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Alla ricerca della verità con Tracey Emin

Ritratto di un'artista le cui mostre sembrano sempre il saggio di fine anno di una talentuosissima studentessa del liceo artistico.

di Clara Mazzoleni

My Dreams of you, 2015 Ricamo su cotone calicò, 176 x 273 cm. Courtesy Galleria Lorcan O’Neill

Il 3 luglio Tracey Emin ha compiuto cinquantadue anni. Ne sono passati quindici da quando l’opera My Bed, nominata per il Turner Prize, fece scandalo alla Tate Gallery. Venduta per £2.54m al collezionista tedesco Christian Duerckheim, ha da poco ricevuto la consacrazione definitiva: dal 31 marzo è esposta alla Tate Britain (che non si è potuta permettere di comprarla) e divide la stanza con Francis Bacon.

Sul Guardian, la curatrice Elena Crippa parla della decisione, sua e dell’artista, di collocare l’opera e i sei disegni che la accompagnano vicino a Study of a Dog (1951) e Reclining Woman (1961): «There is this sheer vitality of the body that moves in spaces combined with a sense of internal turmoil. I think the coupling really works very well». Quello dei cinquantadue sembrerebbe essere per Emin l’anno dei desideri realizzati: ha inaugurato il 24 aprile a Vienna una grande retrospettiva nella quale più di 80 opere tra neon, gouache, ricami, sculture, video e fotografie, dialogano con i disegni di un altro grande dell’arte, Egon Schiele. «It’s like a dream come true», dice Emin – fan di Schiele da quando aveva 15 anni – a proposito della mostra.

Mi piace provare a immaginare come si sentono gli artisti che hanno raggiunto una meta. Nel video sul sito della Tate, Emin sembra sì soddisfatta, ma anche un po’ malinconica. Probabilmente mi sbaglio: la mostra a Vienna si intitola Where I Want to Go, e poi c’è una piccola, tenera mostra a Roma, da Lorcan O’Neill (fino al 5 settembre), il cui titolo è Waiting to love. Il futuro appare ancora carico di possibilità. Ho conosciuto Emin a diciassette anni, al liceo artistico, quando il professore di Discipline pittoriche iniziò a dedicare qualche lezione all’arte contemporanea. A bocca aperta ascoltavo nuovi nomi, esotici e sorprendenti: Anselm Kiefer, Gerard Richter, Wolfgang Laib, Matthew Barney, Cindy Sherman, Louise Bourgeois, Sophie Call, Marlene Dumas, Tracey Emin.

Emin era la più odiata, soprattutto da me. A quei tempi andavo in giro con Il giovane Werther nella tasca della giacca di velluto e dividevo gli artisti in due gruppi: i “lirici onesti” e i “furbastri”. I lirici onesti erano i grandi classici (Francis Bacon e Egon Schiele tra i miei preferiti) e, tra i contemporanei, quelli come Wolfang Laib, che disponevano silenziosamente quadrati di polline sul pavimento o realizzavano un’opera versando del latte su una lastra di marmo leggermente concava. Oppure quelli come Louise Bourgeois, che indagavano l’inconscio con opere grandiose e pesanti, o come Kiefer, che elaboravano la Storia con opere ancora più grandiose e ancora più pesanti. Col senno di poi mi rendo conto che la pesantezza era il vero discriminante. La leggerezza destava in me il sospetto.

La leggerezza che credevo di percepire in quelli come Damien Hirst, Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Tracey Emin mi destabilizzava. Le loro opere mi sembravano troppo simili alla realtà, troppo facili (non richiedevano nessun tipo di abilità tecnica!) e troppo disinvolte perché io, diciassettenne che passava i pomeriggi a fissare la poesia A se stesso di Leopardi (Or poserai per sempre, stanco mio cor…), ricopiata e attaccata davanti alla scrivania, potessi trovarle pesanti e, quindi, profonde. In più Tracey Emin mi sembrava non solo leggera come artista… ma anche come donna. L’opera con cui fece scalpore, quella che presentò a Sensation (la mostra organizzata da Charles Saatchi nel 1997 alla Royal Academy di Londra che portò alla ribalta tutto il gruppo degli YBAs, Young British Artist, tra cui Damien Hirst), era Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995, una tenda all’interno della quale aveva ricamato tutti i nomi dei ragazzi/uomini con cui aveva fatto sesso.

