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Campione (borghese) ritrovato

Kaká sta riuscendo a convincere tutti, i denigratori della prima ora e i tifosi scettici. La storia di un ritorno che funziona, quello del ragazzo ricco di San Paolo, il Senna del pallone.

di Giuseppe De Bellis

Il gol di Kaká a Catania è uno sguardo. La palla entra prima di entrare, quando Ricardo fa una finta con gli occhi al portiere. Quello si aspetta il tiro, ma vede gli occhi di Kaká che guardano al centro dell’area, dove sta arrivando Balotelli. È fatta. Andujar fa mezzo passo al centro e Kaká tira.

Non è lo stesso giocatore che lasciò il Milan per il Real, ma può bastare. È tornato tra lo scetticismo di molti e l’ironia degli altri. Tre gol in 495 minuti giocati sono sufficienti a ridargli dignità, anche se non avrà le forze, l’età e la voglia di essere ciò che era. Non vale solo per Kaká, vale per tutti. Lui è solo più visibile, più criticabile, ha un mirino sulla schiena: sono il vostro bersaglio. Perché in una stagione al momento deludente per il Milan, Ricardo è – con Balotelli, Allegri e Galliani – un campione espiatorio perfetto: il giocatore ripreso per affetto e non per capacità, il talento sperperato dalla pubalgia, dalla concorrenza dentro il Real Madrid, dal Mourinho meno ispirato di sempre. I tifosi più raffinati del Milan l’hanno accolto con uno stato d’animo che Davide Coppo ha descritto alla perfezione qualche settimana fa. I gol non cambiano la storia, ma danno sapore a qualcosa che rischiava di essere insipido: Welcome back, sì, ma a che prezzo?

Questo Kakà leader è un inedito, un altro tipo di rieducazione personale e collettiva, molto meno sentimentale. Funziona, però.

Perché una cosa è prendere Beckham per tre mesi e sfruttarne le sue capacità tecniche e mediatiche. Un’altra è riprendere un ragazzo che è stato grande con te, che ti ha portato vittorie, trofei, godimento e dover vivere di nostalgia. Bentornato a casa è stato un ottimo hashtag twitteriano ma va riempito di contenuti, di gol, di assist, di giocate. Kaká corre. E questo è ciò che in molti neanche si aspettavano. L’infortunio alla prima partita a Torino sembrava l’inizio di una pantomima tipo quella di Redondo di qualche tempo fa, compresa la rinuncia allo stipendio. Invece forse è stata una liberazione. E addirittura più liberazione è stato l’obbligo di dover essere il mediatore – scelto dalla polizia – tra Milan e tifosi dopo la figuraccia in casa contro il Genoa, dove peraltro era stato il miglior milanista in campo. Perché questo Kaká leader è un inedito, un altro tipo di rieducazione personale e collettiva, molto meno sentimentale. Funziona, però. Funziona adesso, perché tre gol in otto giorni tra campionato e Champions ci hanno riconsegnato un giocatore tra i più belli da vedere di sempre.

Basta solo calibrare le aspettative. Prendi questo Ricardo, gli spremi ogni goccia di talento e di calcio che gli rimane e vedi che accade. Racconti la storia di un ritorno che – a differenza degli altri – può andare bene. Serve il campo, perché il resto c’è e non è cambiato: Kaká è sempre quel brasiliano atipico che ha anticipato il miracolo economico. Il prodromo di una parabola collettiva che ha portato decine di milioni di persone fuori dalla povertà. Un borghese grande grande, calcisticamente e personalmente, l’immagine di una terra diversa da quella raccontata fino a quel momento, con la bellezza antropologica della favela, dell’indigenza e dell’infanzia negata, dell’analfabetismo, della fame. Kaká è un figlio di una terra diversa da Copacabana: è nato a Brasilia e cresciuto a San Paolo, ha avuto la scuola, i libri, i genitori che lo accompagnavano e lo andavano a prendere. È il nuovo Senna: stessi luoghi, stesso volto, stessa tranquillità, stessa educazione. Ayrton aveva le curve, l’acceleratore da spingere a tavoletta, il gas, le marce, la velocità. Kaká ha il pallone, le serpentine, l’assist, il gol, il boato. Via subito un altro luogo comune: per diventare dei campioni non si deve essere nati per forza in un quartiere difficile, violento e povero. Non è necessaria la voglia di riscatto sociale. Si può essere i numeri uno anche se papà fa l’ingegnere e mamma l’insegnante, se a casa si mangia tutti i giorni a pranzo e a cena, se i nonni frequentano club con la piscina, se si hanno la macchina e la console per i videogame. Se si è fenomeni lo dice la natura e poi l’allenamento, in Brasile anche il contesto, il sogno, la storia, il ricordo di Pelé, di Zico, di Falcao.

