Attualità

Un uomo entra in un caffè

Perché raccontiamo barzellette? Parliamone, partendo da quella che finisce con uno "splash", per arrivare ad alcune oscenità sumere e finire a cercare di capire quanta paura ci fa la morte.

di Pietro Minto

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Il primo uomo a entrare in un caffè fu un nobile veneziano. Era il 1640 e nella capitale della Serenissima nacque il primo locale adibito al consumo di questa bevanda esotica, alla conversazione e ai giochi. L’idea di un luogo simile giunse dall’Arabia, dove luoghi simili esistevano dal 1500, quando a La Mecca aprì il primo al-maqhah. Lentamente, seguendo le tratte commerciali che legavano l’Oriente all’Europa, il caffè si diffuse arrivando prima a Venezia e poi a Marsiglia, Londra ed Amsterdam. Sempre più persone cominciarono a entrare nei caffè.

A un certo punto, qualcuno di loro, varcata la soglia, fece splash.

Questo tuffo imprevisto in una botola di liquido bollente non è ovviamente mai avvenuto ma la vicenda dell’uomo che entra in un caffè finendo per fare splash, si è comunque diffusa in tutta Italia trainata dalla carica umoristica che la contraddistingue. Una carica umoristica che, certo, si è sbiadita nel corso degli anni tanto da rendere, ai nostri occhi, “l’anedotto splash” (come lo chiameremo di qui in poi) la barzelletta vecchia e stantia per eccellenza. Ma prima di inoltrarsi in questo mare scuro, urge ricordare che lo stesso evento è capitato in altri paesi, poiché il meme “un uomo entra in un caffè” è diffuso altrove: nel mondo anglofono, per esempio, l’uomo in questione entra “in a bar”, un bar, senza fare splash. A dire il vero, spesso, non è nemmeno solo: a entrare sono più persone, rappresentanti di svariati stereotipi razziali: “Un rabbino, un vescovo cattolico e un gorilla entrano in un bar” è un ottimo incipit per una barzelletta che mi sono appena inventato, carico di tensione sociale e religiosa (ebrei e cristiani) e potenziato da un elemento d’assurdo a rendere la situazione ancora meno prevedibile (il gorilla). La barzelletta è appena cominciata e l’ascoltatore ha già paura: “cosa succederà a queste persone in un luogo così angusto come un bar?” si domanda. E sta ad ascoltare.

«L’umorismo può essere analizzato, come una rana, ma il soggetto muore durante il processo e le interiora sono scoraggianti per tutti eccetto la mente puramente scientifica.»

Mi rendo conto di essermi appena esercitato nella spiegazione di una barzelletta, un’attività sconsigliabile e degradante. L’ho fatto per un motivo preciso: cercare di capire perché, da sempre, gli umani si intrattengono con buffi raccontini. Conoscete quella citazione di E. B. White secondo cui «analizzare l’umorismo è come sezionare una rana: interessa a pochi e alla fine la rana muore»? Niente di più vero, anche se la frase originale – meno celebre – è diversa: «L’umorismo può essere analizzato, come una rana, ma il soggetto muore durante il processo e le interiora sono scoraggianti per tutti eccetto la mente puramente scientifica». Ecco, piuttosto di uccidere rane, cercheremo di risvegliare la nostra mente scientifica e capire qualcosa di più delle nostre risate, ben sapendo che si tratta di un esercizio nobile e non spocchioso, visto che nel corso dei millenni ha interessato figure come Platone, Aristotele, Cicerone, Hobbes e Freud (tra gli altri). Per cominciare, vi racconto la barzelletta più vecchia del mondo, quella vera, ritrovata in un’incisione sumera risalente al 1900 a.C. contenente diversi proverbi e modi di dire. Si tratta di una battuta sulle scoregge. Fa più o meno così:

«Un qualcosa che non accadeva da tempo immemore; una giovane donna non ha scoreggiato stando seduta sulle gambe di suo marito.»

Prima che la smania di ristudiare la storia sumera vi travolga allontanandovi da questo articolo, ecco un altro indovinello, proveniente questa volta dall’Egitto e datato 1600 a.C.:

«Come si intrattiene un faraone annoiato? Si fa salpare una nave carica di giovani donne vestite con reti da pesca e si chiede al faraone di pescare un pesce.»

L’umorismo antico si rivela da questi due esempi simile a quello contemporaneo, ossessionato dalla sfera sessuale e scatologica. Gli antichi Romani confermano l’ipotesi con una notevole collezione di battute su nani, prostitute e le differenze di classe, con le quali deridevano la terribile condizione dei poveri e degli schiavi. Come raccontato da Mary Beard in Laughing in Ancient Rome: On Joking, Tickling and Cracking Up (University of California Press, 2014) i romani ridevano anche dei comportamenti degli animali, specie dei primati, così simili a noi umani eppure così goffi. Non avendo accesso a YouTube, erano costretti a osservarli dal vivo, gustandosi anche le espressioni degli asini, di cui ridevano spesso, tanto da spingere Beard a suggerire un’origine comune dei verbi rudere (ragliare, il verso dell’asino) e ridere.