L’idea che qualcuno utilizzasse il sesso in modo così aperto e scanzonato in un’opera d’arte mi turbava. Non capivo l’amarezza di un lavoro simile, che non solo risveglia il fantasma dello stupro che Emin ha subito a Margate (la città dove è cresciuta) quando aveva tredici anni, ma si colloca nel periodo della fine della sua relazione più importante, quella con il poeta Billy Childish. Inserire il nome del proprio grande amore in una lista di nomi, confonderlo con altri con cui si è passata soltanto una notte e sottoporre l’opera a occhi estranei è in realtà un gesto molto duro, per niente scanzonato e che riesce a parlare bene dell’amore (quando finisce male).

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I’ve got it all, 2000 Courtesy: Tracey Emin/White Cube

La lista comprende tutti i nomi delle persone con le quali l’artista ha dormito e quindi anche Paul, suo fratello gemello e i due bambini abortiti nel 1987 (poco dopo essersi trasferita a Londra per studiare al Royal College of Art, Emin scopre di essere incinta e decide di interrompere la gravidanza: soltanto in seguito all’aborto verrà a sapere che era incinta di due gemelli). La tenda contiene quindi i nomi delle persone con le quali l’artista ha avuto un rapporto intimo, un legame fisico, eccezionale. Come con il letto, Emin crea un contenitore che possa rispecchiare e, in uno strano modo dolce e crudele, proteggere il corpo ferito. Il sesso è uno strumento potente, anche per l’arte: raramente serve per parlare davvero dell’amore, spesso funziona come dispositivo in grado di attivare riflessioni più complesse. Un esempio: intorno al 1989 Jeff Koons posa insieme alla moglie Ilona Staller per una serie di fotografie e sculture porno-artistiche volutamente kitsch, nelle quali farfalle e fiori accompagnano l’amplesso dei coniugi. La serie si chiama Made in Heaven. Altro esempio: Nan Goldin fotografa i suoi amici mentre svolgono le loro attività quotidiane, quindi anche mentre fanno sesso. Queste immagini sono il contrario di quelle di Koons: catturano un momento reale, sono spontanee. Eppure, mentre le guardo, non posso dimenticarmi di Nan che si muove intorno al letto, avvicinandosi e allontanandosi, del rumore della macchina fotografica e della luce del flash: i due amanti non sono soli e sanno di essere guardati.

Il professore ci aveva parlato anche di My Bed. Ci era sembrato disgustoso, ma soprattutto, e di nuovo, troppo facile. Ci credevamo! Credevamo che Emin avesse vissuto quattro giorni in quel letto, bevendo vodka, fumando e facendo sesso, usando i fazzoletti per soffiarsi il naso, asciugarsi le lacrime e pulirsi, avendo le mestruazioni e tutto il resto. Nel letto. E poi l’avesse fatto prendere così com’era – studiando prima come le cose erano disposte, facendo fotografie e schemi così da poterle rimettere proprio dov’erano – e avesse ricomposto tutto alla Tate Gallery. In effetti, in apparenza, il letto è sfatto, sporco e pieno di cose (pillole, posacenere traboccanti, bottiglie di vodka, rasoi usa e getta, fazzoletti di carta appallottolati, preservativi usati, calze, una cintura, mutande macchiate di sangue). Tante cose sporche che però non emanano nessun cattivo odore, dettaglio che conferisce un’aria artificiale a un’opera che, nell’immaginario comune, dovrebbe essere il vero letto dove Tracey Emin ha passato quattro giorni ubriaca e senza mangiare, mentre è più probabilmente una reinterpretazione, un racconto, un tentativo di rievocare nel modo più crudo possibile delle giornate/nottate di dolore.

Ma ciò che al liceo aveva portato il mio odio all’apice non era il letto e nemmeno la tenda, era una fotografia che avevo visto in un catalogo: Tracey distesa sul pavimento, che con le mani afferrava banconote e monetine e se le ammucchiava in mezzo alle gambe nude. Per me, diciassettenne con in tasca Il giovane Werther e i soldi della mamma, l’arte era qualcosa che aveva a che fare con la vita, la bellezza e la morte, qualcosa, insomma, che non aveva proprio niente a che fare con il denaro. Il professore ci aveva anche parlato di una delle prime “azioni” di Emin. Quando lavorava a The Shop (negozio fondato con l’amica Sarah Lucas), Emin aveva cercato di incrementare le sue entrate scrivendo lettere nelle quali proponeva alle persone di investire in lei come artista. La cifra suggerita era 20 sterline. Quella che a 17 anni mi era sembrata un’azione presuntuosa e ridicola oggi mi commuove. Oggi capisco il valore di quei 20 pounds.

