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Quelli che hanno fatto Game of Thrones

Intervista a David Benioff, scrittore e uno dei creatori della versione televisiva della saga fantasy, che qui racconta com'è nato Il trono di spade.

di Lorenza Negri

Da oggi disponibile in libreria e online (anche in versione e-book), Serial Writers è uno speciale realizzato dalla rivista Link – Idee per la televisione, una collezione di quattordici interviste agli autori delle serie televisive migliori degli ultimi anni: da Matthew Weiner di Mad Men a Vince Gilligan di Breaking Bad; da Howard Gordon di Homeland a David Benioff di Game of Thrones.
Studio anticipa di seguito la chiacchierata tra Lorenza Negri e uno dei co-creatori del capolavoro fantasy di Hbo.

 

Newyorkese, autore del romanzo La 25a ora, poi trasposto nella pellicola drammatica omonima di Spike Lee, David Benioff è sceneggiatore e showrunner– assieme a D.B. Weiss – de Game of Thrones, imponente e maestoso adattamento seriale della saga fantasy di George R.R. Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco. Un’impresa titanica, quella toccata a Benioff: trasporre l’opera imperniata sulla conquista del trono dei Sette Regni, monumentale, intricatissima, gremita di personaggi, crudelmente votata allo sterminio di figure apparentemente intoccabili sacrificate da un dio impietoso. Un fantasy postmoderno, che parte da Tolkien per annichilirne la netta contrapposizione tra Bene e Male. Un fantasy stemperato da una verosimiglianza abbacinante, che mette un po’ in sordina alcuni stilemi del genere. Benioff descrive in modo esaustivo il processo sotteso alla trasposizione di tale mole di materiale letterario in serie televisiva – giunta alla terza stagione, trasmessa da Hbo negli Usa e da Sky Cinema e Rai 4 in Italia – e le linee guida della colossale opera di adattamento.

 

Com’è nato il progetto di adattamento di Le cronache del ghiaccio e del fuoco?

All’inizio George R.R. Martin ricevette la proposta di adattare i romanzi in un film, ma appariva evidente che la saga fosse troppo vasta per tale scopo. Il formato ideale era quello della serie televisiva, dove ogni libro avrebbe potuto corrispondere a una stagione. Il problema era che Martin non aveva il tempo di occuparsene, e così siamo entrati in scena D.B. Weiss e io: ci siamo incontrati per pranzare insieme e parlare dell’adattamento e Martin ha apprezzato che sia io che Dan fossimo anche scrittori di letteratura. Abbiamo subìto un test per verificare quanto conoscessimo i libri – ci ha chiesto chi è la madre di Jon Snow – e noi, che avevamo letto e riletto migliaia di pagine, abbiamo discusso con lui fino a cena. Con Martin a quel punto eravamo a posto, ma bisognava scrivere il primo adattamento e conquistare HBO con un pilota allettante.

 

È andata bene.

In realtà ci siamo resi conto che quello che volevamo fare era una follia: l’adattamento della saga era un lavoro titanico e Martin ci aveva fatto sapere che l’aveva costruita di proposito così complicata per rendere impossibile una trasposizione. Ce lo disse al famoso incontro al ristorante, quando ci ha anche raccontato di quello che ha passato quando lavorava alla serie Beauty and the Beast: le ingerenze della produzione, che giudicava i suoi episodi troppo lunghi e costosi, lo avevano persuaso a non rimettere più piede a Hollywood. Con i romanzi avrebbe potuto sfogarsi come voleva, senza che nessuno stravolgesse i suoi progetti.

 

Che processo ha presieduto l’adattamento?

