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The Crash Reel: cadute dallo snowboard

Per prepararsi alle piste, un documentario su due giovanissime leggende dello sport dal destino diverso: storie di successo, fortuna, fallimento e accettazione. Ci sarà da piangere.

di Federico Bernocchi

Lo sentite nell’aria? Sì, esatto: si sta avvicinando il magico Natale. In città ormai c’è un freddo orribile, di quelli che non ci permette più di passare tutte le nostre allegre serate all’aperto, mentre in montagna sta già nevicando da un bel po’ di tempo. I nostri amici più fortunati (che spesso coincidono con quelli più antipatici, per essere buoni) sono già stati a sciare e hanno già postato film, filmati, video e quant’altro sui vari social network. Chi invece ha una normale vita da onesto operaio dell’entertainment, passa le sue serate sul divano. Esatto, lo stesso programma che avevamo un mese fa. La differenza è che ora abbiamo tirato fuori dall’armadio la copertina pesante. Insomma, i tempi sono maturi. Ci sembra sia arrivato il momento giusto per cominciare a consigliarvi un film “natalizio”. Procediamo con ordine: il titolo dell’opera è The Crash Reel, è diretto dalla due volte candidata all’Oscar Lucy Walker, regista e documentarista britannica, presentato al Sundance Festival nel 2013. Di cosa parla? Ci arriveremo, non preoccupatevi. Nel frattempo però, oltre alla coperta pesante, vi consiglio di tirare fuori anche i fazzoletti. Si piangerà, signore e signori. Si piangerà.

Questi due insopportabili bambini vincono tutto quello che si può vincere, soprattutto White a dire il vero. Ma quello che realmente fanno è alzare l’asticella di quello che è possibile realizzare con una tavola sulla neve

Avete mai sciato in vita vostra? Seguite gli sport invernali? Una volta scesi dalle piste, vi piazzate davanti al vostro televisore a seguire le imprese di vostri atleti preferiti? Allora sicuramente vi ricorderete di Kevin Pearce. Parliamo di un gigante, di un incredibile campione statunitense di snowboard. No, non stiamo parlando di Shaun White: questo si chiama Kevin Pearce, soprannominato KP, curiosamente le stesse iniziali del mio sportivo preferito in assoluto, Kenny Powers. Pearce e White hanno condiviso moltissimo della loro vita. Li separa solo un anno di distanza (il primo è nato nel 1987, White l’anno prima) e quindi, per forza di cose, si sono trovati fin da subito, una volta entrati a far parte dei professionisti, a darsi battaglia sulle piste da sci. Certo, gli snowboarder sono un po’ i nuovi surfisti, sono molto tranquilli, sembrano sempre stupefatti da droghe leggere, hanno i capelli lunghi e si salutano come degli hippies a Berkley nel 1968, ma la competizione è la competizione. Più che una competizione è forse lecito in questo caso parlare di guerra. E in guerra, si sa, non ci si tira indietro. I due cominciano molto giovani, più o meno sui 13 anni, in un periodo in cui la media degli atleti è molto più alta, all’incirca sei o sette anni più grandi di loro. Questi due insopportabili bambini vincono tutto quello che si può vincere, soprattutto White a dire il vero. Ma quello che realmente fanno è alzare l’asticella di quello che è possibile realizzare con una tavola sulla neve. I risultati diventano evidenti a tutti nel momento in cui Shaun White vince la medaglia d’oro per la prima volta alle Olimpiadi di Torino. Nel frattempo Pearce diventa una sorta di simpatico eterno secondo, incredibilmente promettente: ok, non arriva quasi mai primo, ma ha classe, stile, coraggio e si vede che sta crescendo. Nei quattro anni che separano Torino da Vancouver i due si allenano come i pazzi, continuano ad alternarsi sul gradino più alto del podio, fanno finta di essere amici pubblicamente ma si capisce che non si sopportano. Pearce e White rappresentano le due tipologie opposte di campione. Il primo è il classico ragazzone americano con una famiglia numerosa e una fidanzata bionda. È buono con tutti, simpatico, attento. Non vince, ma perché è imperfetto e può solo migliorare. White invece è una vera e propria rockstar, con tutti gli aspetti positivi e negativi che questa definizione si porta appresso. È una macchina, non sbaglia nulla sulle piste ed ha un carisma e una figura pubblica incredibilmente potente; amicizie importanti, fidanzate cambiate come gli sponsor che gli corrono dietro.

Pearce esce dall’ospedale e contro ogni parere medico e familiare si convince che se si allena può tornare a gareggiare. Tutti i medici gli dicono che se mai dovesse battere di nuovo la testa morirebbe quasi sicuramente

