Attualità

Città del Messico, il mostro e i suoi quartieri

Una storia che continua a riemergere, il fascino dei quartieri posh, lo street food e le tradizioni. Guida minima a una capitale che non ha nulla di scontato.

di Eugenio Cau

Continua Studio Viaggi, una serie di pezzi incentrati su posti di vacanza, o perlomeno in cui si è stati a passare parte dell’estate, da leggere in queste settimane d’agosto, con cui vi accompagneremo nei prossimi giorni. Qui la prima puntata, Lanzarote, qui la seconda, Capri, qui la terza, Antiparos, e la quarta, il GiapponeBuona lettura.

Le antiche rappresentazioni di Tenochtitlán, la capitale della civiltà azteca raffigurata dai primi conquistadores spagnoli, mostrano una città da sogno. Un’isola piatta fatta in parte di campi artificiali in mezzo al lago Texcoco, collegata da innumerevoli ponti alle altre città che la guardano riverenti dalla costa, con il Templo Mayor, struttura maestosa con due piramidi, una dedicata al dio sotterraneo e acqueo Tláloc e l’altra al dio-colibrì Huitzilopochtli, a dominare sulle abitazioni. I primi spagnoli che videro la città nel 1519 hanno lasciato testimonianze di assoluta meraviglia. Ma dopo la conquista e la morte dell’ultimo imperatore azteco bonificarono il lago Texcoco, rasero al suolo la città e iniziarono a costruire la capitale che conosciamo oggi, Città del Messico.

Gli spagnoli hanno provato in tutti i modi a prosciugare e sotterrare il passato azteco di Città del Messico, ma ovunque si guardi quello riemerge. Riemerge nelle fondamenta della grande cattedrale, riemerge negli stipiti istoriati delle case del centro, è riemerso, nel 1978, in uno dei più emozionanti ritrovamenti archeologici di sempre. L’hanno fatto alcuni operai della compagnia dell’energia elettrica che durante i lavori in centro, vicino al Zócalo, la piazza centrale, trovando un gigantesco bassorilievo circolare di pietra vulcanica raffigurante una donna smembrata e caduta a terra. Il capo archeologo messicano, Eduardo Matos Moctezuma, che porta il nome dell’ultimo imperatore azteco, notò subito che quella donna era la dea Coyolxauhqui, e senza nemmeno iniziare gli scavi capì che gli operai avevano trovato il Templo Mayor, il monumento più grande della civiltà azteca, che era rimasto sepolto per quasi cinquecento anni senza che nessuno fosse stato capace di trovarlo. Il perché lo diceva il mito. Coyolxauhqui era la sorella di Huitzilopochtli, il dio-colibrì, che lui stesso aveva smembrato e gettato dalle alture di un monte al momento della sua nascita (i miti aztechi sono quasi sempre vietati ai minori). Se il corpo smembrato della sorella era in quel punto, voleva dire che Matos Moctezuma e gli operai si trovavano ai piedi del monte di Huitzilopochtli, il Templo Mayor, appunto.

Aerial view of Mexico City's main square

Oggi gli scavi e il museo del tempio, a due passi dal Zócalo, una delle piazze più grandi del mondo, su cui si affaccia la maestosa cattedrale, sono una delle prime attrazioni sulle guide di Città del Messico. Ma pochi turisti sanno che, come il ritrovamento della città di Troia a fine Ottocento, anche nel Templo Mayor la mano degli archeologi è stata guidata dal mito. Città del Messico non è una città azteca in nessun suo aspetto. È stata fondata dagli spagnoli sulle rovine di Tenochtitlán, ed è una meravigliosa città coloniale. L’antico, in teoria, non dovrebbe esistere più. Ma riemerge, appunto, perché la capitale messicana è una città in cui le linee di confine si confondono e si mischiano.

Se siete in città a settembre, potrete assistere per esempio alla festa della Vergine di Guadalupe (l’8 del mese), che si tiene nella basilica cittadina dove è conservata la sacra immagine ed è probabilmente il più grande evento di devozione cristiana del mondo, per numero di partecipanti e intensità, capace di far impallidire le Lourdes e i Santiago de Compostela. Pochi giorni dopo, il 15, nella grande piazza del Zócalo si terrà la Festa dell’indipendenza, in cui migliaia e migliaia di messicani riuniti ascoltano il loro presidente gridare tre volte «¡Viva México!», in un dispiegamento di retorica e parafernalia nazionalisti ormai spariti quasi del tutto in Europa. Vi sembrerà di visitare una città – un Paese – pio e conservatore, ma fatevi un giro nella Zona Rosa, il quartiere gay e uno dei tanti centri della movida messicana (andateci, e poi chiedetevi quante città europee hanno un quartiere gay così vitale), e capirete che Città del Messico è abbastanza grande per contenere in sé contrasti a volte stridenti, e soprattutto che è culturalmente preparata a esaltarli.

