Attualità

Cinque storie per l’infanzia che ho riletto anche da adulto

Da Cappuccetto Rosso all'inquietante Peter Pan: i classici libri per bambini riletti con una lente interpretativa si scoprono densi di significati all'apparenza invisibili. Grazie anche all'aiuto di Bruno Bettelheim.

di Cristiano de Majo

Nei giorni passati mi ha molto colpito la vicenda del Monte Livata. E non solo per il fatto che, nonostante sia finita bene, è uno di quei tipici casi di cronaca in grado di calamitare il nostro giudizio e quindi di dividere il mondo in innocentisti e colpevolisti (Perché questo accanimento mediatico? vs. Come si fa a trascinare due bambini di 4 e 5 anni in un camminata di ore sulla neve e per di più con il telefono scarico?), ma soprattutto per i suoi elementi fiabeschi – una donna e due bambini dispersi in un bosco innevato, una grotta… – confermati, tra l’altro, da alcune dichiarazioni della donna successive al ritrovamento: «In questa storia non c’è nessun orco cattivo». Sarà che ho due figli gemelli di due anni e mezzo e che, da qualche mese a questa parte, mi tocca rileggere loro almeno una storia al giorno; storie che spesso sono ambientate in boschi innevati e in cui spesso, se non sempre, il padre o la madre si allontanano dai propri figli, quando non li hanno proprio abbandonati, così che i piccoli protagonisti sono costretti a cavarsela da soli.

Al principio della mia attività di padre-lettore ho avuto spesso il timore che le vecchie fiabe della tradizione europea fossero troppo cattive, truculente, brutali per dei bambini così piccoli, ma ho finito per cambiare idea dopo aver letto Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, nel quale il noto psicologo infantile perora la causa delle fiabe truculente, giudicando  quelle moderne spesso inadeguate a comunicare con l’inconscio del bambino: «Se si prendono queste storie come descrizioni della realtà, le fiabe sono veramente immorali sotto tutti gli aspetti: crudeli, sadiche, e chi più ne ha più ne metta. Ma come simboli di accadimenti o problemi psicologici, queste storie sono perfettamente veritiere […] Le fiabe pongono il bambino onestamente di fronte ai principali problemi umani». Anche se le tesi di Bettelheim mi convincono completamente – «La cultura dominante preferisce fingere, soprattutto quando si tratta di bambini, che il lato oscuro dell’uomo non esista» – non mi sento di assumere posizioni integraliste e trovo che vi siano alcune magnifiche storie per bambini cosiddette moderne che vale la pena leggere.

In questa lista a tema Befana/Monte Livata, ci sono 5 storie per l’infanzia che non potete non raccontare ai vostri figli, se ne avete, ma anche leggerle da adulti vi assicuro che è bello, fosse solo per il fatto che vi si riconoscono gli elementi fondamentali di ogni narrazione e quindi, o almeno così è stato per me, anche il fascino, il mistero, il senso, ridotti all’essenziale, di una storia.

1. I tre porcellini, declinata in numerose varianti, è una storia che può sembrare anche troppo semplice e rozza. Inizia con tre fratelli con sembianze suine che vanno via dalla casa dei genitori perché sono diventati grandi e  decidono di costruire una casa ognuno per sé in mezzo al bosco. Ha sicuramente un messaggio morale riconducibile alla vecchissima lezione della Cicala e della Formica e cioè: per vivere bene e al riparo dai pericoli bisogna faticare e impegnarsi (principio di piacere vs. principio di realtà), ma nella mia esperienza rappresentano il più digeribile e morbido contesto dove inscenare la prima apparizione del lupo. E cioè: il male, il lato oscuro, il pericolo. Sono rimasto veramente colpito dall’immediatezza con cui i miei figli hanno recepito questa figura simbolica che da mesi accompagna i loro giochi. Per Bettelheim: «La cattiveria del lupo è qualcosa che il bambino piccolo riconosce nel proprio intimo: il suo desiderio di divorare, e la sua conseguenza: l’angoscia di poter subire anche lui una sorte del genere. Quindi il lupo è un’esteriorizzazione, una proiezione della cattiveria del bambino, e la storia dice come essa possa essere affrontata in modo costruttivo». L’insegnamento critico che se ne può trarre è che se ogni cattiveria letteraria è, in fondo, una proiezione del nostro lato oscuro, il lupo è il primo lampante esempio di immedesimazione negativa nella nostra vita di lettori.

2. Cappuccetto rosso: palinsesto per eccellenza del lupo cattivo è forse la fiaba più citata, remixata e parodizzata di sempre. Piena di violenza (lo sventramento del lupo), simboli sessuali (il capuccio rosso color di ciclo mestruale, il lupo che giace a letto con la nonna),  ambiguità edipiche (sempre secondo Bettelheim: «il padre è presente in Cappuccetto in due forme opposte: come lupo che incarna i pericoli di violenti sentimenti edipici, e come cacciatore nella sua funzione protettiva e salvatrice), è l’archetipo narrativo della perdita dell’innocenza». In Cappuccetto rosso il mondo non è un posto proprio rassicurante e questo la rende, nonostante i moltissimi elementi magici, una storia realistica.

