Attualità

Chi non vincerà le elezioni inglesi

Oggi si vota in Inghilterra: come si è arrivati allo stallo attuale e perché chi insegue il populismo ha meno chance di governare bene.

di Federico Sarica

Ci siamo: dopo mesi di campagna elettorale, oggi, di giovedì come da tradizione, si vota nel Regno Unito per eleggere il Parlamento. La situazione, come noto, è abbastanza confusa: secondo tutti i sondaggi molto probabilmente, alla chiusura dei seggi, nessun partito avrà una maggioranza tale da poter formare un governo in solitudine. Non solo: sono molto a rischio, sotto il profilo dei numeri, anche possibili coalizioni bipartitiche simili a quella uscente, che ha visto i liberal-democratici di Nick Clegg entrare nel governo conservatore guidato da David Cameron. Nulla di nuovo si potrebbe obiettare; del resto buona parte dei governi europei si basa su coalizioni più o meno grandi e più o meno litigiose, frutto di elezioni che non hanno saputo esprimere un vincitore unico. Vero, ma contiamo che stiamo parlando del paese che dal 1945 al 2010 ha visto alternarsi al governo due soli partiti: i conservatori e i laburisti. La destra e la sinistra, la sinistra e la destra, aiutati da un sistema elettorale estremamente maggioritario. Che è successo quindi? Come siamo arrivati a questo grado di incertezza massima in uno dei sistemi bipartitici più celebrati (o detestati, a seconda dei gusti) al mondo?

L’analisi del “come siamo arrivati qui” ha occupato gran parte di una campagna elettorale per altro giudicata noiosa e poco incisiva dalla maggior parte degli addetti ai lavori, ed è in effetti il tema dirimente di questa tornata. Una tesi diffusa è che il livello di sfiducia nelle istituzioni di gran parte dei cittadini abbia oltrepassato la soglia della credibilità e dell’efficacia della politica, allontanando gli elettori dalle urne e dai partiti di riferimento, finendo per frammentare i blocchi storici. Una tendenza acclarata, almeno a livello europeo, sostenuta dalla crescita di vari partiti e movimenti anche molto diversi fra loro ma finiti per praticità sotto il cappello unico del populismo. Per intenderci: dal Movimento 5 Stelle di Grillo allo Ukip di Farage, dal Front National francese a Syriza in Grecia, dalla sinistra di Podemos in Spagna alla destra olandese anti euro e anti immigrazione guidata dal biondo Geert Wilders. A questo va aggiunta la peculiarità tutta britannica di un partito come quello nazionale scozzese che sta vivendo il suo momento d’oro in seguito al referendum sull’indipendenza dello scorso settembre. A poche ore dal voto il sito specializzato electionforecast.co.uk attribuisce infatti allo Scottish National Party la bellezza di 52 seggi in parlamento su 650 disponibili. Tantissimi.

Inquadrata così, la situazione apparirebbe abbastanza chiara: è finito il tempo dei grandi partiti nazionali, sta iniziando quello degli outsider, dei paladini dell’anti politica, delle forze civiche e delle formazioni locali, localiste e separatiste. C’è un però: se fosse così e solo così molti dei movimenti elencati prima sarebbero al governo o starebbero per andarci. E invece: Grillo in Italia arriva sempre mediamente terzo, la Le Pen in Francia praticamente anche, lo Scottish National Party ha perso da pochi mesi il referendum della vita. Fatta eccezione per il governo guidato da Tsipras in Grecia, dove però il tutto è precipitato più che altrove, la situazione, più che di cambiamento epocale, è di stallo. La Gran Bretagna, in questo, non fa eccezione.

«Se sei un lettore del Guardian moderato, one-nation, seguace di Blair, per favore, vieni allo scoperto e vota per noi»

E allora forse vale la pena tentare una lettura diversa di questo stallo, rispetto a quella corrente che lo vuole causato dalla fine dei partiti così come li abbiamo conosciuti. Un paio di giorni fa, nel forcing elettorale a sostegno del proprio partito, il sindaco conservatore di Londra Boris Johnson ha rivolto un appello ai lettori del Guardian, per tradizione il giornale della sinistra inglese: «Siamo un partito conservatore compassionevole, one-nation, che ha a cuore tutti nel nostro paese e sono più preoccupato che mai al pensiero di quello che potrebbe combinare un partito laburista andato così a sinistra e alleato al partito nazionalista scozzese. Se sei un lettore del Guardian moderato, sensibile, one-nation, seguace di Blair, per favore, vieni allo scoperto e vota per noi».

