Attualità

Clancy Martin

Intervista a Clancy Martin, autore di Come si vende (Adelphi). In cui si parla di editor, Cormac McCarthy e panini

di Timothy Small

Introduzione:

Non sono molto bravo con le scadenze. Anzi. Sono pessimo, con le scadenze: affermazione comprovata dal fatto che l’ultima uscita di Sandwiches risale al novembre del 2011. Una delle ragioni di questo straordinario ritardo è che la seconda Sandwiches doveva essere un’intervista con Clancy Martin. Dopo la prima puntata, riuscii a organizzare un’intervista con Clancy a dicembre dell’anno scorso.

Per chi non lo sapesse, Martin è l’autore di un pluripremiato romanzo (Come si vende, uscito per Adelphi nel 2010, romanzo semi-autobiografico che narra della sua adolescenza e post-adolescenza nel marcissimo mondo dei gioiellieri nel Texas degli anni 80), molti toccanti racconti antologizzati su riviste letterarie come McSweeney’s, Granta e NOON, nonchè svariati articoli per Harper’s, il London Review of Books e la Paris Review che trattano di alcolismo, arte contemporanea e molto altro ancora. Clancy ha anche curato un libro sulla filosofia della disonestà, e ha pure tradotto Kierkegaard e Nietszche in inglese. E, per chiudere, il Prof. Martin insegna filosofia alla University of Missouri-Kansas City, ha tre figli, due ex-mogli, e ha avuto un sacco di problemi con la droga e con l’alcol. Insomma, non è un pirla qualsiasi.
Per tornare al ritardo, quindi: come mai il pezzo esce solo oggi, se ci parlai a dicembre? Beh, in poche parole, quel fatidico giorno d’inverno mi scordai di registrare la conversazione. Capita! Ci avevo messo un mese e mezzo a far coincidere un mio pomeriggio libero con un mattino libero di Clancy; trovarne un’altro è stato ancora più difficile. Ma non impossibile.

Disclaimer:

Clancy l’ho pubblicato due volte nella mia rivista letteraria, The Milan Review, il cui prossimo numero, in uscita a dicembre, sarà interamente dedicato a una sua nuova novella che editerò io stesso, quindi bon, questo pezzo è pieno zeppo di conflitti d’interessi.

Intervista:

Tim: Cavolo, Clancy, la nostra conversazione l’ho persa. Peccato. È stata una bellissima chiacchierata.

Clancy: Eh, lo so. Ci eravamo proprio trovati.

E i nostri lettori non lo sapranno mai. Ma ti ricordi di cosa abbiamo parlato?

Sì, più o meno. Se vuoi puoi farmi domande su quello.

Prima di tutto, ti avevo fatto una sviolinata su quanto sono onorato di essere il tuo editore, e di fare pure l’editing sulla tua prossima novella, che alla fine sarà praticamente un romanzo.

Sì! E poi io ti dissi qualcosa come, “No, l’onore è tutto mio.” E mi pare che avessimo parlato del ruolo dell’editor.

Sì, tu avevi parlato di Gordon Lish, e io avevo parlato di Gary Fisketjon.

Entrambi super-sottovalutati. Cioè, magari la gente interessata alla letteratura sa chi è Gordon Lish, ma il pubblico non lo sa davvero. Perché, alla fine, l’editor non è un ruolo pubblico. Ho sempre pensato che uno scrittore, per usare un’analogia anche banale, è come un tizio fortunato che trova una pietra con un paio di parti brillanti, e la da in mano all’editor, che ne tira fuori un diamante.

Amie Barrodale mi diceva che secondo lei il rapporto tra scrittore ed editor è più simile a una storia d’amore segreta.

È vero. È una cosa privata, tra due persone, ed è intensa, e gli altri non solo non la capiscono, ma non possono manco entrarci. E le due persone, assieme, lavorano per creare qualcosa di bello. Ed è una cosa davvero intima, e privata, a tal punto che un partner spesso si ingelosisce, viene percepito come un rapporto potenzialmente pericoloso. L’ho provato sulla mia stessa pelle. Anche la fine del libro è come la fine di una storia. Quando non si sta più insieme, c’è una sensazione come di perdita, e poi, se ci si rivede, è quasi assurdo ricordare di aver passato assieme dei momenti così intensi.

Incontri la tua vecchia editor per strada e sei imbarazzato e le dici, “Ti vedo in forma. Ho sentito che hai uno scrittore nuovo”.

Hahaha. Sì, e lei risponde, “Sì, è vero, ho uno scrittore nuovo. E tu?” E tu rispondi “Beh, io ho una nuova editor.” E ognuno per la sua strada.

