Attualità

Catfish

Dal documentario sulle delusioni amorose online, un reality show. Una specie di Stranamore dedicato ai disturbi della personalità.

di Violetta Bellocchio

E’ da un po’ che non ci sentiamo. Forse vi sono mancata, probabilmente no. Ho consegnato il mio prossimo libro, ho avuto l’influenza, ho preso in affitto uno studio, ho cancellato il 40% del porno dal mio computer e ho guardato nove puntate di Catfish: The TV Show.

Indovinate di cosa parliamo oggi.

Al centro del documentario Catfish c’era quello che si definisce “un problema di verità”: il fotografo newyorkese Nev Schulman aveva conosciuto su Facebook una ragazza, Megan Faccio, e si era preso una cotta per lei, totalmente ricambiato; Nev non l’aveva mai incontrata di persona, però, e dopo qualche mese aveva cominciato a notare contraddizioni e note stonate nei racconti di lei. Forse Megan aveva un segreto, forse non era la persona che diceva di essere. Ma in realtà? Megan non esisteva, punto. Era un personaggio costruito e manovrato da una donna più vecchia, Angela Wesselman, che giostrava una ventina di falsi profili su Facebook, per ragioni a metà tra la malattia mentale e la pura sopravvivenza.

Il problema di verità, comunque, non ce l’aveva soltanto Angela. All’uscita, Catfish fu accusato di essere un falso documentario: una storia di finzione spacciata per vera, in modo da attirare più attenzione, oppure, peggio, una “storia vera” solo in partenza, dove i registi avrebbero mangiato la foglia in largo anticipo rispetto a quanto mostrato, e avrebbero chiesto a Nev di fare il finto tonto per aggiungere pathos alla vicenda. Cosa restava, al netto delle polemiche? Uno sguardo che obbligava lo spettatore a prendere posizione. Almeno, io l’avevo vissuto così: alla fine provavo compassione per la bugiarda, la cui routine familiare ricordava un film dell’orrore, e odiavo la vittima, un hipster infatuato di un’estranea che si dichiarava vergine, visibilmente eccitato da quest’ultima cosa più di tutte. Devo aver pensato il vero mostro lì dentro è lui. Devo anche averci litigato con qualcuno. Nulla di irreparabile, però forse è successo.

Oggi Catfish è diventato un reality show. Il risultato è una specie di Stranamore 2.0 dedicato ai disturbi della personalità.

Alla base di tutto c’è un’idea semplice: l’ex beffato e mazziato Nev gira di città in città come l’Incredibile Hulk, e cerca di aiutare uomini e donne nella stessa posizione in cui si trovava lui qualche anno fa, indagando sul quoziente di realtà dietro i loro rapporti online. Ogni episodio si apre con Nev e il suo amico Max Joseph che prendono in esame una richiesta di intervento. Ad esempio: «caro Nev, conosco questa ragazza su Facebook da due anni, la amo tanto ma non ci siamo mai visti di persona, ho paura che mi nasconda qualcosa… Aiutami a vederci chiaro, io questa ragazza vorrei sposarla». (Segnatevela, ci ritorniamo.) A questo punto Nev e Max incontrano la potenziale vittima, si trovano davanti a una storia mediamente inverosimile, e grazie a qualche ricerca incrociata su Google Images, ogni volta, scoprono che sotto il grande amore di turno non c’è nulla di reale: i profili Facebook sono fasulli, tutti, le fotografie rubate ad altri profili o ai portfolio di un modello/a; dietro l’uomo o la donna dei sogni c’è un bugiardo, a volte con l’aggravante della serialità. A volte è una persona fragile e isolata, a volte qualcuno che lo fa così, per divertirsi, perché lo può fare.

Esattamente come i romance scam, gli imbrogli raccontati in Catfish: The TV Show piacciono perché permettono di giudicare le vittime con facilità e rapidità («Che ingenui! Come hanno fatto a cascarci?») e di coltivare un senso di gattopardesca superiorità rispetto alla loro sfortuna. Ma l’obiettivo dello show non è punire nessuno, quanto aiutare vittime e colpevoli a “vederci chiaro”: Nev li fa incontrare, tenta una mediazione tra di loro. Se tutto va bene, le vittime possono andare avanti con la loro vita, più tristi ma più sagge, mentre i bugiardi si assumono la responsabilità delle loro azioni e ci guadagnano… non lo so. La catarsi? Considerando che poi hanno tutti firmato la liberatoria, forse speravano proprio di essere fermati. Come i serial killer delle prime serate di Retequattro.