3. Tra le varianti di Cappuccetto, mi è capitato di imbattermi nel ciclo dei Capuccetti (rosso, giallo, verde, bianco) di Munari. Munari è un genio, ma non credo che il suo brevettato metodo educativo sia caratterizzato dall’oscurità auspicata da Bettelheim. Le sue varianti di Cappuccetto sono dunque storie poco traumatiche e da un certo punto di vista possono risultare insoddisfacenti e non in contatto con l’esperienza come l’originale. Anzi, leggendole, si ha proprio la sensazione che l’intenzione di Munari fosse ironizzare sulla fiaba tradizionale e quindi deviare dai suoi terribilmente seri significati psichici. Ma dal punto di vista visivo sono uno spettacolo. Per esempio le pagine fitte di alberi e fogliami in Cappuccetto verde, o le immagini di Napoli che fanno da sfondo a Cappuccetto giallo, dove il lupo guida una macchina e Capuccetto riesce a sfuggirgli creando, grazie all’aiuto dei suoi amici canarini, un ingorgo di traffico.

4. Restando in tema fiaba non tradizionale anche se è oramai diventata un classico contemporaneo, non sono molto originale a considerare Nel Paese dei Mostri Selvaggi di Maurice Sendak un capolavoro. Ibrido tra moderno e tradizionale, con mostri buoni e spaventosi al tempo stesso, e disegni al tempo stesso realistici (da quadretto intimo) e fantastici (da fantasy), come tutti sanno è stato adattato per il cinema da Spike Jonze con l’aiuto di Dave Eggers come sceneggiatore. La storia è molto semplice: il piccolo Max si maschera da lupo e inizia a combinare guai in tutta la casa e la madre per punizione lo manda a letto senza cena urlandogli: “Sei un mostro selvaggio!”. Tutto normale, se non fosse che nella sua camera inizia a crescere sui muri e sul soffitto una foresta e poi si forma un mare, che Max si mette a navigare con una barchetta fino a raggiungere il Paese dei Mostri Selvaggi. Qui il bambino riesce a domare i mostri e diventare il loro re, ma poi la nostalgia di casa prende il sopravvento. Il significato o il messaggio non è immediatamente chiaro, di certo anche in questo caso qualcosa che riguarda l’eterna lotta tra principio di piacere e principio di realtà, ma è tutto molto strano, e un po’ pauroso e un po’ ridicolo, per ricavarne una morale certa.

5. Peter Pan lo metto alla fine, pur essendo la prima vera storia con cui i miei figli sono entrati in contatto, ovviamente non nella sua versione originale, rappresentata dal romanzo di James Barrie Peter e Wendy, ma nella versione Disney, poi declinata in alcune pubblicazioni di scarso valore di cui siamo stati costretti a rifornirci subissati da una insistente domanda di merchandising in ogni forma. Però, per fatti miei, ho iniziato a leggere il libro e, con mia grande sorpresa, anche a finirlo. Peter e Wendy mi piace perché, come anche il suo evidente figlio letterario Pippi Calzelunghe, è la storia delle storie per l’infanzia, una meta-fiaba costruita attraverso un patchwork di estetiche (pirati, fate, indiani) e che non lesina in quanto a risvolti oscuri e ambiguità letterarie ed extra-letterarie. Non è una scelta casuale, per esempio, che Philippe Forest in Tutti bambini tranne uno (che già dal titolo italiano cita la frase d’apertura di Peter e Wendy: «Tutti i bambini tranne uno crescono»), prenda passi di questa storia per accompagnare il racconto della morte per tumore della figlia di tre anni. Un’interpretazione adulta di Peter Pan è che si tratti di un bambino morto – per questo non cresce – che accompagna i viaggi nell’oltrevita di tutti i bambini. Interessante motivazione extraletteraria: James Barrie aveva un fratello che morì più o meno all’età apparente di Peter e che lui, dopo la morte, finì in qualche modo per impersonare dal momento che era il prediletto di sua madre. Ma i rimandi extra-letterari non finiscono qui e molto ci sarebbe da dire sui piccoli Lwellyn Davies, veri e propri compagni di giochi di Barrie, e sui loro genitori, morti prematuramente e vittime, secondo alcuni, dell’influenza nefasta dello stesso Barrie. Chi fosse interessato ad approfondire, può leggere l’accurata biografia di Piers Dudgeon intitolata Capitvated, qui basta dire che l’ultimogenito Peter, che ispirò quantomeno nella scelta del nome il protagonista della storia, si suicidò a sessantatré anni, nel 1960, buttandosi sotto un treno della metropolitana di Londra, a qualche giorno dal centenario della nascita dello scrittore.

A proposito di quello che Bettelheim chiama “il lato oscuro dell’uomo”.

 

Nell’immagine, Maurice Sendak, una tavola da Nel paese dei mostri selvaggi