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Charles Bukowski

Ubriacone, genio, poeta, imbroglione, solitario, xenofobo omofobo misogino, maledetto: Bukowski raccontato con le sue parole nelle sue interviste, oltre i luoghi comuni, per conoscere lo scrittore e non l'icona abusata.

di Giuseppe Rizzo

Il 9 marzo sono 20 anni dalla morte di Charles Bukowski. La terza Frankenstein Interview è dedicata a lui. Quella ad Arbasino la trovate qui; quella ad Aldo Busi qui. Ogni domanda modificata, è modificata a fin di bene.

L’articolo su Charles Bukowski è facile. Ci sono delle frasi che bisogna usare: ha iniziato a scrivere a 25 anni, ha avuto un discreto successo; ha smesso per dieci; s’è quasi ammazzato col bere; ha ricominciato con Post office, scritto in 20 notti; ha avuto un enorme successo; si è comprato una macchina di lusso per scalarla dalle tasse, una casa dove vivere con la compagna Linda Lee (una donnaccia, descriverla) e molti gatti (aneddoti sui nomi, metafore randagismo/indipendenza). Ci sono dei nomi da fare: Hemingway, Ferreri, Feltrinelli, Kerouac, Fante, Pivano. Degli aggettivi da usare: ubriacone, genio, poeta, imbroglione, solitario, xenofobo omofobo misogino, maledetto (i più sgamati usano maudit). Contare le battute, lasciarsi lo spazio per la citazione di una poesia sul finale, salvare, inviare, aspettare i retweet e il bonifico.

Di solito questi articoli non sono orribili, molti sono brutti, sono a metà tra la bruttezza e l’orrore, sono mediocri, e a forza di ripeterli (ma questa è una mia impressione) una patina di mediocrità si è appiccicata anche a Bukowski. Per cui è sempre più diventato il poster che nelle stanze dei ragazzi di provincia si contende con Che Guevara gli spazi sulle pareti; e sempre meno il miglior poeta americano, così per come lo hanno definito Sartre e Genet.

Una buona sintesi tra le due posizioni si trova nel racconto che fa Bukowski di Bukowski, al netto della tamarraggine e della retorica e della maschera del personaggio.

Il 9 marzo sono vent’anni che è morto e Feltrinelli per l’occasione manda in libreria questa sintesi; si intitola Il sole bacia i belli ed è una preziosa raccolta di interviste che copre trent’anni della sua vita, dal 1963 al 1993. Alcune delle risposte che leggete qui dentro le trovate in quel volume, altre sono tratte dall’intervista con Fernanda Pivano (Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle), altre ancora dagli archivi on line di molti giornali.

Interviste lette: 20. Caratteri: 18.500. Tra le testate: l’Unità, Interview, La Stampa, Chicago Literary Times. Tra le firme: Sean Penn, Silvia Bizio, Marco Ferreri, Fernanda Pivano, Gundolf S. Freyermuth.

 

Quando hai cominciato a scrivere?

A trentacinque anni. Calcolando che il poeta medio comincia a sedici, ne ho ventitré. (Chicago Literary Times, 1963)

Perché hai aspettato così tanto?

Dunque, ho scritto racconti, quasi tutti a mano fino a venticinque anni, poi ho stracciato tutti i racconti e ho smesso. Le lettere di rifiuto dall’Atlantic e dall’Harpers erano troppe, era troppo da sopportare, sempre gli stessi insipidi rifiuti e poi prendevo le riviste e cercavo di leggerle e mi addormentavo. E poi anche la fame in stanzette con ratti grassi che zampettavano all’interno e padrone di casa religiose devote che zampettavano all’esterno – è diventata una sorta di follia, così ho preso l’abitudine di oziare nei bar, fare piccole commissioni, derubare ubriaconi, essere derubato, scoparmi una donna pazza via l’altra, avendo fortuna, avendo sfortuna, tirando a campare, fino a quando un giorno, all’età di trentacinque anni, mi sono ritrovato nella corsia dei poveri del County General Hospital di L.A., con un’emorragia dal culo e dalla bocca che mi stava dissanguando, abbandonato in mezzo al corridoio per tre giorni prima che qualcuno decidesse che mi serviva una trasfusione. Comunque sia, sono sopravvissuto, ma quando sono uscito di là il mio cervello era un po’ tocco e dopo dieci anni di astinenza dalla scrittura ho trovato da qualche parte una macchina da scrivere e ho cominciato a scrivere poesie. Non so perché, ma le poesie sembravano una minor perdita di tempo. (In New York, 1967. Feltrinelli, p. 36)

Da dove arrivavano secondo te?