È stata dura fin dall’inizio, tant’è che abbiamo praticamente dovuto rigirare tutto l’episodio pilota per renderlo più semplice. Poi bisogna considerare che si lavora con tre o quattro crew in altrettante location differenti, e questo cambia completamente il modo di approcciarsi alla sceneggiatura: bisogna farlo con l’ottica dell’efficienza. Il segreto per far funzionare questa macchina è tenere i diari di tutto, di ogni trama e sottotrama, di ogni storyline di ciascun personaggio. È un lavoro monumentale e la scrittura diventa così una questione di funzionalità. Ogni minimo imprevisto stravolge le riprese e le tabelle serratissime su cui lavoriamo, così dobbiamo essere sempre pronti a riscrivere una scena se quel giorno il tempo è brutto e non si è potuto girare, oppure se un attore sta male o si è infortunato.

 

Come pianificate le tappe principali della stagione?

Usiamo le mappe di Westeros, ma abbiamo anche una lavagna gigante per tracciare le trame. Ci vediamo nel mio garage – definitivamente convertito a ufficio – e scriviamo le scene su post-it che poi attacchiamo alla lavagna. Dopo di ché guardiamo questo mucchio di foglietti multicolore e pensiamo: “Questa è la stagione… Non ne verremo mai a capo!”.

 

Quale aspetto dei romanzi avete privilegiato?

L’aspetto più importante anche per l’autore, cioè raccontare un fantasy senza la tipica distinzione tolkeniana tra buoni e cattivi. Per noi l’obiettivo era portare in scena personaggi ricchi di sfaccettature.

 

Come decidete, lei e Dan Weiss, cosa adattare dei romanzi e come?

A differenza di Martin, che si affeziona ai personaggi e li stermina a malincuore, noi non ci facciamo scrupoli a farli fuori: alcuni, ancora vivi nei romanzi dopo cinque tomi, li abbiamo eliminati alla prima stagione. L’esigenza principale dell’adattamento è sfoltire, come si fa con gli stambecchi quando sovrappopolano i parchi. Adoriamo i libri di Martin e vi abbiano dedicato ogni momento della nostra vita in questi ultimi anni, ma per quanto ci sia consentito mantenere livelli alti di complessità dell’intreccio non possiamo eguagliare i romanzi, perché diventa troppo laborioso per lo spettatore tenere a mente tutti i nomi e i destini di cotanta gente. Anche se disponiamo di dieci puntate a stagione per adattare ogni libro, quello che ha scritto Martin è molto complesso e ci ha costretto a sacrificare qualcuno per lasciare spazio ai personaggi più amabili e rendere loro giustizia. Fare i giocolieri con troppe palle significa rischiare di farle cadere tutte; per noi è prioritario non superare la soglia d’attenzione oltre cui lo spettatore perde la capacità di destreggiarsi tra i personaggi e gli intrecci.

 

Quali sono state le scene più difficili da adattare?

La Battaglia delle Acque Nere, per la difficoltà di rendere visivamente la monumentalità e la complessità dello scontro, che doveva essere girato di notte. La sfida più grande spettava alla regia, noi per fortuna potevamo contare su Neil Marshall che ha magistralmente dato vita a una battaglia epica rispettando le nostre idee: non volevamo puntare tutto sulla spettacolarità, perché non disponevamo certo delle risorse economiche di Peter Jackson con Il signore degli anelli. Si trattava invece di raccontare quello che affrontavano i personaggi che stanno combattendo tra di loro. Ci sono Davos Seaworth e Tyrion Lannister che sono fondamentalmente brav’uomini – complicati, ma fondamentalmente brav’uomini – costretti dagli eventi a cercare di uccidersi a vicenda. Questo, per me, è molto più interessante della battaglia epica di Bene contro Male.

 

Scrivete insieme lei e Dan Weiss?

Sì. Normalmente succede che uno di noi scrive la prima metà, l’altro la seconda metà e poi ce le scambiamo, riscriviamo le cose dell’altro e poi continuiamo a scambiarcele. Abbiamo provato a scrivere insieme e in tre ore abbiamo tirato fuori mezza pagina.