Già. Ma, come dicevamo, la differenza è che nessuno, la fuorì, sa chi ha editato un libro. Mentre tutti sanno chi è l’autore.

Ecco, sì, quindi forse il rapporto è più simile a quello tra un uomo e la sua amante.

Ho sempre trovato strano che l’editor di un romanzo non venga creditato nemmeno un poco, manco in una riga a piè pagina in terza di copertina.

Sì, è una cosa molto strana. Magari cambierà. È così anche per le riviste. La gente che lavora in redazione spesso ci mette molto di suo nella riuscita di un articolo, però poi se quell’articolo vince il Pulitzer, il redattore non viene nemmeno menzionato. L’unica cosa che puoi fare, come scrittore, è ringraziare il tuo editor a fine libro. Sai, in quella specie di breve racconto che va tanto di moda, in cui gli scrittori ringraziano tutti i loro amati.

Mi pare che avessimo anche parlato di come alcuni editor abbiano influenzato intere generazioni di scrittori. Parlammo appunto di Lish, ma anche di Diane Williams, la grandissima editor di NOON.

Beh, NOON è la rivista di Diane. E in quei casi, tutti lo sanno. Tutti sanno che George Plimpton era l’uomo dietro alla Paris Review. E quando la gente pensa all’epoca d’oro della short story americana, pensa subito a Gordon Lish. Diane ha una visione editoriale molto forte, e a volte riscrive quasi interamente i racconti che le arrivano. Poi, chiaro, pubblica un sacco di scrittori diversi, che vanno da quelli più… “leggibili”, diciamo, come me o Brandon Hobson, fino a quelli iper-sperimentali, come Gary Lutz.

E nel mezzo ci sta Deb Olin Unferth.

Esatto, nel mezzo ci sta Deb. Però sai, se non provi simpatia verso il minimalismo e verso un certo di tipo di sperimentazione, farai fatica a trovare racconti che ti piacciono dentro NOON. Ricordo bene di come la prima volta che lessi Lydia Davis, che ora è una delle mie eroine, rimasi completamente perplesso. Non capivo cosa stesse facendo.

Stessa cosa che ho provato io. Parlammo anche della differenza tra gli scrittori “trasparenti” e quelli che ti fanno costantemente pensare all’atto della scrittura. Se non sbaglio feci un paragone tra te e Ben Marcus, che è totalmente nella seconda scuola, mentre tu sei quasi completamente “trasparente”.

Sì, parlammo di Ben, ricordo. Parlammo anche di… Beh, direi che uno dei miei eroi per quanto riguarda l’uso del narratore e la costante ricerca della trasparenza dello scrittore, di cercare di rendere l’atto dello scrivere invisibile, è Dostoevskij, mentre l’esempio lampante di chi mette l’atto della scrittura al centro dell’attenzione è Gertrude Stein. Penso che, in poche parole, sia la differenza principale tra il romanticismo e il modernismo. E la Stein è praticamente l’estremo del modernismo. Perché anche Joyce, alla fine, quando cerca di incorporare tutti questi stili diversi nell’Ulisse, non lo fa per portare attenzione sull’atto in se, ma piuttosto sui limiti della lingua inglese, o anche del linguaggio in senso lato. Più che illuminare l’atto della scrittura, illumina i possibili processi artistico-linguistici. Mentre gente come la Stein, e anche Foster Wallace, cerca di dirti: guarda, questo è quello che fa uno scrittore quando scrive, e questo è quello che fai tu quando leggi. Non cercano di fregarti con l’illusione di un altro mondo. Anzi, ti mostrano proprio come funziona quell’illusione.

E ti piace?

Io penso che sia un’ambizione nobilissima. Ma, per quanto mi riguarda, mi interessa di più la creazione di un mondo. Mi piace l’atto della lettura e mi piace creare quella sensazione nel lettore. Mi sento parte, per dire, di quella tradizione che parte con Omero e raggiunge il suo apice in gente come Cervantes, o addirittura Shakespeare. E poi ci sono quelli che cercano di fare la stessa cosa oggi, come Jonathan Franzen.

O Stephen King.

Sì, esatto.

Ricordo che leggere The Dome fu un’esperienza assurda: tutto accovacciato attorno a un librone da 1200 pagine, che pesava forse due o tre chili, e facevo fatica a tenerlo in mano, dopo un’ora, ma continuavo a leggerlo e leggerlo ed è stata forse la lettura più veloce della mia vita. Avrò letto 1200 pagine in una decina di ore. E penso che ci voglia un sacco di disciplina e un sacco di stile per riuscire a scrivere così.

