Attualità

Dalla parte di Nole

L'eleganza di Federer è fuori discussione, ma quando si tratta di agonismo Novak Djokovic non ha avversari. Se è vero che il tennis non è un pranzo di gala, un po' di motivi per fare parte della minoranza che tifa per il talento di Belgrado.

di Maurizio Caverzan

«Giocavamo senza rete, sul cemento pieno di crepe», scrive Novak Djokovic nella sua autobiografia ricordando l’infanzia tennistica ai tempi delle bombe su Belgrado. Sarà per questo che esce spesso incolume dai bombardamenti degli avversari? Dopo il successo a Wimbledon, il secondo per lui, settimo slam, al termine della memorabile finale contro Roger Federer, Nole è tornato numero uno del tennis mondiale. Meglio dichiararlo subito e beccarsi subito la riprovazione della maggioranza più o meno illuminata. Io sto con lui. Sto con il campione serbo. Quello meno amato, meno elegante, meno sartoriale nelle movenze.

Dal punto di vista estetico non c’è discussione. Federer è un’entità celestiale, un paradiso per gli occhi, un angelo sceso a deliziarci sul giardino londinese. La definizione del gesto. La precisione della posizione. Talmente dotato dalla natura. Un concentrato di grazia che dovranno passare chissà quanti decenni per rivederne un altro così. Grigor Dimitrov, che pure gli somiglia molto anche nel modo di giocare, ha qualcosa di più terreno e di più “sporco”. Roger no, Roger non suda, sembra non far fatica. Talmente perfetto che non ha bisogno di sporcarsi le mani. Con i doni di cui dispone, la coordinazione assoluta, il totale controllo del corpo e della gestualità, avrebbe potuto eccellere in qualsiasi disciplina sportiva. Lo ha detto più volte sua madre Lynette. Fosse stato uno sciatore sarebbe stato Ingmar Stenmark. Fosse stato un golfista sarebbe stato Tiger Woods. Un calciatore? Probabilmente Van Basten. Elegante, aristocratico, un manuale vivente. Ma senza la ponderosità delle enciclopedie. Anzi, accompagnato da quella leggerezza che gli rende tutto più naturale, privo di sforzo apparente.

Novak Djokovic non è niente di tutto questo. Non possiede la grazia del fuoriclasse svizzero. Non è toccato dal suo talento cristallino. Non può sciorinare la tecnica sopraffina e il repertorio di Roger. Anche se, va detto, sono notevoli pure i suoi. Nole, però, possiede doti altrettanto decisive nello sport del tennis, il più completo e sfaccettato che ci sia a livello individuale. A questi livelli, una roulette russa continua. Un thriller dove la fine è ignota. Come lo è stata la finale di Wimbledon di quest’anno. Qualche numero rende l’idea: 3 ore e 56 minuti di partita, 143 winners contro 56 “errori non forzati” totali, 186 punti conquistati da Djokovic contro 180 da Federer. Una partita emozionante, selvaggia, memorabile. Paragonabile per bellezza e intensità a quella del 2008 tra Federer e Nadal, ritenuta da molti il match più avvincente mai disputato.

Ecco: se il tennis fosse un pranzo di gala, una sfilata di “gesti bianchi”, stravincerebbe puntualmente Federer. Ma sempre di più il tennis somiglia alla vita.

Ecco: se il tennis fosse un pranzo di gala, una sfilata di “gesti bianchi”, stravincerebbe puntualmente Federer. Ma sempre di più il tennis somiglia alla vita. Cioè, contempla la lotta, anche all’ultimo sangue. Contempla la caduta, il contatto con la terra. La capacità di adattamento. Il bisogno della tenuta quando sei allo stremo delle forze. Richiede resistenza e appello a risorse nascoste quando stai sprofondando. In questo Djokovic non è secondo a nessuno, nemmeno all’indomito Rafa Nadal. La finale di quest’anno di Wimbledon verrà ricordata a lungo per la ribellione di Federer nel quarto set. Per il campione svizzero rappresentava una delle ultime occasioni per vincere il diciottesimo slam. Forse l’ultima per prendersi il trofeo londinese, già conquistato sette volte, e superare il primato che condivide con Pete Sampras. Per Nole Djokovic la vittoria comportava il ritorno al numero uno del ranking mondiale. Dopo il break conquistato nel quarto gioco del quarto set, sul 2 a 1 per Djokovic nel conteggio dei parziali, l’esito del match sembra scritto. Ma Roger non ci sta e ristrappa immediatamente il servizio a Nole.

La partita diventa spettacolo puro, una sequenza di colpi vincenti, con i 15mila spettatori del Centre Court a lustrarsi gli occhi davanti alle volée ricamate di Roger e ai passanti zigani di Novak. Federer perde nuovamente il servizio e il campione serbo vola fino al 5-2 e sul 5-3 si appresta a servire per la conquista dei Championships. Niente da fare, Federer non concede nulla e ritorna sotto. Sul 5-4 per Djokovic che risponde c’è il primo match-point che Roger annulla con un ace. Nel game successivo Nole perde il servizio a zero e successivamente il set (cinque giochi consecutivi vinti dal campione svizzero). Si va al quinto, con Djokovic che appare in difficoltà, sorpreso dalla reazione e forse anche dalla personalità dell’avversario. Il campione serbo è preoccupato e meno sicuro: l’occasione svanita ha lasciato il segno. Ma tiene, sul ciglio del baratro pericolosamente vicino. Come sul 3-3, quando deve fronteggiare una palla break, che annulla con un dritto vincente.

