Attualità

Alighiero e Boetti Day

di Sara Dolfi Agostini

“Se di arte si tratta, di artisti si parla” ci ricorda Giulio Paolini. Siamo all’Auditorium RAI di Torino, è sabato pomeriggio: fuori, gli altri, assaporano i primi caldi estivi; noi, dentro, ascoltiamo assorti la testimonianza di cinquanta artisti, critici, ingegneri, musicisti, teorici ed enigmisti. Tutti riuniti a discutere l’opera e le identità multiple di quel mostro sacro di Alighiero Boetti, sciamano e showman dell’Arte Italiana scomparso prematuramente nel ’94.

L’occasione è una maratona di dodici ore effettive e senza pause: una sorta di esperimento collettivo prodotto da Artissima e dalla Fondazione Nicola Trussardi, abilmente orchestrato da Francesco Manacorda, Massimiliano Gioni e Luca Cerizza. Sono loro che hanno scavato nella memoria degli amici ancora vivi dell’artista, hanno ribaltato cassetti pieni di polvere per costruire un amarcord di racconti, album fotografici e documentari inediti che ci catapultano dritti dritti negli anni ’60, in una Torino brulicante di idee, che cova l’Arte Povera e dialoga con il Minimalismo Americano nelle gallerie di Christian Stein e Gian Enzo Sperone, che si ritrova al Piper, dove si balla, si fanno le sfilate e si organizzano sessioni di Living Theatre.

Boetti si muove in una comunità di artisti, designer e architetti che condividono un approccio orizzontale alla società – antipodico rispetto alle logiche del sistema capitalistico integrate nella Pop Art e nella Factory di Warhol – e si riconoscono in un modello di azione collettivo che si declina in scambi e collaborazioni progettuali. Come quella tra Boetti e il designer Clino Castelli per Dossier Postale. Fascicolo 104 (1969/70), un archivio che testimonia l’impossibilità di recapitare 25 lettere, inviate dall’artista a personaggi reali del mondo dell’arte dei tempi, da Ettore Spalletti a Lucy Lippard, ma ad indirizzi inventati.