Attualità

Berlino città chiusa

Cosa succede quando Obama atterra nella città in cui vivi? Diario di un pomeriggio surreale in una Berlino blindata.

di Cesare Alemanni

Una ventina tra moto, macchine e camionette nel caratteristico verde della Polizei tedesca, otto Audi A6 blu scuro – sirena sul tetto, targa di Berlino – e quindi, subito dopo, quattro enormi Chevrolet Suburban – nere, targhe americane – stipate di uomini dai corpi massicci strizzati dentro completi. Simmetricamente al centro del corteo, un altro Suburban con due bandierine degli Usa ai lati dell’immenso vano motore. In tutto ci hanno messo quasi due minuti a sfilarmi di fronte, lungo la curva che da Torstrasse porta a Oranienburger Strasse, nel pieno del Mitte berlinese. Sul Suburban con le bandierine viaggiavano Michelle Obama e le figlie. Da un metro era impossibile non riconoscerne i profili nonostante i vetri leggermente oscurati. Venivano da una visita al mausoleo del Muro sulla Bernauerstrasse, poco più a nord di dove abito, e andavano presumibilmente a ricongiungersi con B.O. per pranzo, prima del suo discorso alla Porta di Brandeburgo e dopo i suoi incontri matuttini con, nell’ordine, il Presidente della Repubblica Gauck, il Cancelliere Merkel e il candidato SPD Steinbrueck. A bordo del pick up che le seguiva un uomo pelato in giacca e cravatta, occhiali da sole e auricolare annodato all’orecchio, se ne stava con il vetro posteriore della jeep sollevato e le gambe a penzoloni. In un secondo ha squadrato me e le persone intorno a me, quasi tutte con i telefoni in mano a fare foto e riprese. In caso di problemi immagino sia lui quello a dover reagire per primo, saltando giù o peggio. Una ragazza asiatica, in estasi per tutta la scena, si è sbracciata per salutarlo con un entusiasmo a “livello Beckham” ma lui non ha battuto ciglio. È rimasto impassibile finché tutto il corteo non è diventato un puntino sull’orizzonte tremolante di un mezzogiorno berlinese tremendamente torrido.

Sul pick-up con le bandierine viaggiavano Michelle Obama e le figlie, da un metro era impossibile non riconoscerne i profili.

Cinque minuti dopo ho incontrato la prima camionetta della Polizei tedesca ferma sul ciglio della strada, poi una seconda, una terza, una quarta, una quinta, una sesta. Nel raggio di cinquanta metri ne ho contate dieci. Rigurgitavano poliziotti al ritmo di quindici ciascuna e mi trovavo ancora soltanto a tre chilometri abbondanti dalla porta di Brandeburgo dove era in programma il discorso di Obama. Se il giorno prima avessi letto con più attenzione l’articolo della BZ (o, forse, se solo il mio tedesco fosse migliore) che anticipava la visita di B.O. a Berlino avrei saputo che non avevo la minima chance di assistere di persona al suo speech ma, a quel punto, non ero ancora al corrente che non ci sarebbe stato il bagno di folla del 2008 bensì un happening per pochi intimi: una selezione di giornalisti, dipendenti dell’ambasciata americana, berlinesi influenti, qualche esponente del mondo della cultura locale e stop. Tutti più o meno incoraggiati a portare con sé le famiglie in modo da sfoggiare comunque un campione eterogeneo a beneficio delle telecamere: bambini e alti diplomatici, giovani con i Wayfarer fluo ed eroi di guerra sopra i novant’anni. In tutto 4.500 persone, il minimo sufficiente a dare l’impressione che Pariser Platz fosse gremita.

