Attualità

Cookies, terrore e pantofole

Il mio undici settembre a Philadelphia. L'attacco contro New York visto da un campus universitario

di Anna Momigliano

Primo giorno di lezione alla University of Pennsylvania, Philadelphia. Il ventiquattresimo piano dell’High Rise North, l’edificio dal nome meno poetico di tutto il campus, è ancora addormentato: chi si sveglia presto il primo giorno di lezione? Sono da poco passate le nove quando suona il telefono. La mia coinquilina Liz, una Southern belle di Jacksonville, Florida che oggi fa l’archeologa all’Università della California, mi sveglia: che c’è una telefonata dall’Italia. È mio padre, dice che c’è stato un attentato a New York, che si è schiantato un aereo contro un grattacielo, anzi due.

Prima che voi pensiate male della mia reazione, devo premettere che a quei tempi mio padre era un po’ allarmista in materia di attentati: quando stavo in Israele, mi telefonava per ogni singolo razzo lanciato sulla Galilea anche se io abitavo un centinaio di chilometri più a Sud. Gli rispondo che sarà stato un incidente, di smetterla di preoccuparsi, grazie per avermi svegliato così vado a lezione.

«Non credo ci sarà lezione, Anna»

Va bene, niente lezioni. Stai tranquillo, ciao papà.

Shira la terza coinquilina, un’israelo-texana con la fissa di Tim McGrow che adesso fa il medico a San Antonio, si è svegliata. C’è mio padre che dice che c’è stato un attentato. A Tel Aviv? No, a New York. Qualcuno accende la tv. Per fortuna, troppo tardi per vedere l’impatto sulla seconda Torre.

Bussiamo alla alla porta delle ragazze di fronte. Ci apre Chermayn, una tipa malese con una passione per la cucina che oggi lavora per un’azienda farmaceutica a Singapore. Accendi la tv, Mina. Tutti la chiamavano Mina, non si è mai capito il perché. La Cnn, o forse era la Fox, trasmette le immagini della Torre Sud che sta collassando. Mina sveglia le sue due coinquiline: Luba, una ragazzona del New Jersey affiliata a una sorority molto figa che poi è tornata nel New Jersey per fare il medico pure lei, e Danielle, la weirdo del gruppo, che non ho mai saputo da dove venisse ma portava sempre solo camicette da bowling e adesso lavora nello staff di David Letterman, o così almeno sostiene Mina.

Luba ha un attacco isterico. La Fox, doveva essere per forza la Fox, mostra nonne e nipotini palestinesi che festeggiano. Ammazziamoli tutti, quei bastardi, facciamoli fuori. Le rispondo che non mi sembra il caso di ammazzare dei ragazzini indottrinati. Lei s’incazza, Shira si mette in mezzo e mi dice vatti a fare un giro. Torno nel nostro appartamento e in un momento di panico-del-panico tiro giù dalla porta tutta la paccottiglia che poteva identificare uno straniero come residente: la foto di Maldini, una vignetta di Vauro, una riproduzione di Léger (ok, Léger non faceva per forza straniero).

Sbollito, ma solo un po’, il panico-da-panico, torno dalle dirimpettaie. Anche Luba ha sbollito l’incazzatura. Danielle invece è raggelata, non parla. Le immagini in effetti sono raggelanti e lei è un tipo strano, nessuno ci dà peso. Due settimane dopo avremmo saputo che sua sorella maggiore, una copia di Danielle però adulta e senza camicia da bowling, lavorava nel 7 World Trade Center.

Fall-Stock-Old-Main

Abbiamo fame o bisogno di compagnia o entrambe le cose. Andiamo tutte e sei a Houston Hall, un edificio in stile gotico accademico sul genere Attimo Fuggente/Harry Potter dove l’università mette a servizio degli studenti spazi di ritrovo con accesso a internet, tv e un baretto passabile.

Sono TUTTI a Houston Hall. Be’, non proprio tutti, forse otto-novecento studenti, la maggior parte ancora con i pantaloni del pigiama e la felpa dell’università, qualche tipa ha pure le pantofole pelosone di Steve Madden, parte della divisa da sorority girl dell’epoca.

Tutti sono inchiodati alla tv. A un certo punto cominciano a passare di mano bicchieri di carta con caffè caldo. Poco dopo un gruppo di adulti – bidelli, counselor, professori? Mai indagato – cominciano a distribuire biscotti. Centinaia, migliaia di chocolate chip cookies per tutti gli studenti.

Passiamo buona parte della giornata tra biscotti, caffé, pantofole pelose e immagini agghiaccianti a rotazione continua. A un certo punto una signora adulta fa un discorso che nessuno riesce a seguire bene sulla necessità di stare vicini ai compagni che hanno famiglia a New York e sulla possibilità offerta agli studenti che vivono in grattacieli di essere ospitati altrove per la notte. L’High Rise North è un grattacielo, sennò perché lo chiamano High Rise? Luba fa cenno di non preoccuparsi.

Mio padre aveva ragione, sugli attentati. Però non aveva ragione sulle lezioni.

In serata Liz ed io siamo al Museo di Archeologia e Antropologia per vedere se “Doctor Fred” – un professore super-geek che insegnava storia della Via della Seta, che nei giorni successivi sarebbe stato bombardato dai reporter in quanto esperto di Afghanistan e che, a quanto mi risulti, oggi sta al National Geographic – per caso teneva ugualmente il suo seminario. Doctor Fred c’è. Ci siamo solo noi e un terzo studente, un biondino che viveva off campus, a West Philadelphia, e che racconta di essere stato insultato dai suoi vicini quando è uscito di casa con i libri in spalla. Tornatene nella tua torre d’avorio.

Doctor Fred fa un discorso che ci pare molto bello sull’università, che secondo gli altri professori deve sfornare good graduate student, buoni dottorandi, ma che secondo lui deve produrre gente in grado di pensare. Liz sarebbe diventata un’ottima graduate student e anche una bella testa. Ci siamo laureate tutte e due con Doctor Fred. Dopo la laurea, gli abbiamo spedito una scatola di latta verde piena di chocolate chip cookies.

Mercoledì le lezioni si svolgono come da calendario. Vige una regola non scritta secondo cui si possono tenere i telefonini accesi in classe. I telefonini squillano.