Sei mai stato picchiato con una cinghia tre volte la settimana, dai sei anni agli undici? Sai quante botte sono? Quindi, vedi, questo è stato un buon tirocinio letterario per me. Picchiarmi con quella cinghia mi ha insegnato qualcosa… (La Stampa, 1981)

Chi ti picchiava, i tuoi?

Bukowski era un ubriacone di Filadelfia rotto in culo che abitava in Via del Nulla. Mia madre era… vabbeh, lasciamo perdere. No! Mia madre era una puttana di Kansas City. Si è scopata tutto il condominio di Via del Nulla. Io sono il residuato di questo viaggio negli abissi del Nulla. (l’Unità, 1981)

Mio padre fu un grande insegnante di letteratura, mi insegnò il significato del dolore. Dolore senza motivo.

Qual è il legame tra le botte e la tua scrittura?

Il legame è… quando ti picchiano tanto e tanto a lungo da tirarti fuori le budella, hai la tendenza a dire tutto quello che vuoi dire, in altre parole ti cancellano tutte le finzioni a suon di botte. Se ce la fai ad uscirne, e se rimane ancora qualcosa dentro di te, in genere è qualcosa di genuino. Chiunque subisca punizioni severe durante l’infanzia può uscirne fuori piuttosto temprato, piuttosto in gamba, oppure può diventare uno stupratore, un assassino, finire in manicomio o partire per la tangente. Ma… mio padre fu un grande insegnante di letteratura, mi insegnò il significato del dolore. Dolore senza motivo. (La Stampa, 1981)

È per questo che scrivi?

«Certo nessuno sa perché è diventato uno scrittore. Sto soltanto dicendo che mio padre mi ha dato una lezione di vita, mi ha insegnato ad individuare certi aspetti della vita e questi diversi gruppi di gente esistono sempre, li incontro ogni giorno andando in macchina sull’autostrada. (La Stampa,1981)

Ricordi la prima volta che sei stato pubblicato, come ti sei sentito?

No, non ricordo. Ricordo la mia prima pubblicazione vera e propria, un racconto sulla rivista di Whit Burnett e Martha Foley, Story, nel 1944. Gli avevo mandato un paio di racconti a settimana per circa un anno e mezzo. La storia che finalmente accettarono era leggera rispetto alle altre. Cioè a livello di contenuto e stile e azzardo e sperimentazione e tutto il resto. In quel periodo Carese Crosby accettò un altro racconto e dopo ho lasciato perdere. Ho buttato tutti i racconti e mi sono concentrato sul bere. Non sentivo che gli editori fossero pronti e anche se io lo ero, potevo esserlo di più, e del resto ero disgustato da tutto quello che leggevo e che veniva accettato come letteratura. Così ho bevuto e sono diventato uno dei migliori bevitori del mondo, il che anche richiede un qualche talento. (Beat Scene/Transit Magazine, 1994)

Dunque che influenza ha avuto l’alcol sul tuo lavoro?

Mmh. Penso di non avere scritto mai neppure una poesia da sobrio. Ma ho scritto un paio di belle poesie o un paio di brutte poesie sotto la scure di un livido dopo-sbronza, quando non sapevo se mi avrebbe fatto meglio un altro bicchiere o una lama. (Chicago Literary Times, 1963)

La poesia per secoli è stata quasi tutta immondizia. È un imbroglio, un falso. Ci sono stati veramente pochi buoni poeti, non fraintendermi. C’è un cinese chiamato Li Po.

