Attualità

Prendere lezioni dal Daily Mail

Cosa succede quando il sito di un tabloid inglese supera quello del NYTimes?

di Pietro Minto

Deve essere davvero dura essere il New York Times, di questi tempi. Deve essere difficile avere una storia secolare di gloria e prestigio, riassunta in soprannome scherzoso ma pregno di rispetto (grey lady: “signora grigia”, per via dell’alto rapporto tra testo-immagini che la contraddistingueva un tempo) mentre si affronta un presente così complicato, domandandosi quali – e quante – sorprese riserverà il futuro al simbolo del giornalismo anglosassone. È cominciato tutto nel 2005, quando nacque il primo news site pensato in toto per il web 2.0: l’Huffington Post, che in pochi anni arrivò prima a insidiare il primato del Times come “sito di notizie più letto del mondo”, per poi superarlo e staccarlo nella distanza.

La guerra tra testate giornalistiche “tradizionali” e gli aggregatori à l’HuffPo entrò così nel vivo verso la fine degli Anni Zero. Una guerra fredda, all’inizio, a cui seguì l’aprite il fuoco quando l’allora direttore del quotidiano Bill Keller, il 10 marzo scorso, firmò un corrosivo editoriale che sin dal titolo “All the Aggregation That Fits to Aggregate” (parodia di “All the news that fits to print – tutte le notizie che sono da pubblicare”, slogan storico del quotidiano newyorchese) sbretucciava il sito della Huffington. Una guerra bizzarra che (segno dei tempi?) si giocò sul fronte dei… gattini. Ecco un estratto dell’articolo, passato giustamente alla storia delle tenzoni giornalistiche:

La regina dell’aggregazione è ovviamente Arianna Huffington che ha scoperto che se si prende qualche gossip, un po’ di video con adorabili gattini, dei post scritti da blogger non pagati e notizie da altre testate; si mescola tutto in un sito internet aggiungendo un po’ di colonna sonora di sinistra, in milioni ti seguiranno.

Parole che risalgono al marzo 2011 e già sembrano lontane. All’epoca il New York Times aveva inaugurato da appena due mesi il paywall nel suo sito, rendendolo a pagamento una volta superato quota 20 articoli al mese. Una scelta necessaria per il giornale, che per continuare a produrre contenuto originale di qualità altissima deve spendere e quindi guadagnare, ma che si è trasformata in una sorta di resa nei confronti dell’HuffPo, che ha dilagato, superando in cifre la vecchia gloria. Una resa che ovviamente riguarda solo il numero di visite, non la qualità del prodotto.

La Corona colpisce ancora

Questo è il passato. La novità è che c’è un quotidiano che negli ultimi anni è cresciuto esponenzialmente, arrivando nel dicembre scorso a superare il sito del New York Times (complice anche il freno imposto dal paywall). Si tratta del Guardian? Del Washington Post? No, è il Daily Mail, il tabloid britannico noto per i suoi titoli strillati, la sua linea politica populista-conservatrice, la tendenza al nudo femminile – e tutti gli ingredienti-base dei tabloid inglesi. Il risultato è stato pesante: 45,3 milioni lettori per il Mail Online, 44,8 milioni per il Nytimes.com.

La notizia del sorpasso ha creato scalpore: vedere la grey lady scalzata prima da un superblog-aggregatore e poi da un “giornalaccio” inglese è sembrato un brutto presagio, segno di uno zeitgeist sorprendente. In realtà, è indice di un fenomeno più complesso, che non deve per forza far gridare “Al Piave! Al Piave!” ai fetecisti del Times.

La versione online del Mail è innanzitutto totalmente diversa da quella cartacea: come ha dimostrato Will Oremus su Slate, il lettore digitale e quello tradizionale del Daily Mail spesso non arrivano nemmeno a leggere le stesse notizie, tale è la separazione tra i due settori, seguiti infatti da due redazioni indipendenti. Se la carta predilige i temi cari al lettore britannico di tabloid (cronaca dal colore acceso), il web propone argomenti leggeri, intriganti, sexy. Come scrive Oremus:

Il suo successo è risultato dall’aver capito una lezione meglio dei suoi concorrenti: per avere successo in rete, non ci si deve limitare a fare una versione web del proprio cartaceo. Devi costruire un prodotto diverso, pensato per un pubblico diverso.

Abbiamo visto la differenza nel prodotto. Passiamo al pubblico. Il direttore del Mail Online Martin Clarke ha assunto Katherine Thompson, ex dell’Huffington Post (ancora lui), per organizzare una copertura mediatica extra-britannica e puntare al pubblico statunitense. Alle 25 persone che occupano la sede online inglese se ne sono aggiunte altre 20 distribuite tra Los Angeles e New York. E, a proposito di “pubblico diverso”, ecco che il 36% dell’audience online viene dagli Stati Uniti e “solo” il 27 dalla Gran Bretagna, madrepatria del Mail, dove l’edizione cartacea vende “a malapena” 2 milioni di copie al giorno.

Il New York Times ha commentato il sorpasso spiegando che i dati di comScore, società di marketing specializzata nel web, sommavano il numero di visitatori del Mail a quelli di “This is Money“, blog di finanza di proprietà del quotidiano inglese ma di fatto indipendente. «È come se ai nostri numeri aggiungessimo quelli del Boston Globe», ha risposto il quotidiano americano (il Globe è infatti di proprietà della New York Times Company). I dati del web sono interpretabili e spesso variano a seconda d’agenzia e agenzia ma l’evento è stato di portata storica, nel mondo del giornalismo online.

La possibile svista di comScore non deve comunque rallegrare il quotidiano newyorchese: se è vero che il loro target di pubblico è completamente diverso da quello del Mail, è anche vero che c’è un altro giornale inglese storico che sta esplodendo, e non è di certo un tabloid: si tratta del Guardian, quotidiano progressista secondo nel web britannico solo al Daily Mail. Nello scorso settembre il sito guardian.co.uk si è sdoppiato, creando guardiannews.com, edizione statunitense che promette di dare battaglia al New York Times nel suo stesso terreno. Quello delle notizie e degli approfondimenti di qualità. La sfida si terrà in un terreno senza gattini e donne svestite, e il Times, non può perderla.