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Cosa ci han detto davvero i ballottaggi

Dati alla mano, il Pd ha stravinto. Ha perso però quelle città in cui, nella sfida fra innovazione e conservazione, agli occhi degli elettori ha rappresentato la seconda. Un segnale di cui il governo dovrà tenere conto.

di Claudio Cerasa

Roma – Per capire chi ha vinto le elezioni comunali, e in particolare i ballottaggi di domenica, non bisogna girarci troppo intorno e basta semplicemente dire che alla fine dei conti il centrosinistra ha conquistato trentacinque città in più rispetto al 2009 e che il centrodestra, rispetto allo stesso anno, ne ha perse quarantotto, e che il Movimento 5 stelle, pur avendo ottenuto dei successi significativi, soprattutto a Livorno, ha conquistato, ai ballottaggi appena due grandi città: Livorno, appunto, e Civitavecchia. Il Pd di Renzi, dunque, ha stravinto queste elezioni, dopo aver già stravinto le Europee, e dopo aver già conquistato 107 province su 110 province. Il centrodestra ha conquistato Perugia e Padova ma è andato molto, ma molto male: ha perso anche dove era quasi scontato che vincesse, vedi il caso Pavia, vedi il caso Alessandro Cattaneo; ha vinto, quando ha vinto, solo con candidati rinnovatori, non troppo anziani, appoggiati da tutte le forze di centrodestra; e ha dimostrato ancora una volta che, senza la spinta generata dal voto d’opinione, a livello territoriale Forza Italia, la Lega Nord, per non parlare dei loro alleati, contano quanto il due di briscola.

Trovare un filo conduttore di questi ballottaggi non è dunque facile ma c’è un tratto che in qualche modo lega sia l’ascesa di Renzi alla conquista del Pd sia la sconfitta del Pd in alcune città importanti, come per esempio Livorno (dove la sinistra non perdeva da decenni), e anche Perugia e Padova (dove la sinistra governa da molto tempo). Il dato è questo: laddove il Pd non è riuscito a rinnovarsi, laddove il Pd non è riuscito a proporre alle primarie dei contendenti capaci di rottamare il partito delle tessere, dell’apparato, e capaci di conquistare elettori nuovi rispetto a quelli tradizionali, cosa capitata a Perugia, Padova, Livorno e Civitavecchia, tutte città che sono arrivate al ballottaggio con candidati legati un passato che Matteo Renzi ha rottamato arrivando alla guida del Pd. Laddove insomma non è successo tutto questo il Partito democratico ha perso, ha concesso una prateria ai suoi avversari e nel bipolarismo tra innovazione e conservazione, unico vero macro spartiacque della politica, specie a livello locale, è passata sempre dalla parte dei cattivi ed è stata regolarmente punita.

Il traino di Renzi è ovviamente un tema politico importante, perché per i candidati del centrosinistra arrivati al ballottaggio, avere la possibilità di agganciarsi al treno del segretario del Pd – e al voto d’opinione generato dalle elezioni europee – sarebbe stato utile e avrebbe probabilmente cambiato le carte in tavola. Ma ciò che davvero è successo ai ballottaggi, e ciò che davvero è successo con l’arrivo di Renzi alla guida del Pd, riguarda un tema politico molto diverso che potremmo sintetizzare più o meno così: gli elettori, quando possono, dovendo individuare un simbolo della conservazione, scelgono e rottamano tutto ciò che ricorda loro il vecchio Pci. E’ un messaggio che ancora funziona, che ha avuto un suo peso a Livorno, a Perugia, a Padova, in tutte quelle città dove per la prima volta si è presentata un’alternativa vera al vecchio regime ed è un messaggio sul quale in fondo surfa da mesi anche Matteo Renzi. E non c’è parola, non c’è riforma, non c’è annuncio di riforma, non c’è intervista in cui, tra le righe, il presidente del Consiglio, con malizia e spregiudicatezza, non cerchi di marcare il segno tra il “noi” e il “loro”. Tra il passato e il presente. Tra la prima e la terza repubblica.

Il messaggio di Renzi, finora, ha funzionato, vedi le Europee, perché il segretario del Pd è riuscito a intercettare, come ha fatto Grillo a Livorno e come ha fatto il centrodestra a Padova e Perugia, un elettorato nuovo, da un certo punto di vista – perdonate la parola – liquido, sfuggente, con nessun etichetta. Un elettorato che, generalmente, vota contro la politica dell’ancien régime e che si mostra più esigente di quello che gli stessi politici possono credere. Non c’è elezione, ormai, locale, europea, nazionale, in cui gli elettori non votino contro il ritorno alla prima repubblica. Renzi lo sa. Sa che non si vive di rendita. Ma deve anche sapere che gli elettori oggi osservano i leader con la stessa pazienza con cui osservano gli allenatori di calcio. Molta fiducia all’inizio. Grande passione. Grandi aspettative. Ma al primo pareggio fuori casa con il Castel di Sangro, e al primo “non possiamo cambiare le cose perché non ce lo permettono gli altri”, iniziano a mugugnare. Questo mese sarà importante per capire come Renzi riuscirà a capitalizzare il suo successo e rottamare la prima repubblica. Pubblica amministrazione, Senato, legge elettorale. E in un certo senso, ora come non mai, non essendoci nemici, l’unico nemico di Renzi, oggi, è lo stesso presidente del Consiglio.
 

Nella foto: Giorgio Gori, nuovo sindaco di Bergamo, con la moglie Cristina Parodi (Getty Images)