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Aspettando il terzo uomo

Le primarie Repubblicane secondo Maurizio Molinari: Gingrich, Romney e un partito alla ricerca di unità

di Anna Momigliano

Alla vigilia del voto in Florida, che con la sua massa di 50 delegati assegnati potrebbe nuovamente scardinare gli equilibri della corsa alla corsa alla candidatura Repubblicana, abbiamo fatto quattro chiacchiere con Maurizio Molinari, inviato negli Stati Uniti per La Stampa e autore del saggio Italiani di New York. Che ha discusso con noi dell’ipotesi di una terzo candidato, in grado di unificare il partito come Gingrich e Romney finora non sono riusciti a fare, di politica estera (“il punto più forte dell’Amministrazione Obama”), di Occupy Wall Street e di un tema che sta diventando sempre più presente nella campagna Gop: lo spauracchio della crisi europea.

Quando molti pensavano che i giochi fossero già fatti a favore di Romney, il South Carolina ha riaperto la corsa per Gingrich. Quanto decisivo sarà il voto di martedì in Florida? E quanto è credibile che a questo punto possa entrare un altro papabile candidato da qui al Super Tuesday del 6 marzo?

La corsa repubblicana si avvia a un duello Romney-Gingrich. Chiunque sarà il vincitore in Florida è assai improbabile che lo sconfitto getterà la spugna. Romney ha dalla sua organizzazione, soldi ed establishment mentre Gingrich ha emozioni, grinta e rabbia della base conservatrice. Ciò significa che unificare il partito in novembre potrebbe essere difficile per entrambi. Da qui l’ipotesi, sollevata dal politologo Larry Sabato e caldeggiata dal columnist William Kristol, della candidatura di un nuovo volto. Se tale possibilità esiste davvero lo sapremo entro il Super Martedì. Dopo quella data infatti entrare in gara diventerebbe proibitivo perché Gingrich e Romney avranno posizioni talmente consolidate da essere assai difficili da scalzare dalla vetta.

Chi vede Romney come inevitabile sostiene che è l’unico in grado di sostenere un confronto con Obama. Ma in fase di primarie quanto contano i moderati, i cosiddetti “Rockefeller Republican”? E quanto invece conteranno alle presidenziali?

Romney è il candidato dell’establishment del partito, pragmatico e moderato. Lo stesso che nel 2008 puntò su John McCain. La natura delle presidenziali americane fa sì che tali candidature siano più deboli nelle primarie e più forti nella sfida finale perché nel primo caso a votare è la base conservatrice e nel secondo l’intero corpo elettorale. Per Romney è difficile conquistare la fiducia della destra religiosa quanto potrebbe essere facile rubare voti centristi e indipendenti a Obama nell’Election Day del 6 novembre.

Nelle ultime elezioni si diceva che il tema principe era l’economia e che alla fine il ritiro dall’Iraq contava molto meno di quanto non si pensasse da noi in Europa. A quattro anni di distanza, le cose stanno ancora così o la sicurezza nazionale è tornata al centro dell’agenda?

A decidere l’Election Day sarà l’economia e, in particolare, la percezione degli americani sulla debole ripresa in atto. Ronald Reagan nel 1984 fu rieletto nonostante la crisi economica perché nei mesi precedenti al voto vi era stata un’accelerazione dell’occupazione che aveva cambiato l’umore popolare ed è proprio questo lo scenario in cui Obama spera. Al momento la disoccupazione all’8,5 % è una spada di Damocle sulla prospettiva della rielezione ma da novembre i dati economici stanno migliorando e ciò consente alla Casa Bianca di augurarsi di seguire le orme di Reagan.

Venendo alla politica estera, invece, quali sono gli argomenti più caldi?

Se nelle elezioni del 2010 per il Congresso di Washington il tema di politica estera prevalente fu l’ostilità nei confronti della Cina, accusata di rubare brevetti e lavoro alle aziende americane, ora tale polemica, pur persistente, cede il passo a quella nei confronti dell’Europa “socialista”.
La sorpresa per i reporter che seguono la campagna on the road è stata nell’ascoltare i frequenti e polemici attacchi all’Europa da parte dei maggiori candidati repubblicani. Mitt Romney e Newt Gingrich soprattutto – ma anche Rick Santorum e, finché è stato in gara, Rick Perry – hanno usato il termine “europeo” per identificare una economia appesantita da debito sovrano, carenza di opportunità, peso dello Stato sociale e crescita negativa al fine di accusare Obama di voler “trasformare l’America in un’altra nazione Europea”.