 

Lei è anche uno scrittore di romanzi. Quali sono le differenze più evidenti nei due metodi di scrittura?

La differenza tra scrivere per la tv e scrivere un romanzo è semplice. Ho scritto tante sceneggiature di recente e mi sono reso conto che questo mi ha fatto perdere un po’ di destrezza nella descrizione. Sceneggiare vuol dire mettere a punto una scena a cui gli scenografi aggiungeranno il setting, mentre i costumisti vestiranno i personaggi e gli attori gli daranno aspetto e movenze. Nella stesura di un libro tutto questo spetta a te e a te solo, e devi fornire al lettore gli strumenti per visualizzare quello che racconti, mentre in una sceneggiatura si hanno meno di cento pagine per raccontare una storia, per cui si punta all’efficienza. E in una sceneggiatura televisiva o cinematografica, a meno che non ci sia una voce overche esprima i pensieri dei personaggi, non si ha accesso a cosa pensano i protagonisti come in un romanzo, dove invece si può accedere alla mente di chiunque. Alla fine un racconto o un romanzo ti danno più soddisfazione perché una sceneggiatura è sempre e comunque parte di un processo più grande, e il merito lo dividi con attori, regista, crew, mentre il romanzo è una creatura tua.

 

La prima stagione presentava un mondo, e da lì in avanti?

La prima metà della stagione d’esordio era tutta dedicata all’introduzione di un mondo che qualche spettatore aveva già conosciuto tramite i libri e molti altri no. La nostra priorità era riuscire a far arrivare il pubblico al quinto episodio, perché da lì in avanti cominciava l’azione ed era in crescendo dal sesto in poi. Nella stagione successiva gli spettatori hanno acquisito dimestichezza con Westeros e i suoi personaggi, per cui potevamo accelerare le cose ed entrare nel vivo della lotta al potere.

 

Dopo la prima stagione, qual è diventato il vostro obiettivo?

La prima annata puntava a creare interesse nel pubblico; adesso non stiamo più ad arrovellarci chiedendoci se a qualcuno piace la serie, lo sappiamo. Non ne eravamo sicuri, nonostante disponessimo di un ampio budget e di centinaia di dipendenti che si sono fatti in quattro per lo show. Adesso ciò che ci preme è tenerci strette quelle persone che hanno visto Game of Thrones e vogliono sapere cosa succederà.

 

Deve essere gratificante sapere dell’apprezzamento dei fan dei libri.

Sì, all’inizio ero molto nervoso perché non sapevo come avrebbero reagito. Avevamo uno zoccolo di fan leali da cui partire, che è un fattore importante, ma c’erano anche le persone che non avevano letto i libri. Ci chiedevamo se quelli che non avevano letto i romanzi sarebbero venuti a capo della miriade di eventi della saga. La trama è molto complessa e ci sono molte storie diverse che si intrecciano negli episodi. Il fatto che i fan sembrassero rispondere positivamente, ma anche il fatto che avevamo attirato molti che non avevano letto i libri e che non erano neanche amanti del fantasy, è stato molto gratificante. Adesso facciamo, di tanto in tanto, modifiche rispetto al testo letterario, quindi ci sono alcuni eventi che divergono e sono concepiti per sorprendere chi ha letto i libri.

 

Avete regole da far rispettare agli altri autori che si aggiungono a voi nella writer’s room?

Abbiamo una writer’s room risicata: oltre a George R.R. Martin, Dan e io che scriviamo la maggior parte delle puntate, disponiamo di Vanessa Taylor e Bryan Cogman, due autori che si sono adattati completamente allo stile dello show tanto da non avere bisogno di linee guida. È difficile aggiungere sceneggiatori al team, perché bisogna essere molto preparati sull’universo di Westeros.