Queste sono le doti di Djokovic, agonista nato. Uno abituato a tirarsi fuori dall’inferno arrampicandosi su spuntoni e appigli che vede solo lui. Come quando, nel settembre 2011, semifinale degli Us Open, con Federer dall’altra parte al servizio nel match-point del quinto set, estrasse una risposta di dritto incrociato che si stampò sulla riga incenerendo il fuoriclasse di Basilea. E da lì costruì il trampolino per la vittoria dello slam americano.

Queste risorse così estreme, questo spessore, questa forza mentale, queste doti di temperamento sono ciò che mi fanno apprezzare Djokovic e sedermi dalla parte sbagliata del fiume. Sto con la minoranza, lo so bene. E non certo per snobismo o per ignoranza rispetto al valore irripetibile e forse ineguagliabile di Roger che, proprio per questo, rimarrà più a lungo nella storia di questo sport e dello sport mondiale. Non sminuisco nulla, dunque. Tutt’altro. Se qualcuno si sente più soddisfatto, posso persino dire che è un problema mio. Ammiro le doti di combattimento, la capacità di risalire quando è spacciato, la forza di volontà. Mi pare che quando il gioco si fa duro, spesso, se non ha problemi fisici, vince Djokovic. Anche gli incontri che dovrebbero finire in pareggio li vince lui. Come la finale di cui sopra, o la semifinale con Del Potro dell’anno scorso, sempre a Wimbledon. Vuol dire che c’è un fattore umano, un elemento interiore che gli dà qualcosa in più e gioca con lui.

Dopo la premiazione, al momento dei ringraziamenti e dei saluti al pubblico (una cerimonia che il calcio è lontanissimo solo da immaginare), Djokovic ha dedicato il trofeo alla futura moglie, al figlio che nascerà, ai genitori e al suo staff. Ma ha voluto ricordare, commosso, la sua prima coach, quella Jelena Gencic, allenatrice anche di Monica Seles e Goran Ivanisevic, morta nel giugno di un anno fa. Fu lei a scoprire le sue doti e a pronosticargli un futuro da numero uno del mondo quando aveva solo cinque anni e mezzo.

Nei primi anni Novanta in Serbia il tennis è uno sport poco praticato. È vero, stanno imponendosi a livello internazionale Monica e Goran, ma non sono certo l’espressione di un movimento diffuso. Sulla collina della località turistica di Kopaonik, proprio di fronte alla pizzeria che papà Srdjan e mamma Dijana gestiscono durante l’estate fuggendo dall’afa di Belgrado, il governo ha deciso di aprire una scuola di tennis. Il piccolo Nole trascorre ore davanti alla recinzione, aggrappato alle maglie metalliche, per seguire le lezioni. «Qualcosa nel ritmo disciplinato di quel gioco mi ipnotizzava», ricorda il campione serbo in Il punto vincente (Sperling & Kupfer, pagine 182, euro 16,90). «Alla fine, dopo avermi visto lì per diversi giorni, una donna mi si avvicinò. Si chiamava Jelena Gencic». Lo invitò a venire il giorno dopo. Lui si presenta con un borsone «pieno di tutto quello che avrebbe usato un professionista: racchetta, bottiglia per l’acqua, asciugamano arrotolato, maglietta di ricambio, polsini e palline, tutto in ordine e ben piegato». «Chi ti ha preparato la borsa», gli chiede Jelena. «Fui infastidito da quella domanda – ricorda ancora Djokovic -: l’ho preparata io!, sentenziai con tutto l’orgoglio dei miei sei anni».

«Chi ti ha preparato la borsa», gli chiede Jelena. «Fui infastidito da quella domanda – ricorda ancora Djokovic -: l’ho preparata io!, sentenziai con tutto l’orgoglio dei miei sei anni».

La Serbia è stata governata dalla dittatura comunista, ma nel cielo sopra Belgrado ora incombe un’altra minaccia. La voce che la Nato stia pianificando un attacco si fa sempre più insistente, ma nessuno ne sa nulla. I Djokovic escogitano un piano di sopravvivenza. «Per settantotto notti di fila la mia famiglia e io ci siamo nascosti nel rifugio antiaereo del palazzo di mia zia. Ogni sera alle otto una sirena annunciava il pericolo, allora tutti uscivamo di corsa dalla nostra casa. I boati si susseguivano fino all’alba: quando gli aerei volavano bassi il frastuono era terribile». Ma la guerra non riesce ad allontanare il piccolo Nole dal tennis. «Mi allenavo in luoghi di Belgrado ogni giorno diversi, e li sceglieva Jelena. Lei era sempre con me, mi aiutava a vivere normalmente. Andavamo dove c’erano stati gli ultimi attacchi, pensando che probabilmente in quella zona non avrebbero bombardato di nuovo. Giocavamo senza rete, sul cemento pieno di crepe». Qualche anno prima Nole aveva visto in tv Pete Sampras alzare la coppa di Wimbledon. E aveva giurato a se stesso che un giorno, al suo posto su quel campo, ci sarebbe stato lui.

Nell’immagine in evidenza: Novak Djokovic festeggia il trionfo di Wimbledon all’All England Lawn Tennis and Croquet Club (Matthew Stockman/Getty Images).