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Cadute e rinascite di Jeff Katzenberg

Uomo di cinema, protagonista del rinascimento Disney, cattivissimo e pieno di intuito, con Kung Fu Panda 3 cerca di risollevare la sua DreamWorks.

di Andrea Fiamma

Jerry Maguire inizia con il protagonista, interpretato da Tom Cruise, intento a scrivere una relazione programmatica. Per scrivere quel discorso il regista e sceneggiatore Cameron Crowe prese spunto da The World Is Changing: Some Thoughts of Our Business, un memo di 28 pagine scritto nel 1991 da Jeffrey Katzenberg, dirigente a capo della sezione cinematografica della Disney tra gli anni Ottanta e Novanta. Katzenberg è stato uno dei protagonisti del “Rinascimento Disney”, l’uomo dietro a quasi tutti i vostri cartoni animati preferiti, e adesso, dopo un periodo di annaspamenti produttivi con la sua Dreamworks, sta cercando la riscossa nel nuovo mercato cinematografico della Cina.

Madagascar Escape 2 Africa - Australian PremiereCon ordine. All’inizio degli anni Ottanta, la Disney era il fanalino di coda dell’animazione. Produceva poco e male. Vennero chiamati a gestire l’azienda Michael Eisner e Frank Wells. Eisner aveva mietuto successi alla Paramount con cose come I predatori dell’arca perduta, mentre Wells aveva lavorato per più di un decennio alla Warner Bros. I due si bilanciavano bene: dirigente sui generis, laureato in letteratura inglese, Eisner era considerato un creativo fumantino e di carattere; Wells un metodico e risoluto boss che risolveva problemi. A gestire il reparto cinematografico (film e animazione), Eisner mise Katzenberg, che era stato notato per il suo fiuto e le sue capacità da Pr navigato. Il “Golden Retriever”, lo chiamavano.

Ambizioso e testardo, Katzenberg si impose sullo studio d’animazione con uno sconsiderato micromanagement e un rispetto nullo per il lavoro degli artisti. Roger Allers (co-regista de Il re leone) ricorda una sua deprimente citazione: «Non mi importa dei premi. L’unico premio di cui mi frega è quello della Banca d’America e di quanti soldi riescono a incassare questi film». Promuoveva se stesso attorno al film, era intuitivo, pressante e poco acculturato (famoso l’aneddoto nato durante la lavorazione de La bella e la bestia secondo cui, suggerendo di cambiare un dettaglio scenografico, disse: «Fatelo più francese, tipo Botticelli»), ma aveva saputo intercettare il gusto dell’americano medio. Da Aladdin, per esempio, è partita la moda delle anacronistiche citazioni pop e l’uso di attori famosi come doppiatori.

Katzenberg sarebbe probabilmente rimasto alla Disney se non fosse stato per un tragico incidente che mise in moto una lunga serie di eventi. La domenica di Pasqua del 1994, Frank Wells andò in Nevada insieme all’amico Clint Eastwood, per un’escursione in montagna. Al ritorno, presero due elicotteri diversi. Quello di Wells perse il controllo a causa di un guasto al motore e si schiantò contro il fianco della montagna. Wells era il meno egocentrico dei dirigenti (nel portafogli teneva sempre un bigliettino con scritto «L’umiltà è il miglior conseguimento»). Non cercava il potere e mediava tra le personalità steroidee di Eisner e Katzenberg. Venuto meno lui, rimase vacante la poltrona di direttore operativo, slot su cui desiderava posizionarsi Katzenberg. «Un giorno», gli aveva promesso Eisner durante una delle loro conversazioni, «se per qualche motivo Frank dovesse abbandonare il ruolo, prenderò te al suo posto.»

Katzenberg fece pressioni sull’amministratore delegato e questi dovette frenarlo dicendogli che non avrebbe avuto il posto, per il momento. Scioccato, abbandonò in tutta fretta la Disney e, un po’ per ambizione un po’ per ripicca, fondò la DreamWorks con Steven Spielberg e David Geffen. Non prima di aver richiesto l’assegno di buonuscita. Una buonuscita speciale, che includeva gli accordi presi all’interno del progetto “Palla di neve”, un documento segreto che concedeva a Jeffrey Katzenberg il 2% degli introiti globali di tutti i film della compagnia prodotti durante la sua gestione. Fatti i conti, 170 milioni di dollari, penny più penny meno. Se ne uscì con 280 grazie a un accordo tra le parti, in seguito a una diatriba legale che lo vide vincitore.

