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Boom shaka laka (2)

Ovvero 16 buone ragioni per rinnegare il calcio e imparare ad amare l’NBA. Seconda parte

di Timothy Small

Questa è la seconda parte di una dichiarazione d’amore per il basket in 16 punti. La prima parte, che potete rileggere qui, è stata pubblicata ieri.

9. Tutte le squadre nascono uguali, perché l’NBA è un sistema essenzialmente democratico. Prima di tutto, c’è da capire che l’NBA è una Lega vera e propria, proprietaria di tutte le squadre che la compongono. È per questo che le squadre si chiamano “franchigie” – esattamente come un McDonald’s, il proprietario non possiede la squadra; piuttosto, la prende in affitto dalla Lega. Ed è per questo che, ogni tanto, la Lega accetta di spostare una “franchigia” da una città ad un altra. Cosa orribile, questa, soprattutto per un ex-simpatizzante dei Seattle Supersonics (ora Oklahoma City Thunder) come il sottoscritto. L’aspetto fondamentalmente equo e democratico di questo sistema è che l’NBA è un gioco a somma zero. In altre parole: non si possono aggiungere soldi al sistema e ogni squadra ha a disposizione lo stesso monte stipendi; ergo, i giocatori possono solo essere scambiati, non comprati, e lo scambio deve avvenire in modo equo, cioè un giocatore deve essere scambiato con uno o più giocatori solo se i contratti dei giocatori coinvolti vengono rispettati e non creano poi, nella squadra destinazione, un monte stipendi che supera il limite del salary cap (questo perché, essenzialmente, il giocatore firma “un contratto con la Lega”, e il contratto vale fino al suo scadere, indipendentemente dalla casacca indossata dal giocatore). Ergo non può arrivare un Abramovich o un Moratti qualsiasi a rovinare il mercato e ad assicurarsi una squadra forte grazie ad una capacità d’acquisto più elevata della competizione; ergo, le squadre forti vengono messe assieme dai direttori sportivi bravi, scaltri e intelligenti, non dai presidenti ricchi. Ad esempio, gli attuali Los Angeles Lakers hanno vinto le ultime due edizioni delle NBA Finals principalmente grazie all’acquisizione di Pau Gasol, eccellente ed efficientissimo centro / ala grande spagnolo, quattro volte membro dell’All Star Team e vincitore del premio Rookie Of The Year nel 2001 con i Memphis Grizzlies. Beh, Gasol, per qualche ragione, è passato dai suddetti Grizzlies ai Lakers nel febbraio del 2008, in cambio, oltre a qualche futura scelta nel draft (vedi punto successivo), di Javaris Crittenton (boh), Aaron McKie (boh), il pessimo FAIL Kwame Brown, e i diritti a Marc Gasol, decente centro e fratello minore di Pau. Appena è arrivato ai Lakers, Pau si è subito trovato da Dio con Kobe Bryant e ha aiutato la squadra ad arrivare a fine stagione con il miglior record nella Western Conference (57 vinte contro 25 perse). Con Gasol in campo, i Lakers vinsero 22 delle loro successive 27 partite (avendone vinte solo 35 su 55 prima del suo arrivo). Nel 2008 la squadra poi raggiunse i Finals, perdendo contro i Celtics, vincendo però le due stagioni successive. E tutto questo grazie ad uno scambio ben orchestrato da parte dei direttori sportivi e dei dirigenti dei Lakers. Non grazie alle tasche profonde di un arabo. E dato che ogni squadra possiede lo stesso monte stipendi, le uniche situazioni in cui una squadra si può trovare a dare tantissimi soldi a un giocatore scarso che nessuno vuole (vedi i Knicks con Curry) è perché la dirigenza ha commesso un errore di valutazione.

