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Chi è Andrew Wylie?

Intervista all'agente letterario (Roth, Bellow, Bolaño, Calvino, Saviano) più potente, odiato e incompreso del mondo (e soprannominato "lo sciacallo").

di Timothy Small

Andrew Wylie, fondatore e presidente della Wylie Agency, è forse l’agente letterario più famoso, controverso e, nella mia opinione, incompreso al mondo. Anzi, è forse l’unico agente letterario che si possa, obiettivamente, definire famoso—persino più famoso di molti degli scrittori che rappresenta, cosa non da poco, quando si considera che Wylie lavora per Philip Roth, Saul Bellow, Salman Rushdie, Italo Calvino, Donald Barthelme, Martin Amis, Norman Mailer, Jorge Luis Borges, Roberto Bolaño, Giorgio Bassani, Elmore Leonard, e altri ottocento scrittori. Ognuno dei quali, ci tengo a specificare, si merita quanto meno una lettura superficiale. Lorin Stein, direttore della Paris Review—rappresentata da Wylie—me l’ha recentemente definito come «una persona fantastica—allarmante, ma fantastica».

Wylie è anche noto come “lo sciacallo”—soprannome che lui stesso non disdegna—o, alternativamente, “la lucertola”, “il mostro”, “il predatore”, soprannomi che gli sono sempre stati affibbiati da agenti rivali cui ha “rubato” clienti (sempre che si possa “rubare” un cliente) o da editori cui ha scucito cifre mostruose per anticipi. I famosi $750,000 dollari che ha ottenuto per Martin Amis, il quale ha quindi immediatamente mollato il suo agente di vent’anni—la moglie di Julian Barnes, suo carissimo amico—sono testimoni del fatto che, per quanto le pratiche di Wylie possano essere aggressive, sono completamente incentrate sul riuscire ad ottenere le giuste ricompense per gli scrittori di qualità. Nel mio dizionario, questa è la definizione di “essere un buon agente”. Tutto il lavoro della Wylie Agency si basa sul semplice concetto che i grandi scrittori, quelli che verranno letti anche tra cinquant’anni, si meritano quantomeno lo stesso rispetto—e quindi la stessa considerazione finanziaria—di un John Grisham, un Wilbur Smith, o un Roberto Saviano.

Ho chiamato Andrew da una connessione Skype abbastanza traballante, per parlare con lui di come sia possibile creare un’agenzia letteraria di successo e fama mondiale senza prestare attenzione al marketing, alla moda, e alla merda che spesso viene spacciata per letteratura.

 

Tim Small: Ciao Andrew. So che hai un rapporto speciale col nostro paese. Che ne pensi dello stato delle cose nell’editoria italiana?

Andrew Wylie: Sì. Ho sempre amato l’Italia e tutte le cose italiane, da Dante a mia moglie. Parlo un po’ d’italiano, maluccio, ma lo parlo, e lo leggo, e qui all’agenzia siamo molto interessati all’Italia e alle cose italiane. Penso che, tutto sommato, alla faccia di difficoltà economiche importanti che hanno danneggiato quasi tutte le industrie del vostro paese, la vostra editoria sia in una posizione relativamente buona. Carlo Feltrinelli sta facendo cose eccitanti e si sta espandendo in maniera interessante. E compagnie minori, come ad esempio la Sellerio, stanno facendo un ottimo lavoro. Penso che la posizione assunta da Einaudi sotto Gianni  Ferrari—quella di comprare un numero di grandi autori internazionali, da Ian McEwan a Philip Roth, e di riposizionarsi come l’editore letterario d’elite del gruppo Mondadori—sia stata vincente. Un ritorno, se vuoi, a quello che faceva l’Einaudi con Italo Calvino. Penso che quella posizione sia tenuta d’occhio, con molto interesse, da un buon numero di case editrici anche internazionali. E penso che, alla fine, sia una rivendicazione della cultura “alta” in Italia, una cultura estremamente energetica, per quanto gli italiani amino lamentarsene. E questo alla faccia di una cultura popolare—specialmente televisiva—di un livello infimo.

