Attualità

Allenare senza confini

Stefano Cusin è il nuovo allenatore dell'Ahli Al Khalil, squadra di calcio di Hebron, in Palestina. La storia peculiare di un emigrante del pallone che dice: «Andrò sempre dove potrò aprire la finestra al mattino e sentirmi felice»

di Fulvio Paglialunga

Stefano non sa cosa sia un confine: è italiano, nato in Canada, cresciuto in Francia, ha giocato anche in Svizzera e ai Caraibi, ha allenato pure in Bulgaria, Camerun, Congo, Libia, Arabia Saudita, Emirati Arabi. Sempre un po’ più in là, sempre alzando l’asticella. Per insegnare calcio, che è il suo mestiere, per vivere senza tener conto della geografia, che è la sua passione. Andando sempre oltre, ora è arrivato in Palestina, come nessun italiano prima. Dove il pallone è in via di sviluppo e la pace lontana. Stefano Cusin, dal 15 gennaio, è l’allenatore dell’Ahli Al Khalil, squadra di Hebron, dove è forte la presenza di Hamas, dove secondo la Bibbia ci sono le tombe di Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e Lia. Qui, spesso con gli occhi del mondo addosso e a volte senza che nessuno si interessi di quel che accade, c’è anche voglia di calcio e c’è bisogno di qualcuno che porti novità, esperienza, che senta la sfida e sia dentro il gioco. Stefano, appunto: «Negli ultimi anni sono stato nello staff di Zenga e anche quest’anno pensavo di muovermi con lui. C’erano alcuni contatti e aspettavamo. Poi mi è arrivata questa proposta, ho chiesto a Walter e lui mi ha detto di andare. Eccomi, infatti».

Palestina, terra in eterno conflitto con Israele e novizia del pallone: la Nazionale ha giocato in questi giorni la sua prima Coppa d’Asia, il campionato è diviso in due: c’è quello della striscia di Gaza e c’è quello della Cisgiordania, dove gioca la squadra di Cusin.

Palestina, terra in eterno conflitto con Israele e novizia del pallone: la Nazionale ha giocato in questi giorni la sua prima Coppa d’Asia (tre partite, tre sconfitte, undici gol subiti e uno storico gol segnato, contro la Giordania), il campionato è diviso in due: c’è quello della striscia di Gaza e c’è quello della Cisgiordania, dove gioca la squadra di Cusin, pronto a cominciare la seconda fase (undici partite, nella prima fase l’Ahli Al Khalil ha chiuso al quinto posto, a sei punti dal vertice): «L’allenatore che c’era prima è andato in Nazionale, ha finito la prima fase un assistente e ora ci sono io. E sapete come ci sono arrivato, in Palestina? Grazie a un israeliano, di Tel Aviv: è lui ad aver fatto il mio nome al presidente, dopo aver sentito un procuratore egiziano che mi aveva già proposto una squadra in Egitto. Ma all’Egitto avevo detto no perché non mi convinceva il progetto». Quindi, Hebron: dove chi non è stato si chiede come si viva, se i rumori del conflitto sono vicini: «Sono arrivato da poco, ma mi sono fatto un’idea: questa non è una città che offre molti comfort, a differenza di quelle più grandi. È piena di piccoli negozi e di artigiani. Tutto sta nel sapersi adattare: io vivo in un residence di proprietà del presidente, dove spesso fanno attività di ogni tipo per studenti. Hebron ha il suo charme, i Khalili sono straordinariamente ospitali. Dal punto di vista umano è già una delle esperienze più intense che abbia vissuto».

Quando parla di esperienze l’occhio cade sul curriculum variopinto, in cui Arezzo e Montevarchi sono come il Congo, dove per esempio è stato direttore tecnico delle nazionale dall’Under 17 all’Under 23. Stefano ha una spiegazione: «Sono cresciuto nella Francia multirazziale, nella quale impari a vedere tutti uguali, tutti come te, ed è giusto, vero. Per me girare il mondo per allenare non è stata nemmeno una scelta, semplicemente sono abituato a vedere il mondo così grande, senza confini. Questo mi ha sempre affascinato: sono nipote di emigrati in Francia, mio padre era a sua volta figlio di emigranti, trovò lavoro in Canada, dopo aver vissuto anche a Londra. Sarà per questo, anche, che a scuola ero bravissimo in geografia».

Ogni tappa, un mondo da vivere. Seguendo il rimbalzo del pallone e non quello che gli dicono, spesso ignari: «Mi dicevano che a Hebron avrei vissuto sotto le bombe, ma la zona calda è Gaza. Non molto lontana da qui, forse una cinquantina di chilometri, ma Hebron è molto sicura. Ovviamente la speranza è sempre che le tensioni finiscano, qui si convive: tre quarti della città è palestinese, poi ci sono i coloni israeliani. Io e il mio assistente giriamo giorno e notte senza alcun problema: il rischio è quando non hai i documenti e vieni fermato a un posto di blocco israeliano».