Johnson, in sostanza, cerca di allargare in extremis il bacino elettorale del proprio partito e, in coda a una campagna per buona parte volta a scaldare i cuori del proprio elettorato tradizionale da parte dei due grandi partiti, prova a rimettere un piede al centro degli schieramenti, in uno spazio lasciato appunto paradossalmente vuoto sia dai conservatori che dai laburisti. Perché se c’è un effetto reale conseguente alla crescita dei vari campioni dell’anti-politica è certamente quello di aver costretto a una rincorsa spaventata verso gli estremi i due grandi partiti tradizionali, impauriti dal pensiero di perdere anche gli elettori duri e puri, quelli movimentabili con le vecchie e care parole d’ordine: la sicurezza e la deregolamentazione a destra, la riduzione della distanza fra ricchi e poveri a spese dello stato a sinistra. Lo stallo quindi, più che alla crescita di movimenti fino qui outsider e spesso irrilevanti, è molto probabile che sia dovuto al ripiegamento su se stessi dei due grandi partiti.

Schermata 05-2457150 alle 07.52.52La cover dell’Economist sulle elezioni

Non è un caso che l’Economist, giornale che, secondo propria definizione parteggia per «un centro radicale: libero mercato e una società più aperta e meritocratica» abbia deciso di spendere l’endorsement ufficiale a favore di David Cameron e dei conservatori, considerandoli più affidabili sui dossier economici ma non mancando di sottolinearne alcuni aspetti deleteri, a detta sempre del giornale inglese, quali una visione anti-europea miope e con le gambe corte. E i laburisti di Ed Miliband? Il loro è «statalismo mascherato da progressismo», dice l’Economist, spiegando che un conto sarebbe ingegnarsi a provare a usare le casse pubbliche per dare nuova spinta all’economia, un conto è proporre di entrare mani e piedi nel libero mercato per cercare di regolarne in qualche modo i destini. Insomma, un Labour troppo a sinistra e dei conservatori troppo a destra, fatto salvo che per parte delle ricette economiche.

È una tesi, questa del centro lasciato sguarnito e dell’elettorato fluttuante orfano di un’offerta politica più rotonda, ben argomentata da Ben Judah su Politico Europe qualche giorno fa, in un pezzo dedicato all’eredità di Tony Blair e alla sua incombenza sulle elezioni di oggi. Judah sostiene che, col peggioramento della reputazione personale del fondatore del New Labour, si sia in qualche modo deciso inspiegabilmente di resettare anche il molto che c’era di buono nella sua proposta politica. Scrive Judah: «sebbene il brand Blair si sia offuscato, quello del blairismo non necessariamente dev’esserlo; e nessuno ha prodotto delle prove efficaci che dimostrino che la Terza Via e la formula post ideologica del blairismo siano state rigettate dall’opinione pubblica inglese. Al contrario, ci sono molte ragioni per sostenere che una crescita economica combinata con un po’ di giustizia sociale, e con una linea ferma in termini di ordine pubblico e legalità, sia esattamente la soluzione per cui la Gran Bretagna voterebbe. Eppure, bizzarro a dirsi, questo è esattamente il modello dal quale sia David Cameron che Ed Miliband hanno deciso di prendere le distanze».

Ragionevolmente, fra qualche ora, a urne chiuse, inizieranno lunghe trattative fra i partiti, entreranno in gioco le diplomazie e i tattici delle varie forze politiche, tutti impegnati a cercare di dare un governo alla Gran Bretagna, possibilmente un governo da guidare o di cui almeno far parte. Sarà, sostanzialmente, un gioco di equilibrismi per far combaciare messaggi politici diversi e rendere il tutto digeribile ai rispettivi elettorati. Che sia un governo laburista di minoranza appoggiato dagli scozzesi a prevalere, o che sia in qualche modo Cameron a farcela, la sensazione è che se si fosse provato a occupare lo spazio politico dello spariglio e dei confini larghi in campagna elettorale e a viso aperto, anche rischiando un po’, invece che doverlo in qualche modo rincorrere nelle prossime ore a porte chiuse, probabilmente sarebbe andata in modo diverso.

Nell’immagine in evidenza: Ed Miliband in campagna elettorale (Getty Images)