Più avanti sono cominciate le transenne, una diga di ferro che troncava in due il flusso pedonale sulla Unter Den Linden presidiata ogni cinque metri da una coppia di poliziotti già un chilometro abbondante prima della Porta di Brandeburgo. Ho svoltato a sinistra alla ricerca di un passaggio in una strada contigua – trentatre gradi e non un alito di vento. Altre transenne. Da una porta hanno cominciato a defluire decine di russi piuttosto contrariati. Era l’uscita secondaria della loro ambasciata, anch’essa fagocitata all’interno del cuscinetto di sicurezza. Sono tornato indietro alla ricerca di un pertugio sulla destra. Ancora transenne, questa volta però disposte a formare un corridoio come quelli per i grandi eventi negli stadi. L’ho seguito a ritroso fino a un grosso gazebo bianco da cui pendevano due cartelli con la scritta Eingang. Forse, dopotutto, sarei riuscito a entrare. Forse, mi sono detto, la logica della selezione, superati dei severi controlli di sicurezza, è semplicemente “fino a esaurimento spazio”. Mi sono messo in fila dietro a una trentina di persone perlopiù molto giovani. Immediatamente ho dovuto constatare che ero l’unico sprovvisto di un foglio che tutti intorno a me tenevano in mano ostentatamente. Con studiata nonchalance ho chiesto a una coppia alle mie spalle. «Scusate, e questo a cosa serve?». «Beh, è l’invito».

«Ah».

In un tentativo fallito di mascherare il disappunto ho cospirato una serie di espressioni facciali che speravano di trasmettere in modo convincente la seguente catena di messaggi: “ma sì, non avevo nemmeno tanta voglia”, “oltretutto ho di meglio da fare”, “e poi divertitevi voi ad aspettare sotto questo sole” e mi sono sfilato dalla coda pensando che potevo pur sempre  ascoltare il discorso da un punto abbastanza vicino – e per vicino intendevo non meno di duecento metri – alle spalle del palco e della Porta di Brandeburgo. Pensavo male.

Due ore e un pranzo dopo, mentre Obama iniziava a parlare, io vagavo ancora sul lato “sbagliato” della Spree alla ricerca di un ponte che non fosse chiuso e presidiato da non meno di dieci poliziotti, questo nonostante avessi compiuto una circonvallazione larghissima intorno all’epicentro del discorso. Da dove mi trovavo (in linea d’aria un punto oltre la metà di Tiergarten sempre e comunque dalla parte sbagliata del fiume) potevo osservare in lontananza la cupola trasparente del Reichstag, la “lavatrice” dei nuovi edifici del governo tedesco, la Haus Der Kulturen der Welt e altri luoghi abitualmente brulicanti di decine di migliaia di persone, tutti fantasmaticamente disabitati per un giorno. Poteva essere il set di un film apocalittico e invece era Berlino tagliata in due – e da queste parti hanno una certa esperienza in materia – con il centro reso completamente off-limit per un raggio di svariati chilometri intorno alla Porta di Brandeburgo. Un po’ eccessiva come misura di sicurezza anche per un Presidente degli Stati Uniti d’America.

Un po’ eccessiva come misura di sicurezza anche per un Presidente degli Stati Uniti d’America. Poco più tardi ho capito che non si trattava, non solo quantomeno, di una misura di sicurezza.

