Attualità

Arrivederci Libia

Gli immigrati che avevano trovato l'America in Libia hanno perso tutto. Ora sognano l'Europa

di Mauro Mondello

E’ di oggi la notizia di nuova strage in mare dalla Libia: sono morte 54 persone, molte delle quali provenienti dall’Africa sub-Sahariana, mentre tentavano di raggiungere le coste Italiane.

Com’è cambiata l’immigrazione dalla Libia, nell’era del dopo Gheddafi? Vi proponiamo questo reportage dal campo profughi di Shousha di Mauro Mondello (che sull’argomento ha anche realizzato un documentario), che offre una finestra su una realtà poco conosciuta: la galassia di immigrati provenienti dall’Africa sub-Sahariana che avevano scelto la Libia, non l’Europa, come terra dove tentare fortuna. Ma che con la guerra hanno cambiato idea.

Shousha (Tunisia, al confine con la Libia) –

Gli ultimi fra gli ultimi sono rimasti qui, in un luogo sconosciuto della terra dove ogni cosa è polvere e sabbia. “Shousha non esiste”, continuano a ripetere i ragazzi tunisini, “Shousha è soltanto un punto a caso nel deserto”. Eppure in tanti hanno trovato rifugio fra queste tende logore, piantate a qualche passo dal confine che divide Tunisia e Libia. Alcuni hanno percorso a piedi, per giorni, i centotrenta chilometri che separano Tripoli dal posto di frontiera, terrorizzati dagli eserciti in guerriglia, consapevoli di dover ricominciare tutto da capo, un’altra volta.

“Ci hanno fatto scendere dalla macchina e ci hanno preso tutto: soldi, telefoni, persino le scarpe. Hanno costretto mio marito ad andare con loro per combattere, minacciando di ucciderci tutti se avesse rifiutato. Adesso siamo qui, ma a cosa serve rimanere in queste tende? Vivevamo a Tripoli da sette anni, io lavoravo in un grande albergo, mio marito era elettricista. Cosa mi resta adesso?” Aisha è etiope, ha gli occhi grandi ed il sorriso stanco di chi ha esaurito tutta la speranza. Come lei sono rimasti in quattromila, bloccati nel campo profughi di Shousha, uomini e donne provenienti da paesi in cui non è possibile tornare, profughi due volte, in attesa che l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite riesca a trovare una nazione disposta ad accogliere la loro richiesta di asilo politico.

Sono gli effetti collaterali della rivoluzione in Libia, un paese che ospitava quasi tre milioni di lavoratori stranieri prima che iniziasse il conflitto, un numero enorme, capace nel 2009 di produrre rimesse economiche annuali pari al 2% del Pil nazionale.

E’ una storia che conoscono in pochi quella degli stranieri in Libia, una nazione considerata una terra promessa da migliaia di africani. Le risorse di petrolio e gas naturale scoperte nel 1959 hanno reso l’antica colonia italiana il paese più ricco d’Africa, con un reddito pro capite che sino alla fine degli anni’80 era addirittura più alto, secondo le stime della Banca Mondiale, di quello di paesi come Corea del Sud e Spagna. Un’economia florida insomma, soprattutto un mercato del lavoro ed un sistema sociale complessivo nettamente superiori a quelli di qualsiasi altro paese dell’area, con un bassissimo livello di analfabetismo e la più bassa percentuale di famiglie sotto la soglia di povertà di tutto il continente.

Ibrahim è un uomo distinto, sulla settantina, e parla un ottimo italiano. Racconta di essere arrivato a Tripoli nel 1980: “Ho lavorato sempre con aziende italiane, il mio compito era tradurre tutti i documenti e tenere la contabilità. Stavo bene in Libia, guadagnavo molti soldi, mantenevo la mia famiglia, era tutto perfetto per me. Nessuno di noi ha mai pensato di raggiungere l’Europa, perché mai? Non ci mancava niente.” La sua storia è uguale a quella di migliaia di persone provenienti da Bangladesh, Chad, Palestina, Somalia, Sudan, uomini e donne in fuga dalla povertà e dalla guerra dei loro paesi d’origine. In tanti, dall’inizio degli anni’90, hanno raggiunto la Libia, spesso illegalmente, sulla strada del miraggio europeo. Hanno trovato impiego negli hotel, nei ristoranti, in uno dei tanti cantieri stradali che dal 2000 in avanti hanno invaso il paese, soprattutto nei giacimenti e nelle raffinerie di petrolio e gas naturale.