Anni dopo, riflettendo sull’accaduto, Eisner disse: «Era un periodo di forti tensioni e lui stava calcando la mano con il corpo di una persona morta ancora caldo. Avrebbe dovuto essere più paziente». Ma paziente Katzenberg non lo è stato mai. Anche quando lavorava per il sindaco di New York, era solito svolgere tutti i suoi compiti il prima possibile. E questa mania per il lavoro si era ripercossa sul modo in cui gestiva lo studio Disney. «Non esitava a indire meeting alle sei di mattina, proiezioni la vigilia di Natale, sessioni di doppiaggio il giorno del Ringraziamento», ricorda Gary Trousdale, co-regista de La bella e la bestia.

Katzenberg è un dirigente atipico. Il produttore Don Hahn diceva che non si riusciva mai a capire dal suo sguardo se stava per abbracciarti o prenderti a pedate. Ma prima che cinematografico, il suo retroterra è politico. Ha avuto a che fare con la politica sin da giovane, quando quattordicenne entrò nel team del sindaco di New York John Lindsay. Per un certo periodo fu anche tesoriere ufficioso della campagna presidenziale di Lindsay, ma passò al mondo dello spettacolo quando venne coinvolto in uno scandalo riguardante delle mazzette date al sindaco. Negli ultimi anni è tornato alla politica in maniera indiretta, supportando Obama quando Hollywood era ancora invaghita dei Clinton e diventandone il principale finanziatore. Poi lo scorso anno ha finanziato anche Hillary. Perché non c’è mai abbastanza bisogno della Casa Bianca quando devi fare accordi con la Cina.

AUS: Shrek2 Premiere

Di contro, John Lasseter, padrino di Disney e Pixar, viene dalle scuole d’animazione californiane ed è cresciuto nel vivaio Disney, rimasto a lungo tempo un affare di famiglia, fuori dai grandi circoli hollywoodiani e chiuso in una mentalità quasi rurale, da provincia di paese con sceriffo e speziale. Si fa fatica a immaginare Lasseter andare per convention politiche con le sue camicie hawaiane. E questo poi si proietta sulle rispettive case d’animazione.

Alla fine degli anni Ottanta, quando Katzenberg ancora regnava alla Disney, tentò di strappare Lasseter alla Pixar per fargli dirigere uno dei loro cartoni. Il regista preferì restare con la sua scalcagnata compagnia e la sinergia Disney-Pixar avrà luogo solo anni dopo, con Toy Story. Katzenberg all’epoca stava spingendo per un’idea diversa di animazione. Voleva renderla un terreno abitabile anche dagli adulti e l’animazione al computer, con quell’aspetto realistico – quasi respingente rispetto alla linea morbida della matita – era il campo di prova ideale.

«Il risultato finale è un film creato da sette registi terrorizzati e venti sceneggiatori incazzati»

L’esempio più pratico è il loro primo sforzo in Cgi, Z la formica, che esce due mesi del pixariano A Bug’s Life, causando una faida tra i due studi per via dell’ambientazione simile che porta la Disney ad accusare di plagio la rivale. Seguono scenate, isterismi e minacce da parte di entrambe le fazioni. Alcuni dicono che John Lasseter, sentitosi tradito perché aveva raccontato a Jeffrey l’intera storia di A Bug’s Life anni prima, gli telefonerà esclamando una delle sue rarissime parolacce. Dopo l’incidente le due compagnie hanno cercato di «non pestarsi i piedi a vicenda» (parole di Katzenberg, che pure ci ricascherà nel 2004 con Shark’s Tale, uscito un anno dopo Alla ricerca di Nemo).

Forse a Jeffrey un paio di quelle camicie farebbero comodo, visto il periodo travagliatissimo che sta passando la DreamWorks. Aveva aperto la strada all’ansia postmoderna da rivisitazione favolistica e della parodia, ma i fasti di Shrek sono terminati e ora, salvo sparute eccezioni, la casa d’animazione non imbrocca, non dico un fuoricampo, ma nemmeno una buona battuta da diversi anni. Magari recupera con gli incassi esteri, ma in America sono davvero pochi i biglietti strappati per un loro film. Home, Turbo, Le 5 leggende, Mr. Peabody & Sherman sono state delle delusioni che hanno dato seguito a un ridimensionamento dell’azienda.