Ora, moltiplicando le storie in campo, i “problemi di verità” dovrebbero diventare talmente numerosi da uccidere il prodotto. Ma questo non succede. Forse dipende dalla cornice: un documentario che gira i festival di mezzo mondo e viene venduto come “uno sconvolgente sguardo sulla realtà contemporanea” crea ben altre aspettative di un prodotto televisivo. Forse è una questione nostra e basta. Davanti a un reality show, oggi, le nostre aspettative sono più basse, in automatico. Accettiamo che un certo livello di finzione faccia parte del gioco, che alcune scene siano state girate più volte se non scritte da zero, e ci sediamo davanti al Soggetto Ignoto della Settimana come se davvero fosse un caso di puntata di Criminal Minds, dove cambia il numero di teste mozze appese nel solaio dell’assassino, non il colore morale delle sue imprese. Non importa. C’è sempre il minimo comun denominatore perché una narrazione simile piaccia, perché funzioni: prima o poi abbiamo tutti incontrato qualcuno che non era proprio chi diceva di essere.

No, i problemi di verità, stavolta, sono splendidi, e terribili, e individuali.

Uno:

Nelle nove puntate andate in onda fino a qui, tutti gli uomini e le donne gay entrati in scena si spacciavano per appartenenti all’altro sesso, e usavano falsi profili sui social network per adescare donne / uomini etero. E al momento della verità si rivelavano persone di rara respingenza e antipatia, tutte. Nel primo episodio, “Sunny & Jamison“, la vittima diceva alla bugiarda: «sei fortunata che ci sono le telecamere, altrimenti ti prendevo a calci». E io, da casa, le davo ragione. Dopo di che mi interrogavo a lungo sulla mia omofobia latente. Ora dell’episodio numero 8, “Tyler & Amanda“, dove un ragazzo gay portava avanti lo stesso imbroglio in maniera compulsiva da sei-sette anni, e aveva manipolato un centinaio di persone in quel modo, io avevo smesso di interrogarmi e ripetevo, qualcuno picchi quel tizio, vi supplico, qualcuno deve farlo.

Due:

Secondo Tracie Egan Morrissey, la figura peggiore la rimediano le vittime: dicono di essere “tanto innamorate”, ma fanno subito marcia indietro quando scoprono che i loro partner sono più brutti o grassi di come si erano raccontati. In effetti, al momento in cui scrivo, solo una vittima ha incontrato il bugiardo e ha detto «mi sono innamorata della tua personalità, non della tua faccia o del tuo corpo». In quel caso la bugiarda, Alyx, aveva detto di essere un uomo, ma era una ragazza che stava iniziando il percorso del cambiamento di sesso, e la vittima, Kya, una donna bisessuale che aveva a sua volta mentito sull’aspetto fisico in un primo momento, ha accettato Alyx senza problemi. (Per inciso: Nev stava per mettersi a piangere di gioia, e ha ammesso che il senso dello show, per lui, sta anche nel verificare quanto possa essere salvato un rapporto nato dalla finzione.)

Tre:

Quasi tutte le vittime si dichiarano intenzionate a sposarsi e mettere su famiglia, senza non dico averci mai scopato, con la controparte, non dico averci mai passato del tempo insieme, ma senza nemmeno essersi mai fatti una chiacchierata via Skype. L’elemento più importante dell’amore, per loro, è il possesso e il mantenimento di un fantasma sessuale, che non delude mai in profondità perché procura delusione ogni giorno, nel suo non essere mai qualcosa di cui si può avere esperienza.

E ora, LA CATARSI:

Se prendo la separazione tra me e un uomo con cui stavo, e la metto a confronto con la separazione tra due personaggi in un brutto telefilm, io so di aver sofferto infinitamente di più quando si sono lasciati quelli del telefilm.

Potrei dire che una situazione simile è il prodotto di una cultura di sentimenti iper-intensificati, quelli con cui traffichiamo abitualmente online. Ne ho già scritto su queste pagine, e sarebbe più o meno vero. Non passa comunque giorno senza che io mi trovi con lo sguardo nel vuoto, consapevole che la «vita adulta» è una lunga serie di processi cognitivi mediati, e quindi ha una corrente emotiva molto, molto bassa, mentre una storia che non esiste, per giunta inverosimile e scritta malissimo, mi ha strappato il cuore e l’ha gettato ai cani. E’ successo, è stata tutta colpa mia. Come ho fatto a cascarci?