«Io e il mio assistente giriamo giorno e notte senza alcun problema: il rischio è quando non hai i documenti e vieni fermato a un posto di blocco israeliano».

Il calcio è una lingua. Stefano Cusin la parla bene e così si fa conoscere. Ha girato prima da solo, poi negli ultimi anni con Zenga, altro nomade della panchina: ci siamo conosciuti nel 2008, io allenavo in Bulgaria ed eravamo in ritiro in Italia, Zenga il Catania. Un’amichevole, poi uno scambio di idee: ci siamo piaciuti e dopo un po’ mi ha chiamato per lavorare con lui. Altra bella esperienza. La parte finale (per ora) di questa convivenza è stata a Dubai, entrambi alla guida dell’Al-Jazira. Pallone e lusso: «Sono dell’idea che tutto vada vissuto: vivevo nei sei stelle e ora in un residence, avevo quattro valigie di materiale tecnico e adesso una tuta sola che devo lavare la sera per la mattina dopo. Sono le motivazioni la vera leva di ogni scelta, non i soldi». Perché certo non si può dire che andare ad allenare in Palestina sia una scelta dettata dal denaro: «Qui un giocatore guadagna dai mille ai cinquemila dollari, un allenatore più o meno la stessa cifra. È un ottimo stipendio, considerato che un insegnante guadagna mille dollari, ma certo non è il motivo della mia decisione. Forse in Italia avrei guadagnato di più, ma non vado a caccia di ingaggi: ho guadagnato bene, nella mia carriera, ho allenato diverso tempo negli Emirati Arabi, cosa volete che mi manchi? La mia soddisfazione. E quando sono arrivato a Hebron, il presidente mi ha detto: “Sei abituato agli sceicchi, ma qui lo sceicco sei tu”. A me interessa mettere la mia esperienza e le mie competenze a disposizione».

Arrivato da pochi giorni, ha già vinto la Coppa di Lega: una competizione lampo, cinque partite ravvicinatissime, una sconfitta, quattro vittorie, già sorrisi: «È il primo trofeo della storia del club». Oggi ricomincia il campionato, che è il suo obiettivo. Giocare bene, addestrare giovani, far crescere il pallone e l’interesse: «Non ho altre missioni oltre il calcio, anche se farlo in Palestina può far pensare a molto altro. Questa è una nazione in crescita, c’è tanta voglia e, quindi, ci sono io. Non vado dove c’è il direttore sportivo che ti fa la squadra, dove sei legato ai capricci tattici di un presidente, dove devi fare giocare i “figli di”. Ho sentito il progetto e mi è piaciuto: è bastata una telefonata di quaranta minuti per convincermi. Il mio compito è totale: spiego come da come vanno curate le trasferte a come va tenuto un sito Internet, do il mio punto di vista. Prima del mio arrivo i giocatori dovevano attraversare tutta la città per andare dal medico, ora è il medico che viene due ore al campo e segue i giocatori. Ecco, non sono stato io a scegliere la Palestina: è la Palestina che ha scelto me».

Il grosso del lavoro da fare sarà insegnare la tattica, portare una delle caratteristiche italiane in un calcio che ancora si sta formando: «Questo paese ha potenzialità enormi: gente che non molla, tanto desiderio di imparare, giocatori ben messi fisicamente. Ho visto un po’ di partite, giocano molto all’attacco, quasi sbilanciati. Sarà entusiasmante, nonostante i sacrifici: perché qui a Hebron c’è un campo solo e credo dodici squadre ad alternarsi. A volte ci alleniamo tardissimo, ma va tutto bene: poi il terreno è in erba sintetica, dunque non ne risente». Un italiano che va laddove il calcio italiano è considerato in ribasso: «Il nostro campionato è seguito dai cinquantenni, che lo seguivano negli anni d’oro. Per i giovani ci sono il Barcellona, il Real, le squadre inglesi. Noi non abbiamo più lo stesso appeal». Però gli italiani vanno a insegnare, almeno quella vocazione per spiegare il pallone ci è rimasta. E Stefano disfa una valigia, comincia dove nessuno avrebbe mai pensato e forse pensa anche a quale sarà la prossima destinazione. Anzi, no: «Non lo so, di certo non sono fermo, sicuramente non sarà mai un problema geografico. Andrò sempre dove potrò aprire la finestra al mattino e sentirmi felice».

 

Nell’immagine in evidenza: Un ragazzino vicino a una casa distrutta dall’esercito israeliano. 1 luglio 2014 (Ilia Yefimovich/Getty Images).