassero i cancelli della Casa Bianca e lo buttassero sulla scalinata principale». La sua fantasia di vendetta, così artistica nella sua tremenda violenza, inutilità e impossibilità, divenne in qualche modo reale: nel 1996, 4 anni dopo la sua morte, un gruppo di attivisti riuscì a disperdere le sue ceneri sul prato verde, pulito e ordinato della Casa Bianca.