10. Sempre in onore della democrazia, nell’NBA i nuovi giovani talenti non vengono acquistati a 17 anni dal Milan per 20 miloni di euro. Anzi: finiscono, quasi sempre, nelle squadre che ne hanno più bisogno, tramite il sistema del Draft, evento estivo annuale tramite il quale nuovi giocatori entrano nella Lega. E la loro destinazione viene scelta tramite una lotteria tra le squadre più deboli dell’anno precedente. In pratica, le 14 squadre che non si qualificano ai playoff vengono classificate dalla peggiore alla migliore e viene loro concessa una probabilità decrescente di ottenere la prima scelta del draft. Cioè: la squadra peggiore avrà il 25% di possibilità di ottenere la prima scelta (e quindi il giocatore migliore), la seconda peggior squadra il 20% di probabilità, e via così, fino a una chance dello 0,5% per la quattordicesima peggior squadra. Di nuovo, questo sistema è mirato a massimizzare i ritorni dei direttori sportivi scaltri, dando loro la possibilità di rifondare un’intera franchigia con una scelta azzeccata: basti pensare a cos’è successo a Cleveland quando hanno selezionato LeBron James nel 2003, o i Clippers, da sempre una franchigia estremamente sfigata, diventata quest’anno una delle squadre più amate della Lega, grazie al draft dell’alieno Blake “The Quake” Griffin, un’ala grande che, oltre ad essere una macchina da punti e da rimbalzo, schiaccia in modo così spettacolare che guardare la clip delle sue migliori schiacciate del mese è come vedere le migliori schiacciate in carriera di qualsiasi altro giocatore attivo oggi nella Lega. Come esempio opposto, si potrebbero menzionare svariate cavolate mostruose compiute tra il 2002 e il 2007: i Raptors che scelgono Bargnani al posto di Brandon Roy, Portland che sceglie il perennemente infortunato Greg Oden (poverino) al posto dell’ala Kevin Durant, attualmente il più splendente giovane talento della Lega. Senza parlare dei Washington Wizards nel 2001: Kwame Brown (aka l’anti-basket) al posto di Pau Gasol. Per apprezzare l’ironia di questa scelta, vi rimando alla lettura del punto precedente.

11. Poche righe fa mi sono riferito a Blake Griffin come a Blake “The Quake” Griffin. In realtà, il suo soprannome “ufficiale” è “The Poster Child” – un gioco di parole che mira ad unire “poster child”, cioè una persona simbolo di una causa (in questo caso le schiacciate ASSURDE), con “poster”, cioè una schiacciata talmente violenta che, se fotografata, è degna di diventare un poster (vedi anche il verbo to posterize) e “child”, perché Griffin È NATO NEL 1989. Tutto questo per dire che sì: l’NBA ha i soprannomi ufficiali. E spaccano. Due esempi: Paul Pierce è noto come “The Truth” (“La verità”), che è talmente figo che non ha bisogno di commento, ed è talmente ufficiale che la sua pagina di Wikipedia inizia così: “Paul Pierce, also known as The Truth, is a…”; Glen Davis è noto come “Big Baby”, perché assomiglia, appunto, a un neonato gigante. Ah, e generalmente parlando, il modo in cui si commenta l’NBA è divertentissimo. Ad esempio: “Kobe Bryant baptizes Dwight Howard!” – cioè: lo battezza, schiacciandogli in faccia. Oppure, “That should be illegal!” Tutte cose divertenti. Nel calcio cosa c’è? Ve lo dico io, cosa c’è. C’è il “Gollasso” di Altafini.

12. Parlando di come si discute di basket, un altro punto fondamentale è come ne scrivono i giornalisti. L’esempio principe, per me, è il grandissimo Bill Simmons. Anche noto come “The Sports Guy”, Simmons è nato come blogger e fondatore del sito BostonSportsGuy.com, ma l’attenzione e la cura con la quale aveva sviluppato il suo blog l’ha portato ad essere chiamato da ESPN – la madre delle emittenti sportivi americani – per curare una rubrica d’opinione per la “Page 2” del sito ESPN.com. Piano piano, la sua rubrica è diventata il centro dell’intera sezione opinionistica di ESPN. Nel 2009, le sue rubriche sono state lette da svariate centinaia di migliaia di utenti, e viste milioni di volte. L’anno scorso, Simmons ha dato alla stampa The Book of Basketball: The NBA According to the Sports Guy, con un introduzione di Malcolm Gladwell – un tomo “definitivo” di 800 pagine che ha debuttato al numero uno per i libri non-fiction in America e che ha il dubbio onore di essere il mio libro di non-fiction sportiva preferita. Questo perché, molto semplicemente, Simmons è leggibilissimo, coltissimo, e fa morire dalle risate. È esilarante, chiaro, ed estremamente godibile, e spinge il lettore ad appassionarsi agli argomenti di cui parla, mischiando il tono di un vero fan con un’intelligenza acuta e una profonda analisi del gioco, assieme ad una quantità enorme di riferimenti alla cultura popolare – cinema, musica, e televisione – e alla sua vita privata. Ultimamente inserisce il suo primogenito nei pezzi, e dato che casa sua è ormai gestita interamente dai bisogni del piccolo, l’ha ribattezzato come “The CEO”. A volte include anche sua moglie nei suoi articoli – la “Sports Gal” – e lei sta al gioco, finendo per parlare quasi esclusivamente di The Hills e della sua incapacità di comprendere il concetto di handicap nel golf. E Simmons fa tutto questo parlando intelligentemente del gioco, delle dinamiche in campo, delle caratteristiche tecniche e umane delle squadre, usando la statistica in modo interessante. Tutte cose che, ad esempio, il discorso calcistico in Italia non fa. Qui da noi, a quanto pare, è più interessante sentire buffoni come Franco Ordine che urlano e si incazzano, o sacchi di noia come Mario Sconcerti fare domande sempre polemiche ad allenatori che non hanno, visibilmente, la minima voglia di rispondere.

