Attualità

Hennessy Youngman

Art Thoughtz, il virale del rapper/critico d'arte: quando l'inclusione non fa bene alla satira degli esclusi

di Nicola Bozzi

Tra le mille opinioni uscite su internet riguardo alla personale “mondiale” sincronizzata di Damien Hirst (quella con i famosi quanto poco interessanti Spot Paintings), ce n’è stata una particolarmente ri-bloggata e virale: quella di Hennessy Youngman, personaggio estraneo al mainstream ma abbastanza conosciuto in certi circoli, prevalentemente online ma non solo. Youngman si presenta come un giovane rapper afroamericano, con trucker hat customizzati e catenozze ironiche esagerate, e da qualche tempo riscuote parecchi clic con la sua serie di video intitolata Art Thoughtz. Di volta in volta, l’improbabile critico affronta (ovviamente in slang ebonics) un tema inerente all’universo dell’arte contemporanea e teorie relative, tra una citazione di Tupac e un riferimento pop. Sul suo canale YouTube si parla di concetti che vanno dal sublime all’estetica relazionale, passando per ready made, post-strutturalismo, e commenti su personaggi come, appunto, Damien Hirst. Il concetto è semplice: da una parte si deride la pomposità e l’autoreferenzialità della comunità artistica, contrapponendola al linguaggio più terra terra possibile (che evidentemente è quello dell’hip-hop), ma dall’altra si fornisce anche una guida “for dummies” a chi davanti alla fontana di Duchamp non vede che un pisciatoio.

Il formato dei video di Youngman è molto spesso quello dell’how-to, così comune su YouTube, con titoli che vanno dal finto ignorante “How to make an art” (un classico) al socialmente satirico “How to be a successful black artist”. I contenuti hanno un coefficiente di umorismo variabile, nel senso che a parte momenti di delirio passeggero il nostro ghettuso professore segue quasi sempre un filo logico sistematico e lucido. Se possiamo ridere del capitolo sulle curatrici (secondo Hennessy il modo più efficace per ottenere una mostra è fare loro dei complimenti sui capelli e farle ubriacare), l’ancora più divertente discussione del post-strutturalismo è abbastanza accurata (“you be like: ‘the sky is a beautiful blue’ and post-structuralism is like: ‘nigga that’s a deep cerulean, nigga… get your shit right’”). Pur nel suo approccio forzatamente “de panza” al linguaggio artistico, però, Youngman fa trasparire una certa coerenza e delle verità neanche troppo sotterranee, come ad esempio il fatto che molta arte politica si scordi del fatto che un’opera, per comunicare, deve comunque essere bella, a suo modo. E poi ci sono i riferimenti razziali, come per esempio la già citata guida per essere artista nero di successo, nella quale Hennessy invita a confermare gli stereotipi, ma ad usare anche parole difficili come “post-black”, o ancora a mostrare neri che fanno “cose da bianchi” (insomma, quello che fa lui).

Comunque, per godersi appieno i video, qualcosa di arte bisogna già saperla. Chi conosce le derivazioni dell’estetica relazionale (quella di artisti come Rirkrit Tiravanija, che come opera cucinava per i visitatori della galleria nei primi anni ’90) non può che trovare divertente la spiegazione di Youngman, secondo il quale questa è “quando qualcuno con un MFA vuole incontrare nuova gente, ma siccome non sanno come parlarci in modo normale li costringono a venire ai loro vernissage semivuoti”. Insomma, a parte i pochi che hanno preso un po’ troppo sul serio il suo personaggio reppuso (leggetevi questo commento qui) si capisce subito che il catenato luminare viene da una scuola d’arte e si rivolge, principalmente, a chi l’ambiente quantomeno lo frequenta. E infatti Hennessy Youngman (aka the Pharaoh Hennessy aka the Row House Racconteur aka Mr Museums aka Henrok Obama) è anche conosciuto come Jayson Musson, artista di Philadelphia attivo almeno da una decina d’anni. Oltre ai dipinti e al resto che potete trovare sul sito, Musson ha avuto una rubrica sul Philadelphia Weekly, una mostra in cui Hennessy e un altro personaggio inventato per l’occasione fanno da audioguida alle opere esposte alla PAFA, ed è stato pure invitato a dare una presentazione sulla generazione dei “millennial” (quelli nati tra ’80 e ’90) e il loro rapporto con la tecnologia al Museum of Contemporary Art di Chicago.

È quasi deludente vedere come, parlando per la prima volta in pubblico, Hennessy/Jayson alla fine suoni abbastanza normale, quasi a disagio. Senza catenozze e pistola finta è un artista come tanti, che insiste (sembra pure abbastanza di malavoglia) nel ricalcare uno stereotipo iniziato ironicamente e portato con successo in contesti ufficiali, dove ormai non si diverte più. Finché te li guardavi su YouTube e pensavi fosse cultura “bassa” che scimmiottava quella “alta” i suoi sketch facevano ridere, ma scoprire che (seppur involontariamente) si tratta del contrario mette un po’ di tristezza. Musson è brillante e intelligente, anche nel suo fare lo zarro, ma certi racconti della sua performance ad Art Basel Miami Beach confermano quanto criticare il sistema dell’arte dall’interno spesso impressiona solo chi ne sta fuori (e, del resto, è ben noto come il dissenso intestino venga sistematicamente assorbito e storicizzato all’interno delle istituzioni dell’arte).

Sarebbe stato bello se Hennessy fosse stato davvero un grezzone che contemporaneamente ne sa di arte contemporanea, invece si tratta di un giovane artista che, come qualsiasi hipster albino, ha ascoltato la sua dose di rap e si è creato questo gimmick per giocare sull’idea diffusa ma taciuta che se sei nero devi essere ghetto e non andare ai vernissage. E il suo discreto assorbimento nel mondo dell’arte ufficiale rischia di renderlo l’ennesimo esempio ambiguo stile Dave Chappelle o Bamboozled, vale a dire un nero che ironicamente e con le migliori intenzioni perpetua gli stereotipi sui neri, facendo il gioco che vorrebbe smantellare.