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Conoscete David Means?

Esce per Einaudi l'ultima raccolta di racconti dello scrittore americano, ex fratello letterario di Saunders, Wallace, Moody, Eugenides. Un'introduzione alla sua opera, punto per punto: dalle affinità con Carver al compito della "sua" letteratura.

di Cristiano de Majo

Parlerò di David Means, uno scrittore che mi piace leggere al punto da farmi sbilanciare con un inizio tendenzioso e magniloquente tipo che è uno scrittore di racconti che passerà alla storia, il migliore della generazione dei Burned Children of America, per usare la categoria poco critica ma comprensibile, mututata dalla celebre antologia anni Novanta con cui la casa editrice minimum fax censì la fertile nouvelle vague di scrittori americani nati intorno agli anni Sessanta.

Sebbene Means non fosse presente in quell’antologia, è senz’altro da considerare un fratello dei vari Wallace/Eugenides/Franzen/Moody/Homes/Eggers/Saunders eccetera eccetera. Alcuni di questi sono scrittori di racconti come Means anche se, a differenza di Means, non sono in via esclusiva scrittori di racconti. L’inizio tendenzioso e magniloquente rappresenta chiaramente una discutibilissima opinione personale che, tuttavia, tenterò di corroborare con alcune annotazioni rese più vivide dalla lettura dell’ultima sua raccolta di racconti pubblicata in Italia, uscita nel 2010 negli Usa con il titolo The Spot, e in questi giorni pubblicata da Einaudi come Il punto, nella traduzione di Silvia Pareschi.

Avendo sempre amato molto la scrittura di Means, avevo il timore che quest’ultimo libro si rivelasse anch’esso una delusione come altri libri recenti di scrittori di quella generazione. Posso vantare una deludente casistica  di scrittori americani che ho amato o apprezzato e che adesso non riesco più a leggere. Di regola le sensazioni che ricavo da questo sovvertimento critico sono principalmente due: 1) X mi sembra di colpo uno scrittore datato incapace di cogliere lo spirito del tempo 2) i fuochi d’artificio che fa esplodere Y per sorprendere il lettore lo allontanano dalle verità umane che dovrebbe cercare di cogliere con le sue storie, che quindi mi appaiono storie senza verità (lo confesso: gli ultimi libri di Saunders, di Lipsyte, mi hanno fatto quest’effetto). Ne parlavo con Francesco Pacifico qualche giorno fa. Anche lui mi diceva di vivere una contraddizione simile. Colpa nostra, che abbiamo quarant’anni e abbiamo letto molto di più di quanto avevamo letto a venticinque, ci chiedevamo, o colpa di questi scrittori che non sono maturati?  Avevo molto timore, ma invece Means non mi ha fatto quest’effetto. Così ho cercato di ordinare logicamente le mie sensazioni.

David Means, guardato da una certa prospettiva, potrebbe sembrare il cantore degli oppressi, il poeta della suburbia, il menestrello degli scali ferroviari, soprattutto il malinconico ritrattista dell’America post-industriale.

UNA TEORIA POSSIBILE: Means, a differenza di quasi tutti gli scrittori di quella generazione, non è uno scrittore satirico e non è uno scrittore sociale. Immaginatevi oggi, nell’aprile del 2014, davanti alla Tv a guardare gli sketch di Daniele Luttazzi, di Sabina Guzzanti, immaginate di ridere alle vignette di Vauro. Voglio dire che è come se quella generazione di scrittori americani fosse legata a doppio filo a un’epoca e che l’attività in cui quasi tutti si sono cimentati sia il ritratto deformato e distopico di un determinato contesto sociale e storico, una denuncia nascosta tra divertimento del lettore e virtusosismo tecnico (e consapevolezza letteraria) dell’autore. Passano gli anni e questo meccanismo non funziona più. Sabina Guzzanti diventa irritante. Luttazzi ci sembra senza idee. Vauro appare inutilmente offensivo, insopportabilmente retorico e fa un pochino pena. La cosa più strana in tutto questo è che a leggere superficialmente David Means se ne potrebbe ricavare un’impressione  opposta. David Means, guardato da una certa prospettiva, potrebbe sembrare il cantore degli oppressi, il poeta della suburbia, il menestrello degli scali ferroviari, soprattutto il malinconico ritrattista dell’America post-industriale.