Visto che parliamo di poesia, prova a definirla.

Ricordo sempre il cortile della scuola elementare, quando è sbucata la parola “poeta” o “poesia”, tutti i bambini risero e la sbeffeggiarono. Posso capire il perché, perché è un falso prodotto. È stato falso e snob e lo è da secoli. È stradelicato. È straprezioso. È un sacco di immondizia. La poesia per secoli è stata quasi tutta immondizia. È un imbroglio, un falso. Ci sono stati veramente pochi buoni poeti, non fraintendermi. C’è un cinese chiamato Li Po. Ha saputo mettere più sentimento, realismo e passione in quattro o cinque semplici versi che la maggior parte dei poeti in dodici o in quattordici pagine della loro merda. E beveva vino, anche. Buttava le sue poesie nel fuoco, le faceva galleggiare lungo il fiume, e beveva vino. Gli imperatori lo amavano, perché potevano capire ciò che stava dicendo… ma, chiaramente, bruciava solo le poesie brutte (ride). Ciò che ho cercato di fare, se posso, è di registrare gli aspetti della vita degli operai… le mogli che urlano quando rientrano a casa dal lavoro. Le realtà base dell’uomo qualunque… cose raramente citate nella poesia dei secoli. Metti nero su bianco pure che ho detto che la poesia dei secoli è merda. È vergognoso. (Interview, 1987)

Fai differenze tra poesia e narrativa?

Le poesie sono facili. si possono scrivere poesie quando si sta bene, quando si sta male. Vedi, la prosa riesco a scriverla solo quando sto bene, per qualche ragione. Ma una poesia posso scriverla anche quando non sento niente. Così, una poesia è molto semplice da comporre, posso sempre scriverla. E poi mi sento meglio. Ecco tutto. Niente di profondo. (Gundolf S. Freyermuth, 1993. Feltrinelli p. 325)

Cosa ti interessa raccontare di più?

Non sono mai stato un tipo raccomandabile né ci ho mai tenuto a esserlo… non ci tengo a essere un brav’uomo e forse è per questo che tutt’oggi le uniche persone che mi interessano veramente sono le persone rotte, scoppiate dentro, martoriate, annichilite, sono le più ricche di sorprese in un paese come questo dove perfino gli affetti devono essere presentati sempre tutti in ghingheri. (l’Unità, 1989)

Quali sono le tue condizioni ideali per scrivere? Scrivi ogni giorno?

Le condizioni ideali sono tra le dieci e le due di notte. Una bottiglia di vino, sigarette, radio sulle stazioni di musica classica. Scrivo due o tre notti a settimana. È il miglior spettacolo in città. (Beat Scene/Transit Magazine, 1994)

C’è un posto dove preferisci farlo?

Non ha importanza dove scrivi purché tu abbia un tetto sulla testa, una macchina da scrivere, fogli e birra. Si può scrivere dentro alla bocca di un vulcano. (Chicago Literary Times, 1963)

Da dove trai ispirazione?

Non sono certo di cosa mi ispiri. Crisi di disperazione. Morte nella scarpa sinistra. O magari anche lunghe ore di calma benefica. La musica classica mi innalza. L’ippodromo mi dà una panoramica delle masse. Dante le conosceva bene. Sono stato influenzato da scrittori niente male: Dostoevskij, Gor’kij, Turgenev, il primissimo Saroyan, Hemingway, Sherwood Anderson, John Fante, Knut hamsun, Céline e Carson Mccullers. E ovviamente da James Thurber. E per la poesia da Robinson Jeffers, E.E. Cummings e un po’ da Ezra Pound. (Arete, 1989. Feltrinelli p. 284)

E gli scrittori della Beat Generation?

Oh, no. L’ho detto troppo in fretta, vero? Ma è così. In loro sento una certa falsità di fondo. (Northwest Review, 1977. Feltrinelli p. 154)

Un libro. Era intitolato Chiedi alla polvere. Non mi piaceva il titolo ma le parole erano semplici e oneste e piene di passione. Cazzo, pensai, quest’uomo sa scrivere!