Certo. È difficilissimo. Hemingway disse che il romanzo d’esordio dev’essere il più veloce. E quando stavo scrivendo Come si vende continuavo a pensare a quest’idea, volevo farlo andare il più veloce possibile, però volevo infilarci dentro anche dei voli pindarici e delle finzioni narrative più complesse… cose che un sacco di critici non hanno nemmeno notato. E quindi… Ma ora sto seguendo un consiglio di Franzen. Non leggo mai le mie critiche.

Tu e Franzen siete abbastanza vicini, ora, mi pare.

Sì, assolutamente. Non ci conoscevamo, prima dell’uscita del mio romanzo. Ma poi lo lesse, e gli piacque, e abbiamo iniziato a sentirci, e da allora siamo amici. È uno ottimo mentore. Ed è stato molto fermo nell’impormi di non leggere le critiche. Dice che fa male allo scrittore sia in termini psicologici che in termini di scrittura.

Già. Non parlammo anche di Cormac McCarthy?

Sì, perché mi stavo lamentando di quegli scrittori che fanno inciampare il lettore apposta nella loro scrittura. E parlammo di Meridiano di sangue come esempio di un romanzo in cui la scrittura, l’atto della narrazione, è tutt’altro che veloce, però rimane comunque trasparente, e quando lo leggi non provi altro che piacere di lettura. E notammo come, di libro in libro, McCarthy è diventato sempre più trasparente.

Già. Io ti avevo confidato che secondo me i suoi primi tre romanzi—Figlio di dio, Il guardiano del frutteto e Il buio fuori—sono fantastici, e che Meridiano di sangue è il suo romanzo migliore. Il suo apice, per quanto riguarda il suo “primo periodo”. Ed eravamo d’accordo. Ed eravamo anche d’accordo che la Trilogia della frontiera, invece, era un po’ pacco.

Sì, beh, la Trilogia sembra un brano degli U2.

Haha. Adesso ricordo. Da lì passammo a Non è un paese per vecchi—grandissimo, grandissimo romanzo, e ci trovammo nuovamente d’accordo sul fatto che sia pure il miglior film dei fratelli Coen. E poi da lì parlammo del tuo film!

Già. Teoricamente, è in produzione, ma chissà. Doveva adattarlo William Monahan, quello che ha scritto The Departed… ma gli studios poi lo bloccarono perché, a quanto pare, nei tempi di crisi nessuno vuole vedere film in cui essenzialmente dei gioiellieri cocainomani fregano i risparmi a dei cittadini sventurati vendendogli Rolex falsi o comprando diamanti perfetti a duecento dollari.

Assurdo. È l’esatto contrario! La gente non vede l’ora di incazzarsi col sistema.

Che ti devo dire. Dicono che è troppo “dark”. Secondo me non lo è. Secondo me, è semplicemente vero. Ma pare che il concetto di “verità” sia relativo, sai.

E cos’altro? Ah, già! Mi raccontasti del tuo panino preferito.

Certo! Il Siciliano. Lo prendo da questo delicatessen italiano a Kansas City. Si chiama Mia Mamma’s Cucina. È un panino con salame, pomodoro, lattuga, peperoni, e capocollo. È il mio panino preferito. Lo amo. Ne mangerò uno a settimana.

E io ti raccontai la mia teoria secondo la quale il panino preferito è un ottimo test per capire se andrai d’accordo con qualcuno. Prima di tutto, se uno ti dice che non gli piacciono i panini—

Non puoi fidarti!

Esatto!

È come avere gusti simili in fatto di libri.

È come dire a una persona che hai appena conosciuto, “Sai, ho sempre preferito Fitzgerald a Hemingway”. Se l’altro ti dice, “Anche io!” È fatta. Amici per sempre.

Sì. Mi ricordo, un po’ di tempo fa ero a una festa in una camera d’albergo a New York, e c’erano tutti questi giovani scrittori “interessanti”—anche famosi. Ma non posso dirti i loro nomi. Almeno non nell’intervista. E uno di loro era un critico molto rispettato, uno tizio che non me la raccontava giusta, però. Uno che scrive per il New Yorker e Harper’s. Gli chiesi, “Tu sei più Tolstoj o Dostoevskij?” e tieni a mente che questo è uno che insegna Céline, ma parla solo dei suoi pamphlets e del suo anti-semitismo, che sono senza il minimo dubbio le cose meno interessanti di Céline. E mi dice “Secondo te?” E io, “Beh, spero tu sia più Dostoevskij.” E lui, “No, sono più Tolstoj.” E ho capito tutto. Ho capito perché questo tipo mi puzzava un po’. Non c’era da fidarsi!

Haha. Beh, Clancy, grazie! Spero di non doverti intervistare una terza volta.

No, direi che due bastano.