 

Beh, tu sei riuscito a creare una società di enorme successo puntando completamente sulla cultura d’elite, che in un paese come l’America e in un mondo come quello dell’editoria di oggi—sempre più dominato dal marketing—non è cosa da poco.

Be’, sono estremamente soddisfatto di questo nostro esperimento: quello di cercare di tenere in piedi un’agenzia focalizzandoci sulla qualità di quello che rappresentiamo, sulle idee, sulla buona prosa, e non sulla ricerca del bestseller.

 

Perché dici no ai bestseller?

Semplicemente perché non mi interessano i bestseller. E non parlo solo del modello commerciale dell’agenzia che rappresenta i best-seller, ma anche, e forse principalmente, perché non mi interessano proprio come libri. Non voglio doverli leggere tutto l’anno. Anzi: dover leggere best-seller tutto l’anno è praticamente la mia definizione d’inferno.

 

La tua agenzia è nota per combattere a spada tratta per gli autori, anche se questo vi è valso l’odio di parecchi editori…

Be’, una delle prime cose di cui mi sono accorto quando iniziai a studiare questo mestiere è che, almeno negli anni ’80, dato che i pagamenti andavano dall’editore all’agente all’autore, le più grandi agenzie di quel periodo avevano iniziato a pensare che il loro rapporto lavorativo principale fosse con le case editrici, e di conseguenza trattavano i loro autori come dei bambini. E pensai: “Perché trattare gli autori come se non sapessero cos’è meglio per loro?” E conclusi che era collegato al flusso di denaro: dall’editore all’agente all’autore, e questo aveva dato loro l’impressione di essere alle dipendenze degli editori. Ma quando osservammo bene quel rapporto e ci rendemmo conto che in realtà gli agenti lavorano per gli autori e che l’agente ha un dovere etico assoluto nel rappresentare esclusivamente gli interessi dell’autore, beh, fu in quel momento che si formò la base della cultura di quest’agenzia. L’idea è che sì, magari conosciamo gli editori, e siamo anche loro amici, e alcuni li ammiriamo, ma non lavoriamo per loro, lavoriamo per gli autori, e abbiamo il dovere di curare i loro interessi.

 

Quali sono le altri basi della tua agenzia?

Devi essere internazionale. Devi prestare attenzione a tutto il catalogo di un autore. Devi vedere il valore sulla lunga durata. E, se guardi la storia dell’editoria e della letteratura, devi capire che, fondamentalmente, il valore di Shakespeare è maggiore del valore di Danielle Steel. E quindi da lì cerchiamo di catturare il valore della lunga durata e della qualità e diminuire il valore della corta durata e della moda del momento dal centro del nostro business model. Quando iniziai, avevo un’idea precisa di cosa volevo e, per ottenerlo, mi sono dovuto comportare in modo aggressivo. L’idea di prendere il segmento della comunità letteraria con più talento e arte e trasformarlo in un buon business era un’idea inusuale, e molte persone non erano d’accordo con me. Ma per raggiungere un obbiettivo devi essere forte e devi essere competitivo. Quando iniziai, tutti gli autori peggiori avevano gli agenti migliori, e tutti gli autori migliori avevano gli agenti peggiori. E l’idea che uno potesse prendere Saul Bellow e dire, “Quest’uomo ha un valore incredibile, incalcolabile, e va preso sul serio” era una cosa da pazzi, una cosa aggressiva, folle. E creai tante controversie in questo senso. E non rispettai, certamente, le regole dei collettivi di agenzie. Non penso che meritassero di essere rispettate.

 

Penso che sia fantastico mettere la qualità sopra la quantità, mettere la lunga durata sopra il guadagno facile, mettere l’eccellenza letteraria al centro dell’equazione. Ovviamente. Detto, questo, però mi sorge un dubbio. Non è che questo modello funziona—e ha funzionato—proprio in virtù del fatto che era l’eccezione e non la regola?