 

Considerato il volume dei libri e la durata delle stagioni, viene da pensare che l’adattamento funziona per omissione…

Si omette, si concentra e a volte si espande. Facciamo tutto in modo abbastanza intuitivo, calcolando che a volte serve spazio per far respirare i personaggi. Capita che ci affezioniamo a uno dei personaggi di George e decidiamo di dedicargli più tempo. Per esempio Robb Stark, che è così affascinante e meravigliosamente interpretato da Richard Madden, non è molto visibile nel secondo libro perché nessuno dei capitoli è raccontato dal suo punto di vista. Lo vedi attraverso gli occhi della madre Catelyn, però ci piaceva tantissimo il personaggio e la sua evoluzione nella storia, quindi abbiamo ampliato il suo ruolo finché era possibile.

 

La scrittura degli episodi si basa, quindi, anche sulla qualità degli attori a disposizione?

La prima volta che abbiamo visto quanto erano bravi Aidan Gillen nei panni di Ditocorto e Conleth Hill nei panni di Varys, abbiamo pensato che i due personaggi, tra i più interessanti dei libri, meritassero confronti verbali che nei libri di fatto non esistono. Ditocorto e Varys conoscono i segreti di tutti, quindi come sarebbe una conversazione tra loro? L’abbiamo scritta e mana a mano abbiamo aggiunto più dialoghi tra loro. È fondamentale rimanere aperti a ogni influenza e suggerimento, da parte di chiunque: attori, registi, direttori della fotografia e crew, perché lavorando a una serie di tale vastità troppe cose possono sfuggire.

 

Di quali altri personaggi preferite scrivere?

Di molti, e ci divertiamo di più adesso nel farlo perché abbiamo bene in mente l’attore a cui scriviamo le battute: se scriviamo i dialoghi di Catelyn Stark abbiamo in mente Michelle Fairley, la sua interprete. Dovendo scegliere, preferisco Theon Greyjoy perché la sua evoluzione è molto drammatica e oscura ed è un personaggio particolarmente contorto. Prende decisioni terribili, ma il Theon dei libri è molto affascinante e Alfie Allen lo interpreta ottimamente. A Dan invece piacciono Tyrion e Cersei. Peter Dinklage e Lena Headey, che li interpretano, si vogliono bene nella realtà e si conoscono da anni, quindi è stato divertente farli odiare e punzecchiare a vicenda davanti alle telecamere. È un tipo di rapporto fondato sull’astio e sulla ripicca, ma è stato divertente scriverlo. Sogniamo di scrivere uno spin-off solo su loro due intitolato Cersei e Tyrion all’inferno, con loro due intrappolati in una stanzetta e costretti a sopportarsi a vicenda.

 

Avete mai avuto dubbi sul far morire Ned Stark nella prima stagione?

Credo che la sua morte sia stata uno dei fattori che ci ha resi così desiderosi di fare la serie. Farlo sopravvivere non è mai stato in discussione. Quando abbiamo concordato la produzione con i capi di HBO abbiamo chiarito subito che una delle caratteristiche del mondo di Martin è che anche le teste dei protagonisti cadono e che questo non si poteva cambiare. Il pubblico ne sarebbe rimasto scioccato. E poi è bello far sapere che se gli attori diventano troppo costosi possiamo sempre decapitarli!

 

Anche se Ned incontra lo stesso destino nei libri, molti spettatori sono rimasti stupefatti…

Qui entra in gioco lo spoiler. Temevamo che gli spettatori della serie venissero avvisati dai fan della saga, ma siamo rimasti sorpresi e soddisfatti nel constatare che la comunità virtuale costituita dai lettori quando interagisce con il resto del pubblico è molto rispettosa e non rivela cosa succederà. Ci sarà sempre l’idiota di turno a cui piace rovinare la festa agli altri, ma per la maggior parte dei casi – lo abbiamo verificato – c’è grande celerità nell’allontanare i guastafeste.

 

Immagine: David Benioff e George R.R. Martin al Winter Tca di Pasadena, gennaio 2011 (Frederick M. Brown / Getty Images)