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Cillian Murphy, l’anti-hollywoodiano

Ritratto (sentimentale) dell’attore irlandese in occasione della nuova stagione di Peaky Blinders, la serie culto di Bbc diretta da Steven Knight.

di Silvia Schirinzi

Se dovessi scegliere il film interpretato da Cillian Muphy che amo di più, probabilmente sarebbe un testa a testa tra 28 giorni dopo (2002), l’horror fantascientifico di Danny Boyle ambientato in una Londra devastata da una particolare forma di rabbia, e Breakfast on Pluto (2005), diretto da Neil Jordan e ispirato all’omonimo romanzo di Patrick McCabe del 1998, in cui Murphy interpreta Patrick “Kitten” Braden, giovane transessuale nell’Irlanda degli anni Sessanta e Settanta. Da questi due film, tanto per cominciare, si possono tirare fuori delle immagini bellissime: quella di Jim in tuta verde da ospedale che cammina spaesato sul Westminster Bridge deserto, oppure quella di Kitten in impermeabile di vinile nero, sottile e felina come Twiggy. In mezzo c’è lui, che ci hanno descritto negli anni a partire dagli occhi trasparenti e gli zigomi di marmo, la pelle coperta di lentiggini e la voce profonda, l’attore di cui sappiamo solo quello che è necessario a comporre una biografia essenziale, fatta di eleganti rimbalzi a giornalisti chiassosi, che troppo spesso gli fanno le domande sbagliate.

Classe 1976, originario di Douglas nella contea di Cork, sposato dal 2004 con l’artista Yvonne McGuinness, la sua fidanzata di sempre, due figli, vegetariano per quindici anni ma recentemente riconvertito alla carne a causa del suo ruolo in Peaky Blinders – la serie diretta da Steven Knight che torna oggi su BBC 2 con la quarta stagione – londinese per quattordici anni ma recentemente ritornato in Irlanda, a Dublino, perché come ha raccontato al Guardian «a un certo punto vuoi passare più tempo con i tuoi genitori quando iniziano a diventare anziani e vuoi che i tuoi figli crescano consapevoli della cultura da cui provengono». E perché, potremmo aggiungere, l’Irlanda è la costante della sua produzione artistica, il filo conduttore che unisce idealmente Disco Pigs (di Kirsten Sheridan, 2001) a Il vento che accarezza l’erba (di Ken Loach, 2006), Breakfast on Pluto a Free Fire (di Ben Wheatley, 2016), che arriva in Italia il prossimo 7 dicembre.

Questo è, sulla carta, Cillian Murphy. Non ha nessun profilo social, neanche di quelli puramente pubblicitari, IMDb segnala fra le altre cose che non ha uno stylist personale, che solitamente non partecipa ai talk show televisivi, arriva alle premiere da solo e conduce uno stile di vita che potremmo definire senza sbagliare sobrio. Non sa neanche cos’è un meme e va bene così, ci vorrebbero più quarantunenni che non sanno cos’è un meme, ma Cillian Murphy reagisce alla notizia (al minuto 3:26) di essere lui stesso un meme (“Disappointed Cillian Murphy”, solo per raffinatissimi), con quella cortesia ricercata che caratterizza quasi tutte le sue interviste e che racconta bene di come l’attore negli anni abbia costruito il suo, riluttante, profilo pubblico. D’altronde stava parlando di Brexit e del suo ruolo in The Party, la commedia antropologica diretta da Sally Potter, e i meme sembravano fuori luogo.

Un po’ come quella volta che è andato, eccezionalmente, da Stephen Colbert per promuovere Dunkirk e non si è prestato a nessuno di quei taciti convenevoli che questi show richiedono. Quando il presentatore si dichiara un suo ammiratore lui ringrazia educatamente ma non ricambia (niente “grazie per avermi invitato” o “è un piacere/onore/sogno essere qui”), sorride affettato all’ennesima battuta sul suo perfetto accento americano (“non sapevo fossi irlandese”, “ma dai, davvero?” risponde senza prestarsi al gioco preferito degli host d’oltreoceano, far sciorinare agli attori i loro idiomi originari), non dà seguito a nessuno dei luoghi comuni sul folklore irlandese. Finisce, involontariamente forse, per mettere l’esperto Colbert in difficoltà. È l’unico cattivo a essere comparso per tre volte di fila in un film DC, nel ruolo dello Spaventapasseri dei Batman di Christopher Nolan, che l’ha voluto anche in Inception e Dunkirk e lo avrebbe fatto diventare Batman, se non fosse esistito contemporaneamente Christian Bale.

È «old-fashioned», direbbe lui, uno di quegli artisti a cui piace che sia il suo lavoro a parlare per lui, così come gli piace promuovere campagne di beneficenza e organizzare festival culturali nella sua Irlanda. No all’attivismo social, sì a quello locale. Che sollievo sapere che dev’essere uno noiosissimo, fuori dai suoi personaggi. O che non abbiamo nessuna idea di chi sia nella sua, di realtà. Occasionalmente si presta anche alla moda, come quando ha girato un video per la prima linea uomo di Stella McCartney, diretto da Sean Ellis, e sembrava quasi stesse per uniformarsi. Solo che poi all’evento di lancio non s’è mica presentato, perché magari è uno che si prende tanto sul serio e poi la sua parte l’aveva già fatta. Ora è pronto a ritornare in tv nei panni del gangster di origine Gipsy Tommy Shelby, nella serie tv d’autore che annovera tra i suoi fan tutta Hollywood e dintorni, la stessa per la quale David Bowie e Nick Cave hanno messo spontaneamente a disposizione la propria musica. Perché Cillian Murphy, d’altronde, è uno come nessun altro.

 

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