Non saprei. So che il modello che abbiamo sposato funziona benissimo per noi. Abbiamo liquidità, il nostro business è solido, e penso che potrebbe anche essere un esempio di come potrebbero essere le cose se solo correggessimo le priorità del mercato editoriale. L’aspetto fondamentale del mercato editoriale negli ultimi trent’anni, dal mio punto di vista, è il dominio del commercio al dettaglio e delle catene di librerie sul mercato e sulle case editrici, e quindi anche sugli agenti e sugli autori. Penso che nei prossimi anni dovremo cercare di resistere alle richieste delle catene e dei commercianti quando spingono per la quantità piuttosto che la qualità e soprattutto quando queste richieste sono in diretta opposizione ai bisogni degli autori e delle case editrici. L’arrivo di Amazon fu fondamentale in questo senso, perché Amazon nacque con un modello Borgesiano di libreria, in cui ogni singolo libro dell’autore, inclusi i suoi primi lavori, le opere minori o “dimenticate”, avevano la stessa importanza. Ogni libro aveva la sua pagina. Ma ho paura che Amazon stia lentamente cambiando questo modello.

 

 

Pensi che cose tipo internet e gli e-book potrebbero in qualche modo risolvere alcuni di questi problemi? Mi sembra che questa sia la direzione in cui si sta andando più o meno inevitabilmente.

Sì, potrebbero, perché uno degli elementi centrali nell’editoria è sempre stato il costo di produzione dei libri. E se il costo di produzione dei libri si abbassa senza che cali proporzionalmente anche il valore di vendita, ci saranno più soldi da dividere tra l’editore e l’autore e gli affari saranno più prosperi. Insomma il potenziale per rinvigorire il mercato c’è. La domanda è: quale sarà la risposta degli editori a tutto questo, e, offriranno una retribuzione adeguata agli autori, con l’incremento delle edizioni digitali? Non credo che siano ancora abbastanza lungimiranti per assicurarsi la continuità del proprio ruolo di editori sia cartacei che digitali, ma credo che ci arriveranno. È stato interessante per me vedere cosa ha fatto J.K. Rowling: ha evitato la presentazione digitale che le era stata suggerita dal mercato e l’ha aggirata rendendo disponibili i suoi libri su Google, che presumibilmente non ha nemmeno ricavato percentuali sui guadagni. Ecco, questo è un modello estremo che funziona per J.K. Rowling grazie all’immenso successo dei suoi libri e al culto che vi si è creato attorno, cosa di cui altri autori, magari anche più interessanti, non godono. In ogni caso questa è una strada che l’industria dovrebbe tener d’occhio e per cui dovrebbe propendere.

 

Quindi quest’atteggiamento del “vediamo cosa succederà”— che nella mia opinione è quello che ha rovinato l’industria discografica—pensi che proseguirà anche nell’editoria, fino ad essere alterato drammaticamente dal successo di una “killer app”, tipo il Kindle, magari, proprio come è successo con la musica e l’iPod?

Penso che l’industria editoriale sia rimasta immobile a fissare il futuro per circa 18 mesi, due anni fa, e nel frattempo le case editrici hanno provveduto ad evolversi e ritengo plausibile che queste continue ristrutturazioni interesseranno il mondo per i prossimi due o tre anni. Credo anche che oggi la gente abbia più o meno deciso che la sopravvivenza dipende da fattori come produttività ed ottimismo e che se tu stai fermo un anno, non pensando a nulla tranne che al futuro, è probabile che alla fine di quell’anno il tuo business sarà peggiorato notevolmente. E sai, le domande rispetto a cosa abbia valore all’interno di una casa editrice, restano le domande di sempre, le stesse domande a cui penso da 35 anni. Dovresti saperlo, sull’argomento la mia opinione si distingue da quella di molta gente del settore, ma d’altra parte molti di loro lavorano per società quotate in borsa o per grandi gruppi i cui obiettivi hanno poco a che fare con quelli che ritengo giusti per l’industria editoriale. Quindi sai, è difficile dire se gli obiettivi di una società quotata in borsa possano avere un senso nel mercato editoriale. Forse marginalmente.

 

C’è una differenza fondamentale tra il modo in cui un consumatore di musica medio approccia il prodotto-musica rispetto a quello che fa un lettore col libro: se stai ascoltando un disco di Tom Petty da un paio di cuffie, il supporto al quale sono connesse le cuffie è irrilevante. Mentre leggere un racconto di Barthelme da un libro fatto di carta pieghevole che costa 10 euro e che ti puoi mettere in borsa o in tasca è drammaticamente diverso dal leggerlo da un supporto tecnologico fatto di schermo e batterie, che non è pieghevole, che non ti sta in tasca, e che magari costa 300 euro. Richiede un cambiamento molto più drammatico nella abitudini base del consumatore.