13. Ultimamente, anche i media italiani hanno iniziato a parlare di basket. Guardate la prima pagina della Gazzetta dello Sport e lo noterete anche voi: c’è sempre un articolo che ricapitola le partite della notte precedente. Questo perché, mi piace pensare, gli italiani si stanno accorgendo di quanto sia divertente seguire l’NBA. Ed è anche perché è molto più facile seguirla, oggi, grazie a due fantastiche piattaforme ufficiali create dalla Lega: NBA LeaguePass Broadband e NBA GameTime. La prima ti permette, per meno di cento dollari l’anno, di vedere OGNI partita dell’NBA sia in diretta che in archivio, sia intera che riassunta, con la possibilità di mettere in pausa e di vedere tutto in alta risoluzione, direttamente sul tuo computer, e ti permette di navigare all’interno di ogni partita per vedere solo azioni di un certo tipo o di un certo giocatore. È estremamente intuitivo, ben fatto, poco costoso, e fruibile. E, sempre in onore di queste tre virtù, l’NBA ha da poco lanciato anche GameTime, un applicazione per iPod, iPad e Android che permette l’accesso mobile al tuo LeaguePass. Praticamente l’esatto opposto di spendere 300 euro l’anno per Sky Sport, ed essere costretti a vedere il faccione di Mario Sconcerti in salotto.

14. I personaggi: giocatori/intrattenitori che hanno reso il basket il mio sport del cuore. Kevin Love, il goffo bianco capace di prendere più rimbalzi di tutti non tanto grazie alla forza fisica, ma grazie alla tecnica, e capace di tirare da tre come pochi altri nell’NBA—sicuramente come nessun altro rimbalzista. Ron Artest, bizzaro difensore con qualche problema psico-emotivo che, dopo aver vinto le NBA Finals, ha ringraziato il suo psichiatra in diretta. E poi c’è LeBron James, che è in questa lista non perché lo amo, ma perché lo odio. James è, indubbiamente, il più forte giocatore di pallacanestro al mondo. È un mostro di atletismo, è veloce, è potente, è tecnico, capisce il gioco, sa passare, sa prendere i rimbalzi. È stato MVP (Most Valuable Player) del torneo per gli ultimi due anni consecutivi. Mai, dai tempi di Michael Jordan, è stato così evidente chi fosse “il migliore”. Quando lo vedi correre verso canestro sembra, per rubare un’espressione a un blogger di NBA Off-Season, un muro di mattoni attaccato a un razzo. LeBron James ha, totalmente da solo, portato gli sfigatissimi Cavs di Cleveland alle NBA Finals nel 2007, per la prima volta nella loro storia. Bene, questo giocatore, capace di risollevare le sorti di un’intera città, è diventato il nemico pubblico numero uno dell’intera nazione quando, quest’estate, durante una delle free agencies più interessanti della storia dell’NBA – cioé la fase in cui i giocatori senza contratto possono scegliere per che squadra firmare – ha deciso di vendere la diretta della sua decisione a ESPN (“The Decision”). Le opzioni sembravano essere, a) prolungare per Cleveland, b) diventare il nuovo Re di New York, oppure c) unirsi a Dwyane Wade e smezzarsi il ruolo di leader con lui ai Miami Heat. Ovviamente, tutti pensavano che, avendo deciso di fare tutto un circo con la diretta della sua decisione, LeBron avrebbe trasformato quel programma in una dichiarazione d’amore verso il suo stato natale (James è di Akron, Ohio, a poche miglia da Cleveland). E invece no: King James ha costretto tutti ad assistere mentre dichiarava «This fall I’ve decided to take my talents to South Beach and join the Miami Heat». E oggi, adoro tifare contro i Miami Heat di LeBron James, come fa tutta l’America, d’altronde, a parte quei 300 tifosi che si presentano all’arena di Miami piuttosto che andare in spiaggia. Perché si sa, nello sport è bello amare alcune cose, ma è ugualmente bello trovarne altre da odiare.