Quando finalmente ho trovato un ponte aperto e sono riuscito a ricongiungermi al Tiergarten all’altezza della famosa colonna della Vittoria, proprio dove Obama aveva parlato nel 2008 da senatore, il panorama non era meno surreale. L’equivalente berlinese (un po’ sbiadito, lo ammetto) degli Champs Elysées era stato trasformato in una lingua d’asfalto vuota per quattro chilometri in tutte le direzioni. Un ciclista solitario se la godeva pedalando a zig-zag per l’intera ampiezza della careggiata sotto lo sguardo annoiato di centinaia di poliziotti grondanti sudore. Ogni accesso al parco era bloccato, il bosco presidiato per tutta la sua estensione e non si poteva fare altro che incamminarsi sulla strada principale fino al punto in cui la si scopriva chiusa, a poco più di un chilometro dal luogo del discorso. Questo era il massimo della prossimità a Obama concessa alla cittadinanza e aveva attirato una piccola folla di persone, tutte con le orecchie tese nella speranza di afferrare frammenti di parole portati da un vento pressoché inesistente. Un tizio basso e tarchiato ha fatto infuriare una signora italiana al mio fianco: stava guardando la diretta del discorso sul suo iPad rendendo così ancor più difficile percepire i debolissimi echi della “sua vera voce”. Un ragazzo nero con una maglietta del Borussia Dortmund ha domandato a un militare: «Ma poi passa di qui?», riferendosi al corteo presidenziale. «Non lo so» è stata la risposta secca del soldato. A un certo punto dalla Porta di Brandeburgio si è alzato un boato molto forte e poi più nulla. Obama aveva concluso. È stato all’incirca in quel momento che ho realizzato in via del tutto definitiva che lo spiegamento di forze – migliaia e migliaia di poliziotti e militari in un raggio di  chilometri – contro cui ero andato a sbattere per tutto il giorno non aveva solo e strettamente a che fare con l’incolumità personale del Presidente degli Stati Uniti. Il ragazzo con la maglia del Dortmund nel frattempo era stato raggiunto da alcuni amici. Hanno confabulato per un minuto e poi ognuno ha preso in mano un cartone estraendolo da uno zaino. A quanto pare avevano deciso che valeva la pena restare ancora un po’ e vedere che succedeva. Su uno dei cartoni c’era scritto: «Hey Barack, do you know what I did last summer?».  Su un altro «So long and thanks for all the hopes». Il più diretto di tutti recitava: «Yes, We Scan. Stasi 2.0».

Era evidente che se Obama avesse voluto concedersi il lusso di una sfilata lungo uno dei viali più iconici di Berlino non avrebbe tenuto un discorso a porte chiuse.

Era evidente che se Obama avesse voluto concedersi il lusso di una sfilata lungo uno dei viali più iconici di Berlino non avrebbe tenuto un discorso a porte chiuse e così, dopo un paio di minuti, me ne sono andato. Ho lasciato i contestatori, i curiosi, gli entusiasti e i cacciatori di ricordi alla loro attesa dello spettro di Obama e, costeggiando le immancabili transenne, in una decina di minuti sono approdato a Potsdamer Platz trovando anch’essa completamente militarizzata. Al centro della piazza, già piuttosto surreale di suo, si apriva una voragine di vuoto delimitata da mezzi blindati e camionette. Al suo interno si potevano muovere soltanto militari, poliziotti e borghesi dotati di un badge con stampate sopra la bandiera tedesca e quella americana.

Rispetto ad altre metropoli una delle caratteristiche del centro di Berlino è di avere una densità abitativa tutto sommato sostenibile e spazi molto ariosi ma la parte di città resa inagibile al traffico pedonale mercoledì era così vasta che le poche vie aperte intorno a Potsdamer d’un tratto apparivano come immagino debba apparire Via Condotti a Roma all’ora di punta di un week-end estivo, aggiungendo straniamento a straniamento. Ho domandato a un poliziotto se sapeva quando avrebbero “riaperto” la città. «Quando se ne sarà andato» è stata la risposta laconica ma efficace che traduco qui alla lettera in tutta la sua impersonalità. Ai bordi dell’area recintata, un altro gruppetto di contestatori stava fissando dei cartelli in cima a dei bastoni di compensato. Era una variante più evoluta di “Yes, We Scan” che sovrapponeva il volto di Obama alla locandina de Le vite degli altri.

Nel frattempo il vero Obama era da qualche parte, chissà dove, nel mezzo di quell’enorme vuoto urbano reso asettico e inacessibile, tanto alle critiche quanto all’entusiasmo dei comuni mortali, da una profilassi di transenne e forze dell’ordine e per un po’, lì a Potsdamer Platz, il 2008 mi è sembrato sorprendentemente molto più remoto del 1963.