Andate a Plaza de las Tres Culturas, dove la città ha innalzato un monumento proprio ai contrasti che hanno forgiato il Messico. Le “tre culture” sono quella spagnola dei conquistadores, quella india dei conquistati e quella messicana che è nata dalla loro unione, consacrata dal nazionalismo ottocentesco come frutto benedetto del meticciato (questa parola è malvista in mezzo mondo, ma in Messico è il centro del discorso nazionale). Plaza de las Tres Culturas è conosciuta anche come Plaza de Tlatelolco, dall’antica città gemella di Tenochtitlán che lì sorgeva e di cui ancora si scorgono le rovine. Qui nel 1968 il regime messicano, caduto nel 2000, uccise decine, più probabilmente centinaia di studenti che protestavano per la democrazia. Un inno all’apertura del meticciato e un memento della repressione tirannica. Città del Messico è tutta così, e Plaza de las Tres Culturas è un buon punto di partenza intellettuale per capire la capitale messicana e i suoi contrasti.

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I grandi monumenti del centro devono occupare i primi giorni della visita, e il consiglio è dedicare un po’ più tempo del previsto ai musei e ai parchi. Godetevi la toponomastica. Il bel parco di Chapultepec (i messicani lo chiamano Bosque de Chapultepec), con il castello sei-settecentesco che fu abitazione dei re francesi e che oggi è adornato da murales di Diego Rivera, significa per esempio “collina del grillo” in nahuatl, la lingua degli aztechi. Poi i musei: non solo l’immancabile museo archeologico. Due consigli sono il museo Franz Mayer, che ospita una collezione di arte decorativa imponente, una biblioteca di storia dell’arte e importanti esposizioni temporanee in un contesto antico e lussureggiante, e il Museo Casa Ruth Lechuga, dove troverete arte popolare messicana della dottoressa Ruth D. Lechuga, ebrea austriaca scappata dal nazismo e innamoratasi del Messico.

Dopo aver visto il centro, riprendete la cartina della città. Ricordate, anzitutto, che per i messicani Città del Messico si chiama Distrito Federal, DF (de-efe). La città è divisa in delegazioni, distretti amministrativi enormi che possono ospitare anche mezzo milione di persone, a loro volta divisi in colonie, quelli che possiamo chiamare quartieri. Cerchiate in rosso questi nomi: Iztapalapa, Doctores, Tepito. Sono i più famosi quartieri malfamati della città, due dei quali – Doctores e Tepito – molto centrali. Se Doctores è un quartiere residenziale, Tepito sorge dietro alla cattedrale, è famoso per il culto della Santa Muerte e per il suo mercato, vivacissimo, ma sapete i rischi.

Riprendete la cartina e cerchiate in blu questi altri nomi: Condesa, Alvaro Obregón, San Ángel, Roma, Polanco. Sono i quartieri più posh della città, insieme alla già citata Zona Rosa, dove si concentrano i migliori pub (antros per i messicani), locali, librerie, luoghi di ritrovo, divertimento e rimorchio, spesso per giovani messicani altolocati e stranieri. Nella Condesa, la libreria-bar El Pendulo è presente in tutte le classifiche delle librerie più belle del mondo, mentre il Pata Negra è un locale leggendario e ancora un punto di riferimento (da non perdere il chiosco di hot dog lunghi tre spanne che staziona subito fuori). Ad Alvaro Obregón, l’omonima avenida ospita tutte le domeniche un mercato dell’antiquariato dove si trovano chicche rare. Anche il mercato di San Ángel è un piccolo gioiello radical chic. Nella Roma invece (si dice così: la Roma, con la r molto arrotata) i locali sono così tanti e alla moda che viene quasi voglia di cercare la semplicità di un posto come El Transpatio, che come fa intuire il nome è un locale-ristorante all’aperto agghindato come il giardino dietro casa.