Dal punto di vista della politica estera, quello che si è distinto di più è Ron Paul, con il suo isolazionismo totale che ricorda un po’ il Tea Party (che però non ama molto Paul). Quanto sono diffuse e/o importanti queste tendenze?

Ron Paul è il candidato della protesta, raccoglie voti di alcuni settori del Tea Party ma anche fra i militanti di sinistra di Occupy Wall Street. La sua idea libertaria di un’America senza Pentagono e senza Welfare State nasce da un rifiuto dello Stato in sé, percepito come un limitatore delle libertà personali e uno sfruttatore delle proprie risorse. L’isolazionismo in politica estera, come l’opposizione alla Nato, nasce in tale quadro di protesta contro tutti e tutto. Ciò lo ha portato ad essere il candidato più votato dagli elettori under-30 e chiunque vincerà la nomination repubblicana dovrà fare i conti con lui. Non è un caso che Romney e Gingrich preferiscono sottolineare i pochissimi elementi di convergenza con Paul rispetto ai numerosi terreni di disaccordo.

Al contrario Gingrich e Romney, con le dovute differenze, sono entrambi interventisti…

Infatti sulla politica estera sono nel complesso in sintonia. Credono nell’eccezionalità dell’America, puntano a garantirsi la supremazia militare nel lungo tempo, non daranno tregua ai terroristi, non escludono l’uso della forza contro il nucleare iraniano, puntano a rilanciare i rapporti con Israele indeboliti dai dissensi con Obama e promettono di chiudere la pagina di Obama, accusato di girare il mondo per chiedere scusa a nome dell’America. Sono posizioni molto omogenee anche se poi, andando a esaminarle nei dettagli, i due rivali amano bacchettarsi l’un altro. Ad esempio sulla reazione all’ipotetica morte di Fidel Castro, Romney ha detto che sarebbe felice di “vederlo andare al creatore” mentre Gingrich ha obiettato “a mio avviso finirà da un’altra parte…!”.

In fase di primarie i repubblicani hanno criticato fortemente la politica estera di Obama, giudicata “morbida”. Secondo te sono argomenti buoni solo per il pubblico conservatore delle primarie o li vedremo anche in fase di campagna elettorale?

La verità è che la politica estera è, sondaggi alla mano, l’elemento di maggiore forza di Barack Obama. L’America lo contesta sull’economia mentre lo sostiene sulla sicurezza nazionale perché l’eliminazione di Osama Bin Laden, la guerra globale e segreta dei droni contro i jihadisti dal Pakistan allo Yemen, i blitz in Somalia, il ritiro dall’Iraq, la caduta di Gheddafi e Mubarak e la data del 2014 come limite ultimo alla missione di combattimento in Afghanistan sono stati percepiti dal grande pubblico come momenti di successo internazionale. Da qui il fatto che gli attacchi repubblicani a Obama sono assai più efficaci sul fronte dell’economia e dei valori tradizionali, dall’opposizione all’aborto all’ostilità per le nozze gay.

Qualche giorno fa sul New York Times c’era un editoriale di Roger Cohen che criticava le presunte ingerenze del premier israeliano Benyamin “Bibi” Netanyahu nell’anno elettorale americano. Ma onestamente, si può credere che l’appoggio, vero o presunto, di Bibi abbia un qualche valore?

Il sostegno a Israele è uno dei tradizionali terreni di coesione del pubblico americano nel suo insieme e ciò determina la conseguenza che tutti i candidati, di entrambi i partiti, usano verso lo Stato Ebraico un linguaggio che sottolinea similitudini democratiche, comunanza di valori e alleanza strategica.
E’ interessante notare come tali posizioni pro-israeliane non servono tanto ai candidati per corteggiare il voto ebraico, saldamente ancorato ai democratici da oltre un secolo, quanto per competere nel guadagnare consensi nella grande pancia dell’America. A cominciare dalle chiese evangeliche. E’ tale realtà, peculiare della tradizione politica americana, che assegna a qualsiasi leader israeliano un ruolo di particolare importanza. Come il successo del discorso di Benyamin Netanyahu al Congresso nel 2011 ha dimostrato. Ma il governo Gerusalemme non fa mai grande uso di tale potenziale influenza, nel timore di conseguenze negative se a vincere dovesse essere il candidato opposto a quello sostenuto.