Col tempo l’umanità partorì nuovi e più sofisticati approcci alla comicità ma ancora oggi la risata corporea ed esplicita o quella denigrante nei confronti di qualcuno è molto diffusa, la più istintiva. Il gioco di parole – categoria a cui l’aneddoto-splash appartiene – è di poco più sofisticato ma ugualmente diffuso. Il pun, come lo chiamano gli anglosassoni, è stato studiato dal poeta scozzese Beattie nel 1776 e da Sigmund Freud e Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio: secondo il padre della psicanalisi era la manifestazione di collegamenti tra idee e concetti provenienti dal nostro subconscio. Stando alla sua teoria, l’effetto umoristico del motto di spirito originava dalla «comunicazione» tra due immagini che si escludono reciprocamente.

Il venditore di cavalli: «Se parti con questo cavallo alle quattro del mattino, sarai a Pittsburgh per le sette di mattino».
Il cliente: «Ma cosa vado a fare a Pittsburgh alle sette di mattino?»

Questo esempio citato da Freud dimostra come un frase banale frase possa contenere l’assurdo alla base della risata. Il linguista Victor Raskin, fondatore di Humor, rivista accademica dedicata alla risata pubblicata dall’International Society for Humor Studies, è autore del più maturo studio sul funzionamento dell’umorismo. Si chiama Semantic Mechanisms of Humor (1979, Pdf) e rappresenta le colonne d’Ercole del “spiegare le barzellette”. La parte centrale dello studio riguarda «un certo repertorio di strutture cognitive che si trova nella nostra mente», come fossero internalizzate: esiste una serie di script o copioni di cui siamo dotati tutti naturalmente, e l’umorismo verbale – sostiene Raskin – «dipende dalla parziale o completa sovrapposizione di due o più di questi script, tutti compatibili con il testo che contiene la battuta». Un esempio accademico:

«Il dottore è a casa?» chiede il paziente sospirando per via della bronchite. «No,» sussurra la moglie giovane e bella del dottore, «entri, entri pure».

Una normale vicenda che a un certo punto (a partire dal «No,» della signorina) veicola il non detto sessuale facendo leva su un malinteso, la voce ansimante del paziente. Molte barzellette funzionano proprio così: si presentano come classiche interazioni umane per diventare altro; e lo “svelamento”, il momento in cui le cose cambiano e l’umorismo si prepara a esplodere, è il punto più fragile e complicato. Sta tutto lì, nella capacità di eseguire il giusto svelamento al momento giusto. È questo a dividere l’umanità in due gruppi, quelli che sanno raccontare una barzelletta e quelli che bruciano ogni ritmo narrativo con pause ed imprecisioni.

La cosidetta “N+V theory” secondo la quale «l’umorismo avviene quanto qualcuno percepisce una situazione come una violazione di “principio morale soggettivo” (V) pur sapendo che invece è normale (N).

Molti studiosi hanno tentato di trovare la “formula” per la battuta perfetta: per molti di questi non si tratta di un attacamento morboso all’umorismo quanto una ricerca basilare per l’interpretazione del campo umano. The Humor Code (Simon & Schuster, 2014) è un libro essenziale sull’argomento, scritto da Peter McDraw, professore universitario in economia comportamentale, e il giornalista Joel Warner; entrambi ossessionato dalla risata, si sono imbarcati in un viaggio che li ha portati dai comedy club losangelini alla Tanzania. McDraw è la forza trainante della coppia, un Ph.D. autore di alcune “teorie sull’humor” che non ha paura di testare davanti al pubblico di una cittadina in Colorado. Sul palco tenta di dimostrare la cosiddetta “N+V theory” secondo la quale «l’umorismo avviene quanto qualcuno percepisce una situazione come una violazione di “principio morale soggettivo” (V) pur sapendo che invece è normale (N)». La teoria originale fu ideata da tale Thomas Veatch proprio nella pagine della rivista Humor. Secondo il suo creatore, la barzelletta-base per capire la “teoria N+V” è:

Perché la scimmia è caduta dall’albero?
Perché era morta.

Veatch dice di aver riso per un’ora la prima che l’ha sentita tra il 1985 e il 1986. Poi, nel 1992, l’illuminazione: «La scimmia senza vita sembra una violazione ma la situazione è normale perché le scimmie morte cadono davvero dagli alberi». Allo stesso modo l’aneddoto-splash è in parte una violazione di una situazione che sembra normale – meglio: inevitabile, se pensiamo a qualcuno che entra in una tazza di caffè. A generare la violazione, nel nostro caso, è l’ambiguità del termine “caffè”, che può indicare una bevanda o un locale.