Il panorama dell’animazione vede sovrana la Disney e i giornali hanno smesso da tempo di insistere sulla rivalità tra le due compagnie. Se la Pixar domina il mercato spartendoselo con la Disney (John Lasseter supervisiona entrambi i dipartimenti d’animazione) è anche perché la DreamWorks ha dovuto indietreggiare e lo spazio rimasto è stato riempito solo in minima parte da altri giocatori. Una delle grandi differenze tra Pixar e DreamWorks, a parte il prestigio e la nomea che sono rispettivamente associate ai loro nomi, è sempre stata la mole di film che la seconda ha sfornato. Due, a volte tre, all’anno per la DreamWorks, uno – a volte nessuno – per la Pixar. Dietro a questa scelta ci sono modelli di business diversi e, forse, la volontà di non spremere gli artisti e di non dover cedere in qualità di fronte a una data d’uscita già fissata. La DreamWorks si è riscoperta fucina di prodotti iperclassici come Kung Fu Panda e Madagascar, un franchise che guarda allo stile bidimensionale dei corti Warner. Entrambe le serie vanno fortissimo tra i bambini, segnale che la Pixar ha vinto la partita dei film d’animazione per adulti.

SFF 2008: "Kung Fu Panda" Sydney PremiereQuando iniziano i lavori su Kung Fu Panda non c’è senza nemmeno una sceneggiatura. C’è solo uno storyboard del film su cui il primo sceneggiatore assunto dovrà lavorare. «Ti da un mese di tempo e se le modifiche che fai non gli piacciono, ti licenzia» ha rivelato uno degli autori coinvolti. «A volte viene licenziato anche il regista, dipende da quanto sei bravo a scaricare le colpe sugli altri. Questo ciclo si ripete una trentina di volte e il risultato finale è un film creato da sette registi terrorizzati e venti sceneggiatori incazzati». Eppure il film fa breccia nel pubblico e genera uno dei franchise di casa DreamWorks che ancora tiene botta, anche grazie all’ammiccamento orientaleggiante dell’ambientazione.

Del resto ora il mercato a cui punta il cinema – e la DreamWorks in particolare – è la Cina. Kung Fu Panda 3, co-prodotto con la divisione orientale dello studio, esce in questi giorni nel mercato americano (da noi arriva a marzo) prendendo in contropiede la tipica sistemazione di questi blockbuster, l’estate. Ormai l’hanno capito anche gli altri che non c’è spazio per tutti nei mesi caldi, e infatti due colossi dell’intrattenimento filmico come Marvel e DC hanno programmato le rispettive pellicole dedicate a Capitan America e Superman nel tiepido marzo, alla fine di quel segmento gennaio-marzo noto per essere il posto dove i film vanno a morire. Ma questa programmazione alternativa è dovuta anche alla sinergia cinese. Per i cinema della Repubblica popolare è in realtà un periodo festivo, per via del capodanno cinese, che quest’anno cade l’8 febbraio.

Dagli ultimi dispacci sembra che Kung Fu Panda 3 stia facendo bene al botteghino e, se continuerà così, altri tre episodi sono già pronti, insieme a quattro sequel di altrettante saghe dello studio. Ma c’è ancora spazio per il nuovo: Edgar Wright dirigerà un progetto sulle ombre che prendono vita covato a lungo dalla DreamWorks. Nella lettera che ispirò Jerry Maguire Jeffrey avvisa i dirigenti della Disney e il suo io del futuro: i sequel non sono necessariamente sinonimo di successo. Perché «le persone non vogliono vedere quello che hanno già visto. Dobbiamo essere temerari abbastanza da sfidare i limiti della creatività». Sono le storie ben raccontate, scrive, a dare il potere all’industria filmica di influenzare il mondo. Ora il vigile del fuoco Katzenberg sembra più interessato ad appiccare incendi agli angoli delle strade.

 

Foto David McNew/Getty Images.