È il nuovo Senna: stessi luoghi, stesso volto, stessa tranquillità, stessa educazione. Ayrton aveva le curve, l’acceleratore da spingere a tavoletta, il gas, le marce, la velocità. Kakà ha il pallone, le serpentine, l’assist, il gol.

La storia di Kaká, però, non è piaciuta a molti all’inizio, perché è la storia di un borghese contento e orgoglioso di esserlo, di un ragazzino quasi ricco e quindi presumibilmente viziato. Per quelli che ne sanno sempre troppe, sono meglio le vite dei ragazzi che mettono in un pallone l’unica speranza per il futuro e se non ci riescono non saranno mai nessuno, anzi finiranno male. Meglio quelle perché sono favole. Come se uno non possa sognare se può permettersi una Lacoste. Questo ragazzo che sembra ancora un liceale a trentuno anni riscatta tutti quelli che si sono sentiti inadeguati perché più fortunati di altri, quelli che gli altri facevano sentire in colpa perché benestanti. Kaká è un simbolo: all’inizio non gli davano fiducia: troppo magro, troppo signorina, troppo educato, troppo buono. La prima volta fu nel San Paolo, quando andò in panchina nella Copa Rio-São Paulo, contro il Botafogo. Era il 7 marzo 2001 e Kaká in quei giorni era riserva nelle giovanili. Al minuto 14 del secondo tempo, l’allenatore Oswaldo Alvarez lo mise in campo. Non ci voleva credere nessuno: «Quel mister è un pazzo, fa entrare uno che fa la riserva nei juniors». Ricardo entrò e dopo due minuti la mise dentro: pareggio. Altri due minuti: gol, 2-1, doppietta e coppa, quella mai vinta dal San Paolo. Allora Oswaldo arrivò di fronte ai microfoni e sorrise: «Voi che vi siete scandalizzati tanto, non sapete chi è questo ragazzo e non sapete neppure che sta rientrando da una convalescenza. Io sapevo che era fortissimo». Non bastò. Pochi mesi dopo Kaká era comunque attaccato dagli scettici. Nei quarti di finale del campionato brasiliano contro l’Atletico Paranense lo marcava un difensore che si chiamava Cocito. Gli stava addosso: calcetto, poi una gomitata, un’entrata da dietro, una forbice, un’altra gomitata. Al 39’ del primo tempo Alvarez lo richiamò. Kaká uscì piangendo e i giornali lo massacrarono: «Sì, è bello da vedere, però non può giocare le partite importanti».

Al Ricardo milanista nessuno nessuno si può permettere di dire una cosa del genere: né in quella precedente all’addio a Milano, né in questa del ritorno. Lui c’è. Con quell’andatura che è solo sua: testa alta, gambe lunghe e svelte, un tocco sempre prima dell’avversario. Non imita nessuno, ha uno stile suo e di nessun altro. Riconoscibile. Più veloce di Platini e di Cruyff, più bomber di Boban. Segna: di potenza, di classe, da opportunista. Se uno vuole un calciatore moderno prende Ricardo Izecson Pereira Leite fa una fotocopia e ha il prototipo. Forte fisicamente, agile, scattante, tecnico, goleador. Completo. Per dirne una: Kaká prende palla, anche oggi, nella sua metà campo, arriva davanti alla porta avversaria e ha la lucidità per non calciare lui, ma appoggiare al compagno.  Oppure di fare una finta al portiere con il solo sguardo. Non è come segnare con il Manchester United uno dei gol più belli degli ultimi dieci anni di calcio globale, però c’è ancora da fare con quelle gambe, con quella testa, con quel talento. L’adattamento delle aspettative trasforma bidoni in giocatori decenti, può trasformare fenomeni in soli campioni. Kaká a 31 anni non è una figurina. Finché dura è un affare: venduto a molto, ricomprato a poco per rimettere in circolazione un talento che è senza scadenza. Col Genoa, nonostante tutto, con il Celtic, con il Catania non è stato il vecchio Kaká. È stato il nuovo, cioè un giocatore speciale, che non devi paragonare a nessun altro se non al Kaká di oggi. Sopra la media ci stanno quelli giusti, Ricardo conosce la Bibbia. Si può mescolare col pallone, ogni tanto: l’esultanza rivolta a Gesù non è cambiata.

 

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Nella foto, Kaká esulta dopo un goal alla Lazio, il 30 ottobre 2013. Claudio Villa / Getty