Un’altra tappa della coppia McGraw e Warner è stata la Santa Monica Playhouse di Los Angeles, che da anni ospita un corso sulla comicità tenuto da Greg Dean, nominato migliore insegnante di comicità ai Los Angeles Comedy Awards. Le sue lezioni si basano sulle teoria di Raskin, che ha sviscerato arrivando a creare un vero “metodo universale per la risata”. Secondo Dean – la cui teoria ricorda in parte quella di Veatch – ogni barzelletta consta di tre fasi: la prima è l’assumption, il presupposto, che dev’essere chiaro e non ambiguo, la parte non divertente del tutto; segue il connettore, ovvero una parola-chiave da usare come leva per rigirare il tutto, lo svelamento di cui abbiamo parlato; si giunge così all’ultima fase, la reinterpretazione, in cui il senso della frase cambia, e si ride.

Il caso dell’uomo che entra in un caffè rispetta queste regole generali pur rimanendo eccentrico: lo svelamento è infatti improvviso e brusco. Inoltre, la sua reinterpretazione mira a sorprendere l’ascoltatore, il quale non ride per il contenuto in sé quanto per la sua delusione. Così come la storiella della scimmia morta sull’albero, infatti, l’aneddoto-splash può essere considerato una anti-joke, una battuta che si basa un elemento volutamente non comico. L’aneddoto-splash, infatti, non fa ridere ed è talmente insensato da risultare inspiegabilmente divertente. Il suo retrogusto è forte ed amaro.

Qualcosa di simile succede anche nella tradizione statunitense, dove da decenni circola una storiella simile alla barzelletta dell’uomo che entra in un caffè. Parliamo di un indovinello su una strada e una gallina:

Perché la gallina ha attraversato la strada?
Per andare dall’altra parte.

Due nazioni, due culture, due barzellette vecchissime, due gemme anti-umoristiche: può essere solo una coincidenza? E se fosse la loro natura bizzarra da non sequitur a rendere i due aneddoti così popolari e resistenti nel tempo, trasformando delle battuttine in filastrocche bizzarre e misteriose? E se fosse il loro disinteresse nel formato barzelletta – che anzi sbertucciano, rovesciandone i principi – ad averle trasformate in altro?

La risata, potremmo dire, è la conseguenza di un insuccesso del nostro cervello nell’utilizzo di enormi fonti d’energia per capire il mondo in cui viviamo. Non abbiamo capito nulla e la battuta ci ha sorpreso, facendoci ridere.

Secondo gli studi di Raskin la mente umana crea di continuo teorie e supposizioni, anche mentre ascolta una barzelletta: cerca di capire dove la storiella andrà a parare, seguendo un istinto evolutivo innato, mirando insomma a “capire” la facezia prima della sua fine. Quando però è l’umorismo a manovrare una narrazione, la conclusione è spesso assurda e inaspettata, difficile da prevedere. L’energia celebrale sprecata cercando di anticipare il finale viene così dissipata all’istante: è questo a generare quella piccola convulsione mentale che definiamo “risata”. La risata, potremmo dire, è la conseguenza di un insuccesso del nostro cervello nell’utilizzo di enormi fonti d’energia per capire il mondo in cui viviamo. Non abbiamo capito nulla e la battuta ci ha sorpreso, facendoci ridere. Ma poteva andare peggio, no? In un altro ambiente, in un’altra situazione la nostra pessima analisi degli eventi avrebbe potuto metterci in pericolo. Per fortuna ci è successo mentre eravamo al bar con gli amici.

Michael Stevens è l’autore di un noto canale YouTube chiamato “VSauce” in cui risponde scientificamente a domande come “di che colore sono gli specchi?”, “la musica è infinita?” e, ovviamente, “perché la gallina ha attraversato la strada?”. Secondo la sua interpretazione, la storiella popolare ha una lunga ombra oscura: per le galline l’attraversamento di una strada è un pericolo spesso mortale. E allora perché lo fanno? Forse perché sono braccate da altri animali. Forse sono sole e disperate. E vogliono farla finita. Vogliono solo andare dall’altra parte.

Che sia tale remoto riferimento a rendere così famosa quella barzelletta, giocando con i meccanismi più morbosi della nostra mente? Forse molte barzellette servono solo a ricordarci dell’unica cosa in grado di unirci: la morte. Pensate a tutte quelle battute ciniche che conoscete: non sono forse la dimostrazione del fascino atroce della fine, il modo più semplice che il nostro cervello ha di analizzare l’immanenza della morte? Per saperne qualcosa di più, potremmo chiederlo a quel distinto signore che sta entrando in un bar. Ecco, ora apre la porta e… splash. È caduto in un lago di caffè bollente. Non ce l’ha fatta.

LOL.


Immagine: Un artigiano dipinge una maschera dal sorriso agghiacciante, 1927 ( Fox Photos / Getty Images)