15. E poi c’è Kevin Durant: l’esatto opposto di LeBron James. James si prende sul serio, fa la star con gli orecchini di diamanti, si tatua “The Chosen One” sulle spalle, e fa le schifezze come unirsi ad altri campioni a tavolino apposta per vincere i titoli. Kevin Durant, invece, l’anno scorso è diventato il più giovane giocatore della storia a finire la stagione con la più alta media punti a partita—30.1 punti di media a 21 anni, ed è arrivato secondo nelle votazioni per l’MVP, proprio dopo James, ma non ha nemmeno un tatuaggio. Kevin Durant, l’estate in cui James ha messo su il circo della cosiddetta “Decision”, e ha deluso un’intera città, ha annunciato di aver esteso il suo contratto con la sua piccola squadra, gli Oklahoma City Thunder, sul suo twitter. Mentre James si fa vedere a tutte le feste “cool” con i suoi amici “celeb”, Durant si allena duro fino a tardi e poi fa dei video blog con due suoi compagni di squadra – Jeff Green e James Harden – in cui i tre, rinominandosi “The Broingtons”, cantano in playback canzoni r’n’b e fanno gli scemi. Durant è il giocatore che non usa il suo twitter per criticare le decisioni degli arbitri, per insultare altri giocatori, o per chiedere un trasferimento: lo usa per mandare ai suoi followers foto di un peanut butter and jelly sandwich particolarmente cicciottoso. E quest’estate, quando tutti i giocatori “famosi” erano troppo preoccupati a cercare casa a South Beach per partecipare alla Coppa del Mondo FIBA, Durant è emerso come capitano della nazionale americana e l’ha portata alla vittoria. E il numero che Durant porta sulla maglia non è il Jordaniano 23 di LeBron James a Cleveland, ennesimo esempio di megalomania, ma il 35, scelto in onore del suo primo allenatore, “Big Chucky”, ucciso in uno scontro a fuoco all’età di 35 anni. C’è una ragione se NBA Off-Season ha appena lanciato una maglietta con sopra scritto: DURANT, Basketball Savior.

16. Prima di salutarvi, vorrei aggiungere che, ovviamente, non è solo per via della fruibilità dell’NBA e del divertimento che propone che tutt’a un tratto iniziamo a trovarne articoli sulla prima pagina della Gazza (vedi punto 13). No. È per via della presenza nell’NBA di tre giocatori italiani: Marco Belinelli, nei New Orleans Hornets, Andrea Bargnani, nei Toronto Raptors, e uno dei nuovi eroi di New York, quel Danilo Gallinari titolare e stella nascente dei New York Knicks, da Sant’Angelo Lodigiano, eletto l’anno scorso uno dei dieci scapoli più desiderati di New York. Non male. E non è affatto male, poi, quando gli entra una bomba da tre, vedere il super fan Spike Lee alzarsi in piedi tutto eccitato a bordo campo per esprimere la sua approvazione facendogli svariati gesti con le mani teoricamente “italiani”. Generalmente, gli fa il “che cazzo vuoi?”, perché, come tutti gli americani, non ha ben capito come gesticoliamo. È un enorme piacere vedere i New York Knicks, con la loro storia e il loro charme, tornare a essere rilevanti, principalmente grazie all’arrivo del gigantesco Amar’e Stoudemire e dell’ottimo rookie Landry Fields. Ed è bellissimo sapere che c’è un ragazzino lombardo, lì in mezzo, a tenere alto l’onore del Madison Square Garden. Peccato solo che vivo a Milano, non a New York.

Tratto dal Numero 1 di Studio