Assolutamente, ma sai, col tempo, le abitudini cambiano. L’esperienza della lettura cambierà. Ma il fatto principale non cambierà mai: le qualità fondamentali che distinguono gli autori bravi da quelli cani, la differenza tra quelli che pensano bene e quelli che pensano male, le idee potenti e le idee deboli… questo non cambierà mai. È meglio leggere Shakespeare su carta o su schermo o interpretato da un attore davanti a 10 spettatori o trasmesso in tv davanti a un milione di persone? Ok, parliamone, ma alla fine niente di tutto questo sarebbe possibile se Shakespeare non avesse scritto quelle parole. Io penso che la questione base, quella d’importanza centrale, sia quella. Cioè che alcuni di noi hanno un dono, un’intelligenza, una capacità analitica e una maniera d’espressione che sono speciali, e che meritano di essere protette. E, indipendentemente dal metodo di distribuzione di quell’espressione, la fonte di quell’arte va protetta. Quello è un diritto dell’artista, e noi siamo alle loro dipendenze proprio per curare i loro diritti e i loro interessi. Tutto il resto, francamente, per quanto ci paghino per venirne a capo, è secondario.

 

Anche se l’industria musicale è cambiata, c’è buona musica e pessima musica.

Esattamente.

 

C’è stato un momento nella tua carriera particolarmente significativo per la costituzione della tua agenzia per come è oggi?

Ce ne sono diversi. Ovviamente la pubblicazione e i problemi derivati dall’uscita de I Versetti Satanici sono stati importanti… particolarmente importanti. Ma ci sono stati così tanti momenti, così tante lezioni, così tante cose viste. Ad esempio, la grande ripresa di Philip Roth quando ha scritto quell’incredibile serie di romanzi che tutti credevano fossero diventati popolari e stimati negli Stati Uniti, mentre in realtà hanno avuto successo prima in Francia, poi in Germania, in seguito in Italia e in Inghilterra—gli Stati Uniti arrivarono solo quinti. Vedere queste situazioni spiegarsi, studiare come si svolgono, seguirne gli schemi—è tutto molto interessante. Seguire il lavoro di Borges nel mondo, avere un piano in mente per lui, vederlo dispiegarsi davanti ai tuoi occhi… piani che posso metterci anni prima di essere eseguiti.  Lo stesso con Elmore Leonard: vedere il lavoro di Leonard diviso tra tre editori e pensare, “Leonard deve avere un’editore solo”. Ci sono voluti anni per realizzarla, ma è stata una strategia che ho spiegato in una lettera a Leonard dicendo, sai, questo è quello che devi fare, devi fare a, b, c e poi x, y, z e a quel punto succederanno queste cose e alla fine di questo processo otterrai quello che vuoi. Ed è andato esattamente tutto come previsto. Abbiamo avuto una bellissima chiacchierata. Ho chiamato Elmore Leonard per dirgli che ce l’avevamo fatta, aquando gliel’ho comunicato subito dopo c’è stata una pausa, ho pensato che fosse morto per la felicità — o per l’età. Ho detto, “Elmore? Elmore?” E lui ha risposto, “Una vita onesta ripaga sempre.” Una cosa meravigliosa.

 

Non è che, alla fine del discorso, il successo della tua agenzia sta semplicemente nel tuo ottimo gusto?

Be’, non è il mio o di qualcun altro, è là fuori. Sai, se riesci a trarre grande piacere da quello che fai per vivere, sei molto fortunato. Non potrei sperare in meglio. Quando ho iniziato, mi sono chiesto: bene, che cosa vuoi fare per vivere? Voglio vivere leggendo bei libri. Non voglio passare la vita a leggere brutti libri. Voglio vivere leggendo bei libri e, fortunatamente, sono riuscito a trovare il modo di farlo.

 

Fotografie di Lele Saveri

Dal numero 4 di Studio