Attualità

Bret e la videocamera

The Canyons, un film sull'impossibilità di fare cinema, l'atto di odio-amore di Ellis. La cui vita, ultimamente, ricorda il personaggio di un suo libro.

di Michele Masneri

È un film sull’impossibilità di fare cinema, e dunque perfetto e classico come congegno letterario. The Canyons, diretto da Paul Schrader e soprattutto scritto da Bret Easton Ellis, dopo varie peripezie è arrivato a Venezia (rifiutato dal Sundance e da altre piazze più indipendenti e più prestigiose, con recensioni altalenanti), visto in una tensostruttura – “Palabiennale” – da concerto di Gianni Morandi, al Lido, mentre tutti chiedevano: «Hai visto Bret, hai visto Bret». E Bret era in giro a twittare, tra le varie cose: «La mia nuova ossessione è il rapper Moreno, visto su Mtv Italia»; e «momenti surreali alla mostra del cinema: James Deen» – il belloccio pornoattore scelto per il ruolo da protagonista diCanyons – «è accerchiato da ragazze minorenni mentre Silvio Berlusconi siede a tre metri da noi». Chi lo ha visto, poi, Bret, al Lido, assicura che nonostante i 49 anni ne dimostra sessanta; gonfio, con capelli sempre meno verosimili, sembra un Alberto di Monaco invecchiato.

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Questo film è poi il suo atto di odio-amore personale contro il cinema: così, fin dai titoli di testa, e poi a quelli di coda, e inframezzati tra gli episodi a dividerli, molte immagini di residui archeologici industriali di vecchie sale americane sgarrupate, molto in bianco e nero, come nelle foto di Bern e Hilla Becher alla Peggy Guggenheim qui a Venezia. E poi, alla fine, addirittura proiettori abusati, e cinema sconquassati. Perché le cose non sono andate molto bene per questo film: che nasce dal rifiuto di fare un altro film: Ellis, il produttore Braxton Pope e il regista Paul Schrader, avevano – come narra la ormai leggendaria storia di The Canyons, forse fittizia, forse opera di efficaci uffici stampa – lavorato da cinque anni su un’altra produzione, poi è andato tutto a monte, quindi, con pochi soldi e il ricorso alle collette via internet (più elegantemente: crowdfunding) ecco nascere questo Canyons. Molto riuscito, e dove il senso, tra porcherie fatte in tre e quattro e filmate col cellulare, è naturalmente che l’unico cinema possibile oggi è quello da camera, auto-realizzato con l’iPhone, anche se qui si usano soprattutto cellulari Nokia, improbabili nel plot, e le mele dei computer Apple sono invece tutte incerottate, dunque forse con ulteriori beghe di product placement.

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Il senso, tra porcherie fatte in tre e quattro e filmate col cellulare, è naturalmente che l’unico cinema possibile oggi è quello da camera, auto-realizzato con l’iPhone

Lindsay Lohan, bravissima nella parte dell’impasticcata-alcolista, che ha dato come si vuole molte noie sul set e che non si è presentata a Venezia, sembra un po’ Claudia Gerini in Tulpa, però più gonfia, e ha le migliori battute anti-cinema: «Sono stata varie volte con degli attori; e la sentenza è di due parole: MAI-PIÙ». All’assistente del fidanzato, che insiste per fare questo film: «Ma ti piacciono davvero i film? Intendo ti piacciono sul serio? Quand’è che sei andata al cinema l’ultima volta?« Quella risponde: «Siamo stati a una prima la settimana scorsa…» «No, una prima non conta».

Anche James Deen, alias Christian, il protagonista ossessivo, ha bei dialoghi. Grande organizzatore di coreografie porcelle almeno in tre o quattro, poi però sbrocca quando la fidanzata lo fa interagire troppo con un ospite maschile. Allo strizzacervelli, il dottor Cambpell (Gus Van Sant), riferisce dunque che «mi sono sentito un attore. Non mi è piaciuto. Di solito sono io quello che dirige». Deen ha peraltro tre espressioni: mentre si succhia le guance, mentre fa boccuccia, mentre alza gli occhi al cielo. Si veste sempre di nero, quando è vestito, e ha occhiali da sole burini identici a quelli di Carlo Giuffré nella parte del cantante Silver Boy in Basta Guardarla (1970) di  Luciano Salce.