Molti di loro oggi sono bloccati nel campo profughi, qui a Shousha. Come Idriss, diciannove anni (anche se ne dimostra molti di più), originario del Ciad e arrivato in Libia nel 2007. Insieme a molti altri stranieri, lavorava in un’azienda edile: “La paga era buona e riuscivo anche a mandare qualcosa a mia madre.” Poi la guerra l’ha costretto a fuggire: “Una notte abbiamo cominciato a sentire dei rumori che si avvicinavano sempre di più e senza che avessimo il tempo di capire che cosa stesse succedendo c’erano decine di uomini, vestiti civili, che stavano distruggendo tutto. Avevano pistole, mazze, coltelli, qualsiasi cosa, rubavano quello che gli pareva, sfasciavano quanto c’era in giro, ci picchiavano.” Idriss è scappato via in pigiama, senza prendere niente: “Ho cominciato a correre, non m’interessava nient’altro che salvare la mia vita, l’unica cosa a cui pensavo era se ce l’avrei fatta ad uscirne vivo.”

Shousha è un crocevia di storie infinito, un posto sperduto ormai diventato una piccola città. Gli spazi intorno alle tende diventano piccoli giardini, la mattina i bambini escono di corsa verso le scuole allestite da Unicef ed Amnesty International, si può fumare una shisha nella zona sudanese, tagliarsi barba e capelli dietro al campo da calcio improvvisato, commissionare un vestito realizzato a mano da un sarto eritreo.

La notte il campo si trasforma: il suono delle televisioni accese invade il silenzio del deserto, aprono i battenti ristoranti improvvisati dove si guarda la Champions League, le tende si trasformano in commerci sotterranei di merce in arrivo dal contrabbando fra Tunisia e Libia.

C’è chi a Tripoli aveva trovato l’America, ma adesso sogna di andare in Europa: “Avevo fatti i soldi in Libia, tanti soldi. Me n’ero andato dal Bangladesh quattro anni fa, contro il volere di tutta la mia famiglia. A Tripoli gestivo un call center, la sera c’era sempre il pienone e gli affari andavano a gonfie vele,” racconta Jamal. “Poi è cominciata la guerra. Mi hanno rubato tutto mentre cercavo di raggiungere il confine col mio motorino. Adesso non ho più niente, ma in Bangladesh non ci torno. Il governo mi ha offerto un biglietto per rientrare a Dacca, ma non ci penso nemmeno, non voglio ricominciare a scaricare pacchi con mio padre, io voglio andare in Europa!”

E’ il sogno di molti rifugiati a Shousha, pronti a tornare in Libia e ad imbarcarsi dalla città di Zuwarah verso Lampedusa. Si parte di notte. Una vecchia Peugeot scura arriva direttamente nel piazzale fuori dal campo. Dentro si ammassano in otto, fra loro anche donne con i loro bambini. La strada verso Zuwarah non è lunghissima, ma per avanzare lungo il percorso bisogna superare i numerosi posti di blocco dei ribelli: nella tariffa di 1.200 dollari è incluso anche il loro compenso. Appena a destinazione si rimane chiusi in macchina.

Possono passare poche ore oppure giorni, poi finalmente arriva la barca, un piccolo peschereccio se si è fortunati, molto più spesso una carretta con la quale non sarebbe il caso di allontanarsi per più di qualche miglio. E’ allora che i migranti possono scendere dalle auto e correre verso l’imbarcazione, sino a formare una macchia umana indistinguibile nell’oscurità della notte.