Attualità

Contro Shame

Il celebrato film di McQueen che somiglia alle spiegazioni di un sessuologo da talk show

di Mariarosa Mancuso

Si può aver da ridire su un film che svela le nudità di Michael Fassbender, premiato a Venezia con la Coppa Volpi? Si può, dopo che il critico collettivo ha celebrato la «coraggiosa interpretazione». Calarsi le mutande, come l’alcolismo o la follia, impressiona le giurie e suggerisce una recitazione di sublime intensità, anche se uno guarda nel vuoto con aria assente. Oppure sfodera il repertorio delle smorfie e delle mossette.

Scansiamo gli equivoci. Abbiamo goduto ogni sconcezza guardando L’impero dei sensi di Nagisa Oshima (per stare sui classici). E pure Shortbus di John Cameron Mitchell (per avanzare fino ai postmoderni). Possiamo confermare che il “Twitterific Gossip” a proposito di Shame – riferito da Andrew O’ Hehir su Salon – aveva i suoi buoni motivi. Non sufficienti a salvare un film che vorrebbe essere d’autore, e scatena il passaparola per via di un maschio nudo, neanche fossimo ai tempi di Hair.

Meglio sarebbe seguire gli insegnamenti impartiti alla bella Angelica nel Gattopardo: ammirare quel che viene messo in mostra, senza mostrare lo stupore di un’educanda. Soprattutto, senza farsi ricattare dal porno d’autore. Specialità dei francesi e degli austriaci, è il genere di film che ha immancabilmente per protagonista Isabelle Huppert. Ancora la ricordiamo mentre in La pianista (di Machal Haneke, dal romanzo del premio Nobel Elfriede Jelinek) annusa kleenex usati in un peep show. Oppure in Ma mère, il film che Christophe Honoré ha tratto nel 2003 dall’incestuoso delirio erotico di Georges Bataille.

Il regista Steve McQueen – nessuna parentela con l’attore di Getaway (Sam Peckimpah, anno 1972) – è londinese, nero, viene dalla videoart, ha avuto il Turner Prize. Dirige Shame con maniacale attenzione all’estetica. Vetrate con vista per appoggiarci il corpo nudo di una tra le molte femmine prese e lasciate. Occhiate assassine alla ragazza che in metropolitana stringe le cosce e si mordicchia le labbra. Lenzuola così meravigliosamente stropicciate che qualsiasi museo d’arte contemporanea le vorrebbe esporre come installazione.

Aggiunge una colonna sonora che ruffiana è poco, con il “Clavicembalo ben temperato” di Bach (assieme alle Variazioni Goldberg e al “Nessun dorma” pucciniano, sono nel repertorio che incanta lo spettatore a prescindere). Quando Carey Mulligan intona una straziante “New York New York”, senza accompagnamento musicale, vengono i brividi: l’unica scena del film, assieme a un tentato suicidio, che non sembra ripassata nel disinfettante.

Sotto la nudità, niente. Peggio: cascami esistenzialisti, sguardi vacui, sesso malinconico e spesso solitario. Il secondo film di Steve McQueen ricorda Hunger, vincitore a Cannes della Caméra D’or per il regista debuttante. Lo sciopero della fame dell’irlandese Bobby Sands (sempre con Michael Fassbender, scheletrico) era trasformato in un gesto artistico, in una performance. Le pareti della cella per protesta insozzate di merda si facevano quadro materico da esposizione. Nota per chi già allora ci ricoprì di insulti, per un giudizio estetico scambiato per giudizio politico: siamo recidivi (ma l’irrispettoso verso il martire irlandese semmai è Steve McQueen, noi facciamo i cronisti).

«Visual and sonic symphony», scrivono i sacerdoti del rito. Noi abbiamo visto un giovanotto erotomane a Manhattan, con un lavoro benissimo pagato e non meglio specificato. Primo errore: la divinità preposta al cinema, come il Dio celebrato dallo storico dell’arte Aby Warburg, sta nei dettagli. E come diceva James Ballard per spiegare la differenza tra cinema e teatro, oltre che le sue preferenze: al cinema un cespuglio è un cespuglio, a teatro – probabilmente anche nella videoart di Steve McQueen –  sta sempre per qualcos’altro. Non sappiamo neppure perché si affanni tanto tra le lenzuola, considerato lo scarso piacere che ne ricava. Sappiamo soltanto che, assieme alla sorella, ha avuto un’infanzia difficile in Irlanda: «Non siamo cattivi, è solo che veniamo da un brutto posto».

Sceneggiatura pigra, per non dire altro. Quando finalmente Shame entra nei dettagli, diventa banale. Dando allo spettatore la certezza che le scene mute e vaghe – dove chi guarda si trova a fare i compiti che in un bel film toccano al copione – sono una precisa strategia che sussurra «capolavoro». Brandon, così si chiama il personaggio, intraprende finalmente qualcosa di simile a un corteggiamento. Cena e poi letto. Naturalmente a letto non succede niente, con molte scuse e imbarazzo. Il celebrato film di regista d’avanguardia somiglia alle spiegazioni di un sessuologo da talk show.

Vengono in mente certi saggi scritti per spiegare che Don Giovanni ha un sacco di donne, ma però poverino non sa amare. O alla montagna di libri che indaga sulla tristezza del libertino (quel libertino: Giacomo Casanova invece era gioioso, mai capito perché uno sì e l’altro invece no). Una montagna di carta cancellata in un solo colpo dal fantastico Don Giovanni che ha inaugurato quest’anno La Scala. Robert Carsen mostra un libertino che allegramente sceglie i vestiti giusti per sedurre ogni donna che gli capita a tiro. E che a ogni donna fa da specchio, assecondandola. Questi sono registi, non i videoartisti che riciclano vecchiume affidandosi allo splendore della fotografia.