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Nel film, oltre a un femminicidio con kway e guanti, ai pedinamenti, alla paranoia, all’ossessione del controllo e a un nichilismo che negli anni Ottanta sarebbe stato rappresentato da continui ricorsi a xanax e coca e invece qui da grandi chattate su whatsapp (nella scena iniziale i due protagonisti Christian-Tara sono a cena con i due comprimari-vittime Ryan-Gina, ma raramente alzano lo sguardo dal loro telefono) ci sono tutte le ossessioni ellisiane, a partire da quella paterna. Christian va infatti dallo “strizza” come condizione per continuare a usufruire del fondo fiduciario del padre, che ha fatto i soldi con l’immobiliare, come nella biografia reale dello scrittore. Il padre peraltro è morto a 49 anni, l’età attuale di Ellis, di qui altre paranoie (nello spaventosissimo e affilato Lunar Park, ellis-Narratore con dettaglio allucinante eredita tutti gli abiti del genitore, che presentano sangue incrostato sul cavallo, perché poco prima di morire lui si è fatto fare l’operazione di allungamento del pene).

The Canyons arriva anche all’apice della decadenza twitteristica di Ellis: che come è noto ha scatenato variegate polemiche attaccando soprattutto il compianto David Foster Wallace esattamente un anno fa.

Invece, qui, poca cocaina, nel film, e molto uso di telefoni. E non solo per il basso budget: l’aria di spending review pervade tutta la pellicola, che non è propriamente «Beautiful people doing bad things in nice rooms» come ha predetto il regista Schrader, e ci sono invece,  a fronte di esterni rari prestigiosi, anche interni un po’ rustici e Ikea, e la comparsa dei poveri – la coppia ambiziosa e aspirazionale di Ryan, attore di belle speranze traviato dal perverso Christian, e la di lui fidanzata Gina – in un’opera ellisiana è forse il dato più sorprendente.

Coca dunque solo in una scena iniziale, poi molto vino bianco, forse in offerta. Come ha detto Ellis in una recente intervista al magazine di Le Monde, lui non si droga più e non beve più neanche vodka – solo «vino californiano e sonniferi», anche se in un tweet di dicembre scorso diceva a non si sa chi «portami la coca, ora».

The Canyons arriva anche all’apice della decadenza twitteristica di Ellis: che come è noto ha scatenato variegate polemiche attaccando soprattutto il compianto David Foster Wallace esattamente un anno fa: «DFW possedeva una tale pretenziosità letteraria da farmi vergognare di appartenere alla stessa industria editoriale», ha twittato il 7 settembre 2012, di notte – i tweet di Ellis sono sempre notturni, e talvolta arriva la smentita il giorno dopo, sempre via Twitter: solitamente «ero ubriaco». La polemica contro Wallace è proseguita: «Il migliore esempio di scrittore contemporaneo che sbava per raggiungere il tipo di spaventosa grandezza culturale che non è mai riuscito a conseguire. Un impostore», mentre i suoi fans sono «una generazione che legge i suoi libri solo per sentirsi più intelligente» (affermazione che alla luce delle derive hipster pare peraltro condivisibile) e «chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel Pantheon degli imbecilli».

I suoi tweet sono anche contro Katryn Bigelow: «Se fosse un uomo sarebbe un mediocre, ma siccome è una donna carina è veramente sopravvalutata», ma soprattutto contro sé stesso: a marzo 2012 ha twittato che presto sarebbe uscito un suo nuovo romanzo, seguito di American Psycho, poi il giorno dopo ha corretto: non era vero, ero ubriaco.

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Il suo ultimo scritto (2011) è invece un piccolo saggio uscito su Newsweek, intitolato Note su Charlie Sheen e la fine dell’impero, una oscura meditazione su celebrità, show business e fine della privacy.

