Attualità

California Dreaming

È morto il terziario, viva il terziario. Il modello californiano è in crisi, Silicon Valley no

di Enrico Beltramini

San Francisco – Il Sogno è il tratto distintivo della California fin da quando fu scoperto l’oro ad Eldorado Hills, e Washington in fretta e furia ratificò l’adesione del giovane stato nell’Unione. Mentre a Est si combatteva la guerra civile, a Ovest si combatteva una battaglia più evanescente, ma non meno decisiva: quella della costruzione del mito. Il mito della California, il Golden State, lo Stato dove ogni sogno è possibile, dove la quintessenza dell’eccezionalità americana è condensata in paesaggi da brivido: scogliere a strapiombo, deserti infiniti, cime innevate. Il sogno di una vita diversa, di un mondo diverso, di un futuro possibile, che altrove sarebbe impossibile.

California Dreaming. Il Sogno Californiano. Il Sogno che si concretizza in spiagge assolate, melanconia ispanica e natura incontaminata. E poi in quello spleen che gli intellettuali francesi di fine Ottocento avrebbero riconosciuto immediatamente, composto di due misure di passione, una di abdicazione, e tre di miraggio. Miraggio di una vita diversa, abdicazione dalla quotidianità, passione per l’avventura. Non c’è utopia lungo la costa che segna la fine dell’Occidente, ma soltanto una permanente promessa di felicità. Ogni sogno è un’anticipazione, in California. Il tutto condito da una incontenibile continuità tra realtà e illusione. Hotel California, il testamento spirituale di una generazione, lo racconta bene: una visione nella notte, la luce nel deserto, odore di allucinogeni che impregna l’aria.

Ma sono ormai sempre più frequenti le voci che sostengono che il Sogno è finito. L’ultima in ordine di tempo è quella di un professore di Los Angeles, Bill Watkins. Si è spinto là dove nessuno aveva mai osato: ha dichiarato che la California è (niente meno) che «un inferno post-industriale». Alta disoccupazione, più alta della media nazionale. Un tasso di povertà altissimo, 16 californiani su 100 sono poveri. Intere città, come Fresno e San Bernardino, rischiano la fine di Detroit: ghost town come quelle che siano abituati a leggere nei fumetti di Tex Willer. Il tasso migratoria è negativo, perché se ne vanno più persone di quelle che arrivano. Se ne vanno bianchi di origine europea, arrivano ispanici dal Messico. Altri vent’anni, e il 60 per cento della popolazione californiana sarà latino-asiatica. La sola enclave anglo-sassone rimasta sarà la Baia di San Francisco. Il sistema universitario, l’orgoglio dello Stato, produce 150 mila laureati l’anno, ma l’economia è in grado di assorbirne soltanto un terzo. Nessuno contesta i dati, e neppure la drammaticità della situazione.

Il grido di dolore di Watkins, che insegna al Center for Economic Research and Forecasting della California Lutheran University, ha il pregio di ribaltare una convinzione popolare, e cioè che il passaggio dall’industriale al post-industriale sia la panacea di tutti i mali. Tutto il contrario, sostiene Watkins: si stava meglio quando si stava peggio. La California ha raggiunto l’apogeo quando ospitava impianti di produzione. È soltanto da quando si è terziarizzata, che si è ritrovata nei guai. La tecnologia, Silicon Valley, è ancora un enorme fonte di ricchezza (posti di lavoro, capitali, e così via). Ma da sola non è sufficiente a rimettere in ordine un bilancio sociale che è negativo da almeno un decennio. È tempo di risveglio. È ora di riconoscere la dura realtà dei fatti. Come piace dire a Rick Perry, il Texas è la nuova California.

E quindi?

E quindi c’è soltanto da sperare, diciamo così, che questo sia un declino temporaneo, momentaneo, risolvibile. Nel 1992 la California era in crisi. E, come normalmente avviene, la recessione si era presto trasformata in una sorta di depressione sociale; nel caso specifico, nella sfiducia nel Sogno. La disoccupazione era al 10 per cento, la gente lasciava lo Stato, l’immigrazione clandestina dilagava (complici i tagli alle forze di polizia). Il 1992 è anche l’anno dello scoppio della rivolta del ghetto di South Central in Los Angeles, il primo scontro razziale dopo la stagione della rivolta nera degli anni Sessanta. La crisi aveva un retrogusto strano, era – come dire? – contro-intuitiva. Conclusasi la Guerra Fredda, la California – che ha una popolazione istintivamente portata a pace, natura, cosmopolitismo – avrebbe dovuto beneficiare del nuovo clima delle relazioni internazionali, più rilassate e a questo punto meno condizionato dalla ideologia anti-comunista e dalla divisione del mondo tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Non a caso, nel dicembre 1992 GH Bush aveva firmato il trattato con il Messico che avrebbe aperto la porta, mesi dopo, alla ratifica del Nafta, cioè all’area del libero spazio economico tra i tre principali stati del Nord America. Le esportazioni verso l’altra riva dell’Oceano Pacifico esplodevano: l’Asia era finalmente aperta alle merci californiane.

E allora, perché la crisi? La crisi era ovviamente il risultato di una miriade di concause, la principale tuttavia, chiara e limpida come il sole a mezzogiorno, era, appunto, la fine della Guerra Fredda. Malgrado soltanto il cinque per cento della popolazione impiegata lavorava per la Difesa, indirettamente l’economia californiana era dipendente dalle commesse militari. La Difesa foraggiava non soltanto le grandi imprese californiane ma anche una quantità infinità di sub-fornitori, di professionisti e di attività di servizi. Il resto della storia è nota. Data per spacciata, la California si risollevò quando iniziò l’epopea delle dot.com.
Avremo il lieto fine anche questa volta? Tutti se lo augurano. Senza tuttavia dimenticare che resta sul tavolo un’altra ipotesi, altrettanto verosimile. La possibilità – e sarebbe un incubo – che questa sia… un’anticipazione. Non si dice forse che vivere in California è come vivere nel futuro?