Attualità

Com’è bello far l’amore

Cinema e amore. Brizzi con una commedia (in 3D) prova a spiegare il legame tra sesso e grande schermo

di Federico Bernocchi

Per la seconda settimana di seguito il campione del box office italiano è il film di Fausto Brizzi, Com’è Bello far L’Amore. Quasi 5 milioni di euro in totale, con un milione e mezzo guadagnati solo nell’ultimo weekend. Non proprio poca roba. E dire che ci si lamenta anche del fatto che durante il primo weekend di uscita, il pubblico ha disertato le sale a causa della neve. Nota personale. Rido da solo fortissimo a immaginare questa scena: piccola casettina fuori Roma. Figlio adolescente con pettinatura discutibile e madre, seduti sul divano, mangiano scorte di cibo in scatola che hanno sapientemente messo via anni prima, immaginando uno scenario apocalittico. Mentre questi guardano una televendita, il padre – disperato, con i capelli lunghi e la barba incolta come Tom Hanks in Cast Away – picchia i pugni sull’uscio di casa urlando: “Perché non possiamo uscire? Perché? Io che volevo andare al Cinema!”. Fine della nota personale. Fausto Brizzi, una delle penne più riconoscibili della formula cinepanettone Boldi e De Sica, il creatore della commedia teen nostalgica italiana (Notte Prima degli Esami), colui che è riuscito a serializzare la rom comtricolore tra Maschi Contro Femmine Femmine Contro Maschi, ha di nuovo vinto. E lo ha fatto con un film, a conti fatti, incredibilmente bizzarro.

Lo dico per scrupolo: ai fini di quanto si vuole qui esporre, sarò costretto a raccontarvi dettagliatamente l’inizio del film in questione. Lo dico per quelli puntigliosi: spoilerareCom’è Bello Far L’Amore non equivale a rivelare l’identità di Keyser Soze a uno che non ha visto I Soliti Sospetti, ma nel caso voi non vogliate proprio rovinarvi la sorpresa, potete esimervi dal leggere quanto segue. L’ultima fatica di Fausto Brizzi ha un incipit che in qualche modo lo collega direttamente a un altro film presente in sala in questo momento. Parliamo ovviamente di Hugo Cabret di Martin Scorsese. Come “ovviamente”? Eh, ve lo giuro: ovviamente. Hugo Cabret è una dichiarazione d’amore da parte di Scorsese al cinema delle origini, nello specifico a quello fantastico del grande Georges Méliès. Lo si omaggia con una rilettura dei suoi grandi classici, rimessi in scena e oggi riproposti al pubblico, sfruttando la moderna tecnologia del 3D. Per spiegarci meglio, con un parallelo azzardato e da prendere con delle pinze grosse come la Calabria: Hugo Cabret fa ai film di Georges Méliès, quello che TRON: Legacy ha fatto a TRON del 1982. Sfrutta possibilità che allora non c’erano per realizzare quello che già all’epoca si era immaginato. Hugo Cabret è una fiaba che nasconde tra le righe un amore incondizionato verso il mezzo cinematografico. Amore che Scorsese aveva già palesato nei suoi documentari Il Mio Viaggio nel Cinema Americano e nel suo impegno nel restauro di alcune vecchie pellicole. Il regista di Toro Scatenato omaggia a modo suo la Magia del Cinema dimostrando che le intenzioni di che usa il mezzo, sono le stesse oggi (data astrale 2012) di ieri (1900). Georges Méliès non solo è presente nel film perché interpretato da Sir. Ben Kinglsey, ma anche perché Scorsese ne ha recuperato l’idea cinematografica.

Com’è Bello Far L’Amore inizia a Parigi. Sfruttando anche in questo caso il 3D (di cui parleremo tra poco), ci immergiamo nelle piccole viuzze della città e approdiamo proprio nello studio dei due fratelli Auguste e Louis Lumiere. I due stanno decidendo cosa proiettare al Grand Cafè per il grande debutto del Cinema. “Si potrebbe far vedere l’uscita degli operai dalle fabbriche”, dice il primo. “Poco convincente”, risponde il secondo. Si potrebbe optare allora per la ripresa di un treno che arriva in stazione. Ancora poco convincente. Quand’ecco il colpo di genio: ecco cosa potrebbe soddisfare il gusto del pubblico! La ripresa della cugina Lumiere che si fa il bagno, spiata e filmata dai due fratelli da una finestrella posta sopra la finestra. Un po’ come farà un Alvaro Vitali anni dopo, spiando dal buco della serratura una Edwige Fenech intenta a farsi la doccia nelle commedie scollacciate dei tempo che furono. I Lumiere dunque, secondo questa rilettura, hanno sì inventato il Cinema, ma per prima cosa hanno ripreso un nudo femminile. Se rinunciamo a sterili indignazioni, degne del più noioso critico di pipa munito (esattamente quella che ha provato il sottoscritto durante la visione), possiamo anche sorridere di questa trovata. Ma le sorprese non finiscono qui.