L’INFLUENZA CARVERIANA è chiarissima nell’opera di Means. Il contesto – il fallimento della promessa americana – non è un personaggio, ma semplicemente lo scenario adatto a fare deflagare i conflitti degli esseri umani che si muovono all’interno. A Means non interessa il barbone come istanza sociale, piuttosto come motore drammatico. Means, come Carver, è un cercatore di verità sull’uomo in quanto essere singolo e non un virtuoso scienziato della società. Ma a differenza di Carver, che dà l’illusione di poter essere imitato, Means sembra inimitabile. Per chi voglia imparare a scrivere, Carver è nocivo perché esercita un’influenza tanto potente quanto occulta. (Lo testimoniano interi archivi di blog dimenticati in cui aspiranti scrittori scrivevano racconti alla Carver senza pensare di imitare Carver.) Non si può, invece, imitare Means senza pensare di imitare Means.

Questo, credo, perché la composizione letteraria di Means, all’apparenza semplice, è in realtà straordinariamente complessa, ricca di stratificazioni e del tutto peculiare. Nei suoi racconti c’è un primo livello, dato appunto dallo sfondo sociale e paesaggistico, che viene reso con una prosa lirica e malinconica, bellissima da leggere. C’è poi un secondo livello, che è quello del conflitto: un lutto, un tradimento, l’accadere della violenza e l’incedere caotico del destino sull’uomo, fatti che non sono mai spiegati per filo e per segno, ma molto spesso accennati, costruiti per omissioni progressive, raccontati come se l’autore conoscesse così bene ciò di cui parla e l’avesse analizzato da così tante prospettive da potersi permettere di raccontarli fino a un certo punto. E c’è un terzo livello di autoriflessione, cioè di scrittura che riflette sullo scrivere, in un modo che però si armonizza sempre con il racconto e non fa mai uscire il lettore dal flusso della narrazione.

Means, come Carver, è un cercatore di verità sull’uomo in quanto essere singolo e non un virtuoso scienziato della società. Ma a differenza di Carver, che dà l’illusione di poter essere imitato, Means sembra inimitabile.

LA METAFICTION di Means, in altre parole, pur essendo imprescindibile dal postmoderno riesce nel  miracolo di non risultare postmoderna. Ed è come se ogni suo racconto contenesse questa tasca segreta in cui puoi guardare solo se vuoi guardare, una tasca in cui si legge: sono uno scrittore che sta scrivendo un racconto e che crede che il compito della letteratura sia congelare il movimento della vita per poterne osservare ogni singolo istante a lungo e in profondità, non voglio illuderti che questa sia la vita, voglio solo farti vedere nitidamente la bellezza tragica della vita.

