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Chi è Balkrishna Doshi, l’architetto che ha vinto il Pritzker Prize 2018

Tra gli ultimi esponenti della generazione anni ’20, discepolo di Le Corbusier e Kahn, ha contribuito a globalizzare l‘architettura attraverso la cultura locale.

di Manuel Orazi

Il Premio Pritzker 2018 va a Balkrishna Doshi, ed è un premio meritatissimo. Decano dell’architettura indiana, impegnato per decenni nella costruzione di alloggi a basso costo per le grandi masse degli inurbati dalle campagne indiane, Doshi è stato soprattutto un ponte fra Occidente e Oriente. Nato a Pune nel 1927, in una famiglia di industriali e commercianti di legno, si è laureato nell’anno dell’indipendenza del suo Paese (1947) a Mumbai per poi partire subito per Londra, dove nel 1951 ebbe l’occasione di ascoltare una conferenza di Le Corbusier. Questi decise di assumerlo immediatamente perché aveva appena ricevuto da Nehru l’incarico per la progettazione di Chandigarh, la nuova capitale del Punjab. Doshi lavorò così per sei anni per il maestro svizzero-francese diventando ben presto il suo luogotenente sul campo, anche degli altri progetti che nasceranno strada facendo ad Ahmedabad.

Tra 1951 e il 1957 infatti Le Corbusier vi progettò quattro edifici: Villa Shodhan, Villa Sarabhai, il Palazzo dei filatori, il Museo Sanskar Kendra. Ed è ad Ahmedabad, dove sovrintendeva alla loro costruzione, che alla fine Doshi si stabilisce definitivamente. Qui ha la fortuna di collaborare anche con un altro mostro sacro dell’architettura del secolo scorso, stavolta americano, Louis Kahn. Nel 1962 partecipa infatti alla costruzione dell’Indian Institute of Management sempre ad Ahmedabad, iniziando una collaborazione decennale che porterà Kahn a essere docente nella locale scuola di architettura fondata da Doshi nel 1966.

Le Corbusier e Kahn con le loro grandi opere in Oriente fra gli anni ’50 e ’60 hanno segnato una sorta di positivo “tramonto dell’Occidente” nell’architettura contemporanea, nel senso che da allora in poi la disciplina e i suoi attori si sono globalizzati in modo crescente, anche grazie alle culture locali e vernacolari. Paradossalmente infatti le opere di Doshi che oggi possiamo giudicare più vicine alle tradizioni costruttive indigene sia in termini di materiali sia in termini di spazialità, perché favoriscono grandi ambienti coperti e serviti da una ventilazione naturale come lo studio Sangath completato nel 1981, devono moltissimo all’Occidente e agli intensi anni di scambi culturali favoriti dai Ciam e dal Team 10, in particolare alle fascinazioni indiane che Le Corbusier sperimentò già nel lussuoso quartiere di Neully-sur-Seine. Non è un caso che Doshi abbia dedicato proprio al suo antico maestro il Pritzker ricevuto oggi. Grazie a lui è riuscito a traghettare l’architettura indiana dagli anni della modernizzazione dei grandi progetti in serie e delle new town fino all’epoca di una riscoperta identità nazionale in parallelo al lavoro di altri ottimi grandi architetti come Charles Correa e Raj Rewal.

Invitato da Giancarlo De Carlo con la sua consueta lungimiranza, così scriveva Doshi nel 1987 sulla rivista Spazio e società: «Le forme e i metodi tradizionali non sono più visti come fatti “esotici”, privi di senso in una società industrializzata, ma come soluzioni ancora valide purché correttamente reinterpretate nel contesto contemporaneo». Per questo è anche diventato un pioniere dell’attenzione alle risorse naturali, denunciando fra i primi l’enorme costo energetico del modello suburbano dopo la crisi del petrolio del 1973: «Così, per motivi sia “estetici” che pratici, il mondo architettonico e urbanistico indiano ha dovuto cercare altrove; e per fortuna, secondo una delle migliori tradizioni culturali indiane, negli ultimi anni ha cominciato a cercare al suo interno».

Oggi, splendido novantenne che sembra un sessantenne, da molti anni vegetariano, Doshi può volare alto sulle insinuazioni – nel 2007 era nella giuria del Pritzker che incoronò Richard Rogers, ora le parti si sono invertite – forte dei suoi progetti che scontano solo una leggera vena di eclettismo, forse inevitabile in una carriera tanto lunga, basta confrontare le case a basso costo Aranya con il Centro di pianificazione e tecnologia ambientale. Un premio a uno degli ultimi esponenti della generazione anni ’20, quella gloriosa dei Robert Venturi, James Stirling, Paulo Mendes da Rocha, Frank Gehry, la vecchia scuola per cui non c’è differenza tra architettura e urbanistica, solo occasioni progettuali per migliorare le città reali.

Nel testo: immagine della Amdavad ni Gufa, la nota galleria d’arte sotterranea ad Ahmedabad progettata da Doshi.