Dopo una lunga serie di anni in cui a farla da padrone è proprio lui, Shaun White, il 2009, l’anno prima delle Olimpiadi, è il momento d’oro di Pearce. Il ragazzo sembra non essere in grado di commettere alcun errore. Vince tutto quello che c’è da vincere e sembra avere un controllo, un possesso del mezzo assolutamente incredibile. La stagione si ferma e cominciano gli allenamenti per i Giochi Olimpici, con Pearce che è nettamente il favorito. Siccome parliamo dell’industria sportiva statunitense, gli allenamenti sono la cosa più pazzesca di sempre. I due si fanno costruire una halfpipe personale in due diverse località segrete e cominciano a provare dei tricks che noi comuni mortali abbiamo difficoltà a processare con la vista ma che loro fanno realmente. Uno di questi, eseguito su muri di neve alti 22 piedi (6,7 metri), è il temibile Double Cork. Shaun White se ne sta da solo, di nero vestito, e si allena senza alcuna distrazione tutto il giorno. Il simpatico Kevin fa il simpatico e si porta tutti i suoi amici per stare insieme perché lo sport è felicità e vivere con chi vuoi bene all’aria aperta. Il 31 dicembre del 2009 Kevin cade di faccia sulla neve proprio dopo un Cab Double Cork. Finisce in ospedale per più di cinque mesi con un serio danno cerebrale. Non vede più da un occhio, non è in grado di parlare, non ha più equilibrio, ha la parte sinistra del corpo in parte paralizzata. Insomma, per una sola caduta, tremendamente sbagliata, ha perso tutto quello che aveva. Le Olimpiadi vengono ovviamente vinte da White, mentre il nostro povero ragazzone deve reimparare a camminare correttamente. Ma se c’è una cosa che l’epica applicata allo sport ci ha insegnato è che con la forza di volontà tutto è possibile.

Non prova tristezza, non si rammarica del fatto che colui che un tempo era il suo eroe oggi abbia difficoltà a stare in equilibrio su una tavola. No: si imbarazza. Si vergogna

Kevin passa attraverso una lunga e dolorosissima riabilitazione. Il suo scopo è quello di tornare sulle piste a darsi battaglia con il suo nemico di una vita, Shaun. Il quale nel frattempo, in un solo anno di tempo, ha portato lo sport a un livello incredibile, quasi avverso ogni legge della fisica. Pearce esce dall’ospedale e contro ogni parere medico e familiare si convince che se si allena può tornare a gareggiare. Tutti i medici gli dicono che se mai dovesse battere di nuovo la testa morirebbe quasi sicuramente. Lui si allena, si impegna, ricontatta gli sponsor ma non c’è nulla da fare. Ed è proprio qui che forse il documentario della Walker da il meglio di sé. Fino ad ora è stato un canonico, mediamente emozionante, lavoro di recupero materiale di repertorio montato insieme per raccontare l’eterna lotta tra due atleti e l’incidente del povero Pearce. Dal momento in cui tutto sembra andare in una direzione ben precisa e già scritta (o meglio: già vista), invece si sterza inaspettatamente e si scova un’angolazione interessante. Ci sono due sequenze in particolare che sono esemplificative: nella prima Kevin torna sullo snowboard insieme ai suoi amici. Il gruppo si sta esibendo in una piccola competizione tra amici saltando un asticella. Tutti si vantano e si bullano facendo dei semplici e stupidi numeri. Un tempo Kevin era l’ispirazione per questi ragazzi, il punto d’arrivo, il traguardo da raggiungere. Oggi invece, a causa di quella caduta, non riesce nemmeno a chiudere il più semplice dei trick. Uno dei suoi colleghi, uno di quelli con cui il nostro ha condiviso tutto dall’inizio dei tempi viene intervistato e rivela, con estremo candore, che il loro amico non è più quello di un tempo e che vederlo in quella condizione lo imbarazza. Non prova tristezza, non si rammarica del fatto che colui che un tempo era il suo eroe oggi abbia difficoltà a stare in equilibrio su una tavola. No: si imbarazza. Si vergogna.

Più che un documentario sullo sport, sulla forza di volontà e sulla realizzazione dei sogni, The Crash Reel è un film che racconta la difficoltà di una persona ad accettare un dramma, una condizione per lui impensabile e insostenibile

L’altra sequenza interessante di The Crash Reel è ambientata in ospedale. Pearce passa a trovare il suo neurologo e l’equipe che ha seguito la sua riabilitazione. Mentre è in reparto gli viene presentato un ragazzo che ha subito un incidente molto simile al suo proprio mentre si allenava in snowboard. Il giovane è su una sedia a rotelle, è magrissimo, non riesce a parlare e ha delle evidenti cicatrici che gli attraversano tutto il cranio. Pearce rincuora il ragazzo, gli da delle virili pacche sulle spalle e gli dice cose come: “Non mollare mai! Vedrai che la situazione migliorerà!”. Un secondo dopo si gira verso sua madre, che è a un metro di distanza dal ragazzo, e con gli occhi pieni di terrore le chiede: “Io non ero messo così male, vero?”. Ed è in questo momento che capiamo che più che un documentario sullo sport, sulla forza di volontà e sulla realizzazione dei sogni, The Crash Reel è un film che racconta la difficoltà di una persona ad accettare un dramma, una condizione per lui impensabile e insostenibile. Kevin Pearce, dopo aver tentato in ogni modo di tornare in pista, si confronta ancora una volta con la sua famiglia, nello specifico con un fratello con la sindrome di down. In quest’occasione lo rassicura che non proverà mai più a gareggiare, a tornare a volare sulla neve, a fare la cosa che gli veniva meglio nel mondo e che più gli dava soddisfazione. Per lui è tutto finito, passato. Non può far altro che convincersi di questo e continuare a vivere la propria vita, facendo da testimonial per ragazzi che hanno dovuto affrontare tutto quello che ha passato lui. Ve l’avevo detto che sarebbero stati necessari i fazzoletti.

 

Immagine: Shaun White (in cima al podio) e Kevin Pierce (nel gradino sotto) alla fine di una gara degli Winter X Games di Aspen, Colorado, nel 2009 (Jonathan Moore / Getty Images)