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Ascesa e caduta dei Verve

Sono passati vent’anni di distanza dall’uscita di Urban Hymns, adesso ripubblicato, occasione per un bilancio: troppo sottovalutati?

di Edoardo Vitale

Wigan, Lancashire. Nell’estate del 1990, durante una festa di 18 anni, avresti potuto veder gli invitati salutare e andarsene alla spicciolata, lasciando il festeggiato come unico spettatore di una jam che andava avanti ininterrottamente da cinque ore. Era il primo concerto degli allora Verve – divenuti poi The Verve a seguito di una battaglia legale con l’etichetta jazz Verve Records – ma non avresti mai detto che quei capelloni sul palco un giorno sarebbero arrivati in cima alle classifiche, mentre il Britpop raggiungeva il proprio zenit, nell’anno di grazia 1997. L’unico a sapere come stavano le cose era lo sciamano alto e scheletrico che si contorceva col microfono in mano e che profetizzò: «Ci vorranno tre dischi, ma c’è un posto anche per noi nella storia», parola di Richard Ashcroft.

Le cose andarono esattamente così, ma a vent’anni di distanza dall’uscita di Urban Hymns, l’album che li ha resi celebri, la parabola dei The Verve appare molto più evanescente, turbolenta e incompiuta di quello che rimane nella memoria collettiva, grazie al successo planetario del singolo e soprattutto del video di “Bitter Sweet Symphony”, mandato in rotazione da MTV più dello spot della Coca Cola Light.

Dalla grigia provincia inglese la band si fa notare a fatica con dei pezzi prevalentemente space-rock e shoegaze, in un’epoca ancora dominata dal grunge. La musica che propongono Ashcroft e il chitarrista Nick McCabe affonda le radici nel krautrock, ha una matrice cosmica e psichedelica e anche il gruppo nella sua estetica sembra ritagliato dagli anni Settanta, pantaloni a zampa, capelli lunghi, magliette attillate.

Appena ventenni, i quattro di Wigan iniziano a far parlare di sé più che altro per la durata dei concerti, lunghissime sessioni allucinogene e ombelicali sotto l’effetto di Lsd ed ecstasy, il pubblico va lì più che altro per sballarsi, nessuno canta le canzoni che nel 1993 finiscono in A storm in heaven, che riceve qualche buona critica ma ottiene pessimi risultati in termini di vendite.

Poco male: durante il tour Richard Ashcroft viene ricoverato d’urgenza per una forte disidratazione causata dall’abuso di alcol e droghe e il batterista Peter Salisburg finisce in manette per aver distrutto la camera d’albergo in preda a un delirio da mescalina.
A quei tempi ad aprire i concerti ai The Verve c’erano cinque sconosciuti di Manchester, che di lì a poco avrebbero cambiato le regole del gioco: gli Oasis dei fratelli Gallagher, con i quali il già rinominato “Mad Richard” stringe da subito un legame indissolubile.

È proprio grazie agli Oasis che i The Verve decidono di affidare la produzione del nuovo disco a Owen Morris, un genio che aveva appena compiuto un miracolo con Definitely Maybe, conferendogli un’identità sonora e la potenza che fece la fortuna dei Gallagher. A quei tempi la prerogativa era riuscire a trasferire su disco l’energia che le band proponevano dal vivo, mantenendo un equilibrio dei volumi e una pulizia acustica che divennero poi un marchio di fabbrica del Britpop: il risultato è A northern soul uscito nel 1995, non senza difficoltà. Le registrazioni si prolungano più del dovuto, Morris distrugge una finestra per la rabbia, prometterà di non voler mai più lavorare con Ashcroft e McCabe, che litigano tutto il tempo, cambiano idea in continuazione, sono sempre strafatti, quelle rare volte che si presentano in studio, pare che Ashcroft preferisce chiudersi in camera con la fidanzata scomparendo dalla faccia della terra per giorni, dimenticandosi delle registrazioni. Il disco vende più copie del predecessore ma non entra in top ten, riceve buone critiche, ma rimane un fallimento se paragonato a quello che stava esplodendo attorno.

Gli Oasis conquistano l’universo con (What’s the story) Morning glory?, seguiti dai Blur che pubblicano The Great Escape a contendergli le vette delle classifiche, occupano tutte le copertine grazie alla celebre rivalità rinominata “campionato britannico di pesi massimi”, i Radiohead fanno uscire The Bends che rappresenta il primo di una lunga serie di salti di qualità della band di Oxford, persino gli esordienti Supergrass e gli esotici Kula Shaker si prendono le luci della ribalta della Cool Britannia, per non parlare dei Suede, talmente precursori che a quei tempi erano già in fase discendente.

Il posto nella storia per i The Verve non sembra esserci, Ashcroft e soci non hanno le idee chiare, sono degli inetti depressi, inconcludenti come i loro brani che superano quasi sempre i cinque o sei minuti e si prolungano in lunghe code che non vanno a parare da nessuna parte, qualche giornalista si chiede «ma perché le canzoni durano così tanto e inutilmente?», non sono abbastanza fighetti, non sono abbastanza cervellotici, non sono abbastanza spirituali. I testi scritti da Ashcroft sono crepuscolari, fatalisti, venati di pessimismo «morirò da solo in un letto», «devo raccontarti la mia storia, di come ho amato e fallito», forieri di un esaurimento nervoso dietro l’angolo, ma non attecchiscono sulle masse di adolescenti depressi quanto quelli dei colleghi Thom Yorke o Billy Corgan ad esempio.