Una vera crisi creativa, e forse esistenziale, dunque. Oppure la solita grande capacità di cazzeggio mediatico tra fiction e realtà. Da anni è tornato a vivere a Los Angeles, dopo la morte di un fidanzato newyorchese. A LA ha un nuovo fidanzato giovane (lo chiama “IL VENTISEIENNE”) cantante; intanto cincischia: a Le Monde ha detto che a gennaio ha iniziato un nuovo romanzo: una storia di omicidi-suicidi tra liceali-bene (una novità); poi però anche che forse non scriverà più niente, che sette libri sono sufficienti (Meno di zero, 1985; Le regole dell’attrazione, 1987; American Psycho, 1991; Glamorama, 1999; Lunar Park, 2005; Imperial Bedrooms, 2010, più i racconti Acqua dal sole, 1994). Alla Paris Review (primavera 2012) ha dichiarato che «la forma-romanzo non mi interessa più», forse inserendosi nel novero dei non-più-scriventi alla Roth-Munro. Meta- rothiana è anche una polemica sul suo sentirsi ormai straniero in patria, causa cattive recenti recensioni: «È che sono un irregolare, avrei dovuto scrivere un romanzo all’anno, vincere i premi, avere una cattedra sicura in un’università americana, scoparmi studenti e studentesse».

Il suo ultimo scritto (2011) è invece un piccolo saggio uscito su Newsweek, intitolato Note su Charlie Sheen e la fine dell’impero, una oscura meditazione su celebrità, show business e fine della privacy. Un testo talmente grottescamente ellisiano da sembrare in realtà uno scritto di David Foster Wallace, a partire dal titolo; o forse uno scherzo del suo fantasma.

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Così, per ora, nessun nuovo romanzo (peccato), e questa ossessione invece per il cinema, con tanti tentativi scalcinati: un pasticcio con E.L. James, per un adattamento delle Cinquanta Sfumature, con un progetto di «fare un bel film da un brutto libro», dove poi è stato sostituito in corsa, con polemiche relative. La sceneggiatura per The informers (2009, tratto dai racconti di Acqua dal sole), fiasco totale («la mia Waterloo creativa») e tre film tratti da altrettanti suoi libri bloccati da problemi produttivi a Hollywood. C’era poi l’idea di «un film sugli squali, mi piacciono molto i film sugli squali, ci sto lavorando da due anni, dovrebbe essere ambientato a Tampa, Arizona, ma per motivi fiscali lo faremo in Spagna» (2012; poi si sono perse le notizie del film sugli squali).

Le Monde, con dichiarazione testamentaria, ha detto: «Credo che alla fine ognuno di noi resti bloccato all’età in cui accede alla celebrità». Intanto Ellis beve vino bianco e soprattutto twitta in notturna.

Starebbe poi lavorando a un horror, che dovrebbe cominciare a essere girato a giorni, ma non si sa ancora chi sarà il regista. Ha scritto la sceneggiatura di un film che uscirà nel 2014, che si chiama The Curse of Downers Grove e la trama secondo Imdb è: «In una scuola superiore della periferia di Chicago ogni anno uno studente muore di una morte bizzarra e atroce prima della fine della scuola. Chi sarà il prossimo?». Ma Ellis ha litigato di brutto con la produzione e si è ritirato.

Anche di un suo altro progetto, un biopic sui Duran Duran, si sono perse le tracce. «Sarà divertente. Non c’è traccia di materiale drammatico. Stanno tutti bene, sono molto simpatici e vivono in castelli. Hanno tutti sposato bellissime donne e nessuno di loro è morto per overdose», sempre alla Paris Review, ma non se ne sa più niente.

Le Monde, con dichiarazione testamentaria, ha detto: «Credo che alla fine ognuno di noi resti bloccato all’età in cui accede alla celebrità». Intanto Ellis beve vino bianco e soprattutto twitta in notturna, ruminando certamente la frase della sua vicina di casa Norma Desmond in Viale del Tramonto: «Io sono grande. È lo schermo che è diventato piccolo» (in questo caso un display di cellulare, forse).

 

Nell’immagine, un momento del film The Canyons