Dopo questa rivelazione, fa il suo ingresso in scena Filippo Timi che, guardando in camera e interpellando direttamente gli spettatori, ci spiega l’utilità ultima del Cinema. E qual è la finalità del Cinema se non quella di indurre gli spettatori a fare all’amore? Il Cinema, nell’idea di Brizzi, serve per mostrare gente che parla di e che fa l’amore (si alza di colpo dal fondo della sala uno studente di Cinema al secondo anno che, rosso in volto, agita Che Cos’è il Cinema di André Bazin, tentando di spiegare che l’arte cinematografica ha dei limiti e che ci sono delle cose impossibili da riprodurre. La folla lo lincia senza pietà). Non solo: il cinema serve anche a ispirare il pubblico alla finalizzazione delle loro cocenti passioni. Ma tutto il cinema ha questo potere? Ci pensa ancora una volta Timi a svelare l’arcano: ovviamente no. Il cinema che più ispira alla copula e “il Cinema d’Autore”. Questa categoria è da intendersi, leggendo il Brizzi pensiero, come cinema palloso, noioso. La frase se non sbaglio è: “Se la gente figlia, è grazie a Maestri come Lars Von Trier o Marco Bellocchio”. Il perché è presto detto: la gente si annoia a vedere questi film in bianco e nero pieno di gente che sta male, per cui – non sapendo poi che fare – sfrutta la scusa del cinema per darsi alla pazza gioia, sessualmente parlando. C’è anche una sorta di rappresentazione di questo Cinema d’Autore: una sequenza con un infante, uin bambino ripreso in bianco e nero che raggiunge la madre, interpretata da Margherita Buy, che gli spiega che “la vita è una valle de lagrime, fijo mio!”.

Rimane da chiarire una questione: perché in 3D? Tolti i titoli di testa animati, che fanno svolazzare cuoricini e vibratori in faccia al pubblico in sala, c’è solo una sequenza in cui viene sfruttata la tridimensionalità. Filippo Timi, un po’ in rilevo rispetto allo sfondo, sta spiegando appunto che senza il cinema la nostra vita sessuale sarebbe un dramma. Per darci prova di questo pensiero lo vediamo passeggiare in una mensa di un ufficio. Qui ci introduce una coppia e ci mostra come funziona l’approccio e l’avvicinamento tra sessi in questi due scenari, immaginando però una realtà distopica, dove il cinema non è mai stato inventato. Un ragazzo si ferma a parlare con una ragazza: “Beh, ci potremmo vedere questa sera”. Questa risponde: “Perché no!”. E allora lui affonda: “Vuoi venire a casa mia a fare l’amore?”. A quel punto la ragazza si offende e tira uno schiaffone in faccia al ragazzo che per l’impatto, rovescia un piatto di patatine fritte proprio verso l’obbiettivo. Freeze frame con le patatine fritte in volo: ecco svelata la magia del 3D! Sembra di poter toccare quei tuberi fritti! È tutto molto bello. Ovviamente lo scenario si ripete poi nella nostra realtà, dove il cinema esiste. La proposta del ragazzo allora sarà non “vieni a casa mia a fare l’amore” ma una scusa molto più accettata come “Potresti venire da me a vedere un film!”. Scusa grazie alla quale i due, immagino, riusciranno a realizzare il loro sogno.

Ma ancora una volta? Perché il 3D? Nel caso di Scorsese è chiaro e abbiamo tentato di spiegarlo poco sopra. Nel caso di Brizzi? Perché sfruttare una tecnologia del genere per una commedia? La domanda rimane senza risposta. Oltre alle patatine in faccia, a Timi in primi piano rispetto al resto della scena e a un’inquadratura in cui De Luigi guarda pensieroso l’orizzonte in piedi su degli scogli, non sembra che la tridimensionalità sia particolarmente necessaria alla materia affrontata. A parità di fattori la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta. Il biglietto per Com’è Bello Far L’Amore in 3D costa due o tre euro in più rispetto a quello in 2D e quindi, perché no? Curioso pensare comunque che la tridimensionalità in Italia sia stata sfruttata solo per tre film di cui due comici, questo e Box Office di Greggio, e per un solo horror, l’invisibile (nel senso che non se l’è visto nessuno) Parking Lot di Francesco Gasperoni

Tornando al film di Brizzi, tutto quello che vi abbiamo descritto accade nei primi dieci minuti di film. Poi Com’è Bello Far L’Amore parte veramente e comincia a raccontare di coppie che hanno perso la passione per strada, di adolescenti deficienti e di porno star che a colpi di saggezza e di ferormoni di orango tango, risolvono la vita sessuale di noi poveri pirla. E, ok, lì Brizzi torna sui suoi binari e fa quello che gli riesce meglio. E che ha incredibile appeal sul pubblico (il botteghino parla chiaro, i dati numerici sono difficilmente contestabili). Ma questo incredibile incipit, rimane nella mente dello spettatore per giorni, settimane (e immagino mesi, anni) dopo la visione. Un’epifania, una rivelazione, un fulmine a ciel sereno. La gente va a vedere i film di Haneke per ingrifarsi e poi copulare selvaggiamente. Questo è quello che ci offre il cinema italiano oggigiorno. Prendere o lasciare. Voi che fate?