Dimmi della tua amicizia con John Fante…

Da ragazzo, di giorno gironzolavo per le biblioteche e di notte per i bar. Poi ho finito le cose da leggere. Tiravo via i libri dagli scaffali, ancora e ancora. Leggevo solo le prime righe e sentivo la falsità e li rimettevo a posto. Era un vero show dell’orrore. Niente di legato alla vita, perlomeno non alla mia e a quella in strada e a quella della gente che vedevo in strada e a quello che erano costretti a fare e a quello che erano diventati. E un giorno successe che ho tirato fuori un libro di un tizio chiamato Fante. Le righe mi assalirono. Fuoco. Niente stronzate. Non avevo mai sentito parlare di Fante, nessuno parlava di Fante. Era lì e basta. Un libro. Era intitolato Chiedi alla polvere. Non mi piaceva il titolo ma le parole erano semplici e oneste e piene di passione. Cazzo, pensai, quest’uomo sa scrivere! Bene, ho letto tutti i libri che sono riuscito a trovare e ho capito che c’era ancora gente speciale sulla terra. Fu decenni più tardi che citai “Fante” nei miei scritti. Non erano ancora stati pubblicati tutti ma erano stati spediti a John Martin della Black Sparrow Press, e una volta lui mi chiese, credo fosse a telefono, «Continui a citare Fante? È uno scrittore reale?». Gli ho detto che lo era e che avrebbe dovuto leggerlo. Presto l’ho risentito, era eccitatissimo: «Fante è grandioso! Grandioso! Non riesco a crederci! Pubblicherò i suoi libri!». E allora è uscita la serie di Fante per la Black Sparrow. Fante era ancora vivo. Mia moglie mi suggerì che visto era una specie di eroe per me dovevo andarlo a trovare. Era in ospedale, moribondo, cieco e amputato; diabete. Andavamo all’ospedale e una volta a casa, dopo che l’avevano dimesso per un po’ di tempo. Era un piccolo bulldog, coraggioso senza provarci. Ma se ne stava andando. Scrisse ancora un libro in quello stato, dettandolo alla moglie. Black Sparrow l’ha pubblicato. Fu uno scrittore fino alla fine. Mi raccontò anche della sua idea per il prossimo romanzo: una donna che gioca a baseball fino ad arrivare alle grandi squadre. «Vai avanti, John, scrivilo», gli dissi. Ma presto se n’è andato… (Beat Scene/Transit Magazine, 1994)

La Black Sparrow Press è stata importante anche per te, giusto?

Black Sparrow Press mi promise 100 dollari al mese per tutta la vita se lasciavo il mio lavoro e provavo a diventare uno scrittore. Nessuno ancora sapeva che esistevo. Perché non dovrei essergli leale per sempre? E ora i diritti dalla Sparrow sono uguali o superiori degli altri. Un assaggio di paradiso della fortuna. (Beat Scene/Transit Magazine, 1994)

Quando hai capito che stava per arrivare il successo?

Ho vissuto in una catapecchia di cartone ad Atlanta, Georgia, per un dollaro e venticinque centesimi al giorno, senz’acqua ed elettricità. Non avevo neanche la macchina da scrivere. Scrivevo sui bordi di giornale, e nonostante questo sapevo già di essere uno scrittore eccezionale, anche se non c’era nessuno lì pronto a dirmelo se non io stesso. È arrivato tutto troppo tardi per me per non essere sospettoso. E ci sono degli effetti collaterali spiacevoli. Mi arrivano lettere d’odio. Telefonate d’odio. Ho gente che mi odia e che mi vuole uccidere. E la gente si aspetta che io sia sempre conforme alla mia immagine. (Paris Metro, 1978. Feltrinelli p. 193-194)

E qual è questa immagine?