In quello che forse è il più bel racconto contenuto in Episodi incediari assortiti (minimum fax, nuova edizione 2013), intitolato “Il cacciatore di gesti”, un uomo, che ha perso il figlio in guerra, simbolica personificazione dello scrittore, gira per le strade a caccia di gesti puri: «Per stanare i gesti bisogna che siano loro a trovarti, che volteggino sulla tua strada come foglie morte sospinte dal vento». Ne trova uno, nella forma di un abbraccio di una coppia davanti a un’agenzia di pompe funebri, che gli fa percepire per la prima volta in modo chiaro il suo dolore, salvo scoprire qualche minuto dopo che era la scena di un film. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta Il pesce rosso segreto (Einaudi 2006), un pesce rosso in una vasca di vetro assiste al disfacimento di una famiglia, che viene raccontato dal punto di vista del pesce, per forza di cose parziale e incompleto, ed è quindi costruito attraverso i momenti in cui il fallimento famigliare entra in relazione con l’animale. Nell’ultimo racconto de Il punto, infine, intitolato “Il raccordo”, il protagonista è un barbone che ha affinato negli anni una particolare tecnica di racconto per farsi ospitare a cena in casa di estranei e indurre compassione in queste famiglie. Così Means fa diventare un racconto sul non morire di fame  un racconto sul raccontare: «Parlare con troppa sincerità significava esibire una nudità schietta e terrificante che avrebbe spedito la donna fuori dalla stanza – con una debole scusa – a telefonare dallo sceriffo. Per guadagnarti la sua fiducia  dovevi stare seduto in cucina e impegnarti a mantenere il giusto equilibrio, ricorrendo, come ultima risorsa, ai fatti della vita sulla ferrovia, citando un particolare raccordo, il funzionamento d’un meccanismo d’innesto, oppure spiegando come si leggono i semafori, per esempio, prima di effettuare un’ampia conversione e tornare alla natura generale delle tue sofferenze». Tutti e tre si possono leggere come racconti puri, rispettosi della tradizione, ma visti in filigrana è come se mostrassero la valigetta dello scrittore, incluse le sue riflessioni sul significato della letteratura.

Se poi si confrontano le tre raccolte tradotte in italiano (da noi manca solo  A Quick Kiss of Redemption, la prima del 1991), ci si accorge che la complessa impalcatura dei racconti di Means si avvale di alcuni, pochi, motivi ricorrenti. Attraverso i tre libri si possono trovare cioè tre o quattro tipologie che ritornano come se fossero spezzoni di un’unica e lunghissima riflessione sul tema. Il racconto sul tradimento, il racconto su una rapina o su un fatto di sangue, il racconto sulla perdita di un figlio o di un consorte, il racconto sul fuoco, che è un po’ il marchio di fabbrica dello scrittore ed è sempre una forma di interrogazione metafisica.

Leggendo Means si prova la sensazione di leggere uno scrittore che ha le idee chiarissime su quale debba essere il compito della letteratura.

GLI ELEMENTI NATURALI sono una parte fondamentale dello sfondo. Spesso c’è l’acqua sotto forma di laghi e di fiumi, come ne “Il punto” in cui uno sfruttatore di prostitute individua esattamente il punto in cui l’acqua di un fiume viene incanalata in un acquedotto cittadino e quindi «perderà ogni possibilità di diventare un onda, di baciare la riva e struggersi per tornare in mezzo al lago […] È il mistero del caso. Tutto può cambiare nel giro di un istante che tu lo voglia o no». Questa forte presenza di una natura spesso pericolosa,  inquinata, potente sembrerebbe servire proprio allo scopo di illustrare la dialettica tra caso e volontà, che a me sembra il problema filosofico che attraversa tutti i racconti di Means. E, appunto, il racconto sul fuoco è un esempio particolarmente eloquente di questa dialettica. In “Episodi incendiari assortiti”, che dà il titolo alla raccolta omonima, una voce racconta episodi di incendi che ha causato o di cui è stato testimone, alternando verità e finzione. Ne “L’uomo lampo” contenuta ne Il pesce rosso segreto, un uomo viene, casualmente e in momenti diversi della sua vita, colpito  da fulmini per otto volte. In “Alcuni fatti necessari a comprendere la combustione umana spontanea di Errol McGee” contenuto ne Il punto, un uomo muore prendendo fuoco in modo apparentemente spontaneo e tutto il racconto è una lista di possibili ipotesi su come la combustione sia potuta avvenire, ipotesi che, allo stesso tempo, delineano la storia di una vita. «Forse è semplicemente utile ricordare a se stessi che esistono ancora misteri occulti a portata di mano», si legge.

Uomini e donne che decidono (di tradire, di uccidere, di dare fuoco a qualcosa) e uomini e donne che non decidono (di essere traditi, di morire, di prendere fuoco). Cosa succede prima di queste decisioni, o prima che il caso faccia la sua parte. O cosa può succedere dopo. Leggendo Means si prova la sensazione di leggere uno scrittore che ha le idee chiarissime su quale debba essere il compito della letteratura.