Incontrai di nuovo Emin alla Biennale di Venezia del 2007, il padiglione UK era dedicato a lei. Niente di sorprendente: a parte le prime opere-shock, ogni sua mostra sembra sempre il saggio di fine anno di una talentuosissima studentessa del liceo artistico. I suoi disegni, a parte poche eccezioni, sono bellissimi: l’influenza di Schiele e Munch si mescola a quella di Carol Rama e Louise Borgeois. E poi sculture, tele, arazzi, installazioni. Tutto quello che fa le riesce bene, perché è tecnicamente molto abile: si potrebbe dire che il suo cattivo gusto nel vestire è inversamente proporzionale alla capacità di maneggiare al meglio qualsiasi materiale.

Quando vivevo a Londra – era l’anno delle Olimpiadi – mi ritrovai in mano una cartina della metropolitana disegnata da lei. La solita furbastra, pensai. Poi un giorno, dopo aver visto una mostra che non ricordo, comprai al book-shop della galleria una cartolina con una frase che rispondeva come uno specchio al mio stato d’animo (ero molto triste): Everything of me’s bleeding. Avevo attaccato la cartolina davanti alla scrivania e la fissavo a lungo. La fissavo e la fissavo, finché quel neon azzurro iniziò a sembrarmi un’opera meravigliosa. I neon di Emin, sempre scritti a mano, in corsivo, mi fanno venire in mente atmosfere notturne, insegne di bar e di night club. È bello il modo in cui si accumulano, sinuosi e liberi, come appunti su un diario segreto. Attraversano territori inquietanti (My cunt is wet by fear), avanzano leggeri e banalissimi (People like you need to fuck people like me), per approdare alle più struggenti e melense dichiarazioni d’amore (I listen to the ocean and all I hear is you).

Le trapunte (quilts) hanno un tono diverso, spietato. Il contrasto tra una pratica che viene naturale attribuire a una figura domestica, dolce e materna e il contenuto delle frasi ricamate è forte. Non si tratta qui di poesie ma di ordini, domande e dichiarazioni. Ad esempio:  I do not expect to be a mother but I do expect  to die alone. La scrittura sembra per Emin un modo di esprimersi naturale quasi quanto il disegno, come dimostrano anche Exploration of the Soul (1994), un racconto autobiografico che parte dal suo concepimento e arriva fino ai tredici anni, e il memoir Strangeland (2005).

Che il suo lavoro sia concettuale o manuale è sempre sensuale, nel senso di passionale, provocante. Perché si offre ai nostri occhi nudo e vulnerabile. Nel corso degli anni il livello di aderenza alla realtà è andato sfumando e le opere in mostra da Lorcan O’neill sono vaghe e universali. Ma Emin ha cominciato diversamente: nel 1993, prima ancora di Sensation, tenne la sua prima personale alla White Cube, intitolata My Major Retrospective. La mostra consisteva in fotografie private (tra cui quelle dei suoi quadri giovanili, distrutti durante la profonda crisi depressiva che la colpì dopo l’aborto dei gemelli del 1987) e oggetti che nessuno avrebbe mai pensato di mostrare in pubblico, come il pacchetto di sigarette che un suo zio teneva in mano nel momento in cui morì in un incidente stradale.

Leggendo un altro articolo sul Guardian scopro che avevo ragione: Emin sembra effettivamente un po’ triste. A cinquantadue anni, riflette sulla sua estenuante missione: «It’s just me and it always has been me. I think looking in the mirror when you’re alone and you’re 50 is very different from when you’re 30». Ora che gli rivolge le spalle, lasciandolo a dialogare con Bacon, parla di My bed con tenerezza e lo definisce «a portrait of a young woman». Nella complessità in cui la giovane donna vive, in effetti, amando persone e sognando i soldi e ritrovandosi incatenata agli altri e alle loro voci, il letto rappresenta il luogo e il momento della ricerca della verità.

Verità nell’amore ma anche verità della solitudine: non è forse il letto che accoglie e accompagna i più profondi momenti di scoraggiamento, la solitudine immensa del pensiero che inizia a spaventarsi di sé stesso e altre tristi paure?

The all night Hell of Darkness.

The corner of my room becoming smaller.

I want my heart to stop this violent rounding,

The only time I cannot hear it is when my foot steps will drown it out.

But I need to escape from this barbaric noise in my head

The sound of my heart dying.

Così scrive Emin in Belligerence, una lastra di bronzo in mostra a Roma, incisa con la sua calligrafia. È un’opera recente, ma il pianto che sprigiona sarebbe potuto provenire da My bed e dal letto di chiunque abbia passato (o stia passando) brutti momenti in cerca della verità.