È superesagerata… che sono un duro, e salto dentro e fuori dal letto con tutte le signore, e così via. Questo lo facevo in una certa misura, ma in generale sono superesagerati. Hanno esagerato quello che sono, quello che ho fatto, quello che faccio. È un po’ hyped-up, pompato… La migliore immagine che dovrebbero farsi di me, l’immagine vera, è semplicemente leggere quello che ho scritto e non fare invenzioni fuori dai libri. (Pivano, 1982)

Ho sempre considerato Hollywood al di là dei soliti luoghi comuni, come un luogo infernale che ha spolpato e distrutto gli scrittori. Poi fare gli sceneggiatori è una cosa stupida e ridicola e non ha niente a che vedere con la letteratura.

Ma credi che quello che hai scritto sia così autobiografico da poter dare un’immagine della tua vita?

Sì, è molto vicino a quello che è accaduto. Sì, è il novantacinque per cento vera e il cinque per cento narrazione. È solo un po’ levigato, intorno ai bordi. Sicché, sì, ma vedi, specialmente un mucchio di donne mi detestano, perché hanno sentito che faccio tutte queste brutte cose alle femmine, capisci? Ma molte di loro non hanno mai letto i miei libri, è solo un passaparola che sono questa persona terribile che mutila le donne, le picchia, ci piscia sopra e così via. Ma pochissime di loro hanno letto le mie cose. Se lo facessero si renderebbero conto che spesso sono stato io quello che è stato mutilato o pisciato addosso dalle femmine. Sicché… (Pivano, 1982)

Col cinema com’è andata?

Ho sempre considerato Hollywood al di là dei soliti luoghi comuni, come un luogo infernale che ha spolpato e distrutto gli scrittori. Poi fare gli sceneggiatori è una cosa stupida e ridicola e non ha niente a che vedere con la letteratura. lo sono autore di poemi, di poesie, di racconti brevi, non me ne frega un cazzo delle sceneggiature, non ho bisogno di vendermi, ho soldi a sufficienza per fare quello che mi pare, non devo certo andare a farmi sbattere a Hollywood per rimediare fica fresca di Beverly Hills, donne pazze e disperate si possono conoscere comunque, anche frequentando diverse compagnie. Scrivere sceneggiature è un atto insulso, molti scrittori si sono fatti intrappolare perdendosi. Guarda quello che è successo a Scott Filzgerald, si è fatto ammazzare da Hollywood, si è fottuto da solo bevendo e facendosi uccidere dall’alcool. (l’Unità, 1989)

Però una sceneggiatura l’hai scritta.

Una sera, in casa mia suona il telefono. C’era pure mia moglie, bevevamo parecchio. No: lei beveva parecchio, io bevevo moltissimo. Suona il telefono, prendo il ricevitore: «Allò?». Sento una voce che mi dice con accento francese: «Mi chiamo Barbet Schroeder e vorrei che lei scrivesse un copione per me». Gli dico: «Fuck You» e riattacco. Ritelefonano. Stesso accento: «Non attacchi! È una cosa seria, sono regista e produttore, ho letto tutti i suoi libri, li adoro, vorrei che scrivesse un copione per me». Gli rispondo: «Non mi piace il cinema, non scrivo copioni, non me ne fotte niente». Sto per riattaccare quando sento: «20.000 dollari». Aaaaah! «Quanto ci mette a venire qui?». Mi piace di più sedermi a scrivere una cosa che viene fuori da me, piuttosto che scriverne una che mi dicono di fare. Ma quando mi ci son messo è andata, non ho avuto problemi. Credo che sia un buon lavoro. Non direi eccellente, ma arriverei a dire quasi eccellente. Non è male, “quasi eccellente”, no? È sempre meglio che “quasi merda”. O no? (La Stampa, 1987)

Cosa resterà dei tuoi libri?

Non mi interessa. Non me ne frega niente. Scrivo per raccontare l’oggi, di oggi, per l’oggi. Quello che importa è scrivere scrivere scrivere. Perché scrivere rende felici. (l’Unità, 1989)

Hai paura della morte?

Be’… succede a tutti, giusto? Alcune persone vivono la loro esistenza più a contatto con la natura, vale a dire con la morte. Comunque, nulla prepara quelli che vivono quel tipo di vita alla propria morte. (Gundolf S. Freyermuth, “Che cazzo: le ultime parole”. Feltrinelli p. 327)