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I contrasti di Città del Messico si confermano allontanandosi dal centro, tendenzialmente moderno, e andando verso Coyoacán, quartiere meridionale che ha mantenuto le sembianze di un pueblito di provincia. Il luogo è fortemente turistico, perché Coyoacán, oltre a essere meravigliosa, ospita la Casa Azul, abitazione-museo dove hanno vissuto Frida Kahlo e Diego Rivera e che genera un culto a sé stante. Ma al mercato, in mezzo alle stole e ai teschi colorati made in China, il cibo è ancora gustoso e poco igienico come dovrebbe essere.

In generale, a Città del Messico il cibo semplice è tendenzialmente il più buono. Considerate la maledizione di Moctezuma come un rito di passaggio per accedere alle meraviglie gastronomiche dello street food messicano. Dimenticate i piatti tex-mex che mangiate al ristorante etnico in Italia, a Città del Messico non servono burritos. Qui i tacos la fanno da padrone, e la specialità locale è il “taco al pastor”, servito con carne e ananas, che da solo è un inno al meticciato perché la carne è tagliata da un grosso kebab importato probabilmente dagli immigrati libanesi. Se non mettete la salsa piccante siete delle fresas, fighette. Dalla cucina del Messico meridionale, la capitale prende in prestito piatti come il mole poblano, pollo con salsa di cacao, e i tamales, forme di pasta di mais conservate in foglie di banano e vendute da venditori in bicicletta che si aggirano per tutta la città. Alle bancarelle i più arditi non resteranno delusi dagli esquites, bicchieri pieni di mais con maionese, limone e formaggio, da gustare con il cucchiaino, o dal chicharrón, pelle di maiale fritta e croccante come le nuvole di drago al ristorante cinese.

Una delle cose di cui ci si accorge appena arrivati, inoltre, è che la Corona è di gran lunga la peggiore delle birre messicane, che sono tutte fresche, leggere e buonissime. Birre caraibiche e non trappiste, ma stupende (e anche il vino, in Messico come in tutta l’America Latina, inizia finalmente a farsi valere). La tequila la conosciamo tutti, ma un discorso a parte invece va fatto per le pulquerias, locali dove si beve pulque, bevanda alcolica che nasce dalla fermentazione dell’agave e che è una delle passioni messicane. Nelle pulquerias, locali spesso minuscoli, è quasi impossibile trovare turisti per una semplice ragione: il pulque ha una consistenza un po’ viscida e un sapore particolare che lo rende poco apprezzato dagli stranieri, ergo le pulquerias sono da frequentare assolutamente. Ne consigliamo due: la pulqueria Las Duelistas.

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Ognuno a Città del Messico ha il suo locale. Quello di chi scrive si chiama La Faena, è una cantina (luogo di bevute per vecchi messicani) in pieno centro storico, a cui si accede da un ampio portone e attraverso un corridoio polveroso. L’insegna dice: «Restaurante e museo taurino», perché le pareti senza finestre della Faena sono piene di vetrine inquietanti con vecchi costumi da torero e quadri di corride. Le sedie sono di plastica e le tovagliette ai tavolini sdrucite, ma alla Faena servono una sopa azteca (altro piatto tipico) che secondo alcuni è la migliore cura esistente all’hangover post antro.

Altre cose da fare a Città del Messico: inseguite i mariachi. A Plaza Garibaldi troverete le band da assoldare per una serenata; a Xochimilco, la Venezia messicana, saranno loro a salire sul vostro barcone per suonare per voi. Oppure inseguite gli studenti. A sud della città c’è l’Unam, l’Università nazionale autonoma del Messico, la migliore università dell’America Latina con un campus gigantesco costruito in architettura modernista, parchi interni, alcuni musei di rilievo e una squadra di calcio che gioca nel campionato nazionale.

A gennaio il New York Times ha eletto Città del Messico come prima meta da visitare quest’anno. Non è una scelta scontata. Di tutti i luoghi del Paese, dalle meraviglie naturalistiche al nord alle coste caraibiche alla foresta tropicale da cui spuntano piramidi Maya a sud, la capitale è sempre stata niente più che lo scalo aeroportuale per raggiungere mete più ambite. I messicani chiamano la loro capitale il monstruo, il mostro, città tra le più grandi del mondo perennemente sull’orlo di una qualche crisi, dalla corruzione al sovraffollamento all’inquinamento. Negli anni Novanta, sentenziò uno studio scientifico circolato a lungo, l’aria della città era così inquinata dagli effluvi delle discariche che dalle analisi era possibile rilevarvi tracce di materia fecale. Le cose sono cambiate così tanto, da allora, che Città del Messico è in cima alle classifiche posh degli esigenti giornali americani.

Immagini Getty Images.