Il 1995 per “Captain Rock” – soprannome datogli da Noel Gallagher, che gli dedicò anche la bellissima “Cast no shadow” – è anche l’anno dall’assurdo matrimonio con Kate Radley, ai tempi tastierista degli Spiritualized, nonché fidanzata e musa del frontman Jason Pierce, amico storico di Ashcroft e compagno di tournée sin dagli albori delle due band. Fu proprio tra una data e l’altra che i due convolarono a nozze in gran segreto, riuscendo a tenere la notizia nascosta ai media per anni, ma non a Pierce, che un paio di giorni dopo dovette condividere il palco con entrambi, col cuore distrutto, le vene piene di eroina e forse con in testa già qualche pezzo di Ladies and gentleman we are floating in the space, il disco capolavoro degli Spiritualized, ispirato in gran parte a questo dramma e che prende il titolo proprio dalle parole pronunciate da Kate in apertura – narra la leggenda – estratte dal messaggio in segreteria con cui lasciò per sempre il povero Jason.

Ma è solo l’inizio della follia: troppe tensioni, troppa droga, troppa pressione, l’aria diventa irrespirabile e non passa giorno senza che le idee discordanti di Ashcroft e McCabe non sfocino in liti furibonde dove sostanzialmente si incolpano a vicenda del fallimento che incombe più che altro nelle loro paranoie, nessuno si diverte più e la band si scioglie, anche se le cose non stavano effettivamente andando così male. Una caratteristica dei The Verve è sempre stata la fragilità emotiva di tutti i componenti, crollati o schiacciati a un passo dal traguardo, spaventati dal reale successo, un equilibrio precario che in qualche modo è rintracciabile anche nelle sonorità anfrattuose e decadenti, tutte con un gran groove sì, ma sempre schivo: ascoltando i pezzi dei The Verve non ci si lascia mai veramente andare, ci si finisce dentro senza accorgersene.

Ad ogni modo le cronache del tempo raccontano di un Richard Ashcroft scappato a New York dove tenta di intraprendere una carriera da modello, tanto aleatoria quanto breve. Non che il belloccio emaciato non potesse permetterselo, anzi, non avrebbe affatto sfigurato come icona heroin chic in una campagna di Calvin Klein affianco a Kate Moss, ma la sua vocazione era un’altra e si vedrà ben presto. Nella sua unica apparizione pubblica del 1996 suona in apertura agli Oasis, si mostra al pubblico con una chitarra acustica, caso raro fino ad allora, e presenta qualche bozza di quello che sarebbe dovuto essere il suo primo album da solista: qualcuno capisce già che qualcosa sta per cambiare. Poco dopo Ashcroft ricompone la band, ma senza McCabe, al suo posto entra Bernard Bulter, il genio ex Suede, ma evidentemente i ragazzi di Wigan sono davvero dei fuori di testa, Bernard capisce l’andazzo e se la squaglia dopo nemmeno una settimana di prove. A questo punto c’è la telefonata mitologica avvenuta il giorno di Natale: Mad Richard chiede a McCabe di tornare e la risposta è affermativa.

La band va in ritiro spirituale e si chiude in studio, ci sono degli ottimi pezzi scritti da Ashcroft e McCabe ci mette anima e corpo per completarli:escono fuori pezzi straordinari che sublimano alla perfezione la demonologia dei The Verve. Urban Hymns è un disco completo ed equilibrato, per non dire perfetto. Il singolo “Bitter sweet symphony” debutta al secondo posto in classifica, i The Verve arrivano al grande pubblico, ma visto che sono i The Verve e che questa è la storia di un successo incompiuto, qualcosa deve per forza andare storto. Cosa può succedere? Semplice: qualcuno viene a dirti che quella canzone non ti appartiene e quando quel qualcuno sono i Rolling Stones,  nemmeno l’avvocato del diavolo può salvarti, anche perché sono loro il diavolo. Il celebre giro d’archi è stato campionato da una versione orchestrale di “Last time” riarrangiata nel 1966 dalla Andrew Oldham Orchestra, la cosa era stata fatta alla luce del sole, ma il pezzo fu pubblicato senza le dovute autorizzazioni, il risultato: 100% delle royalties agli Stones, Mick Jagger e Keith Richards accreditati tra gli autori del pezzo.

Una volta tanto il gruppo sembra reggere alla batosta, anzi, le cose vanno persino migliorando: esce il singolo “The drugs don’t work”, il primo e unico nella storia dei The Verve a raggiungere la vetta della classifica UK, stessa sorte tocca a Urban Hymns che guarda tutti dall’alto, sbaragliando la concorrenza, in un anno che vanta l’uscita di dischi come Ok Computer, Be here now, Blur, Dig your own hole oltre al già citato Ladies and gentleman we are floating in the space. La profezia dello sciamano si è avverata: disco di platino, copertina su Rolling Stone, scorpacciata di premi ai Brit Award tra cui quello di miglior band dell’anno, strappata agli amici di Manchester.

“The Verve” e “resilienza” sono due termini contrari, ed è proprio questo il bello: la debolezza, l’incostanza, l’instabilità, non sai mai cosa riservano, causano solo arte pura e senza controllo, non è per tutti, perché ha un costo altissimo. Durante il tour del 1998 Jones sviene all’improvviso sul palco, il ritmo della fama è troppo frenetico, la rivalità tra McCabe e Ashcroft si acuisce di nuovo e il chitarrista abbandona ancora una volta, con una mano rotta, all’apice del successo: è la fine dei The Verve. Tutto quello che ci sarà dopo non è nemmeno degno di nota, lo dimostra il sito ufficiale che rimanda a una pagina inesistente, come se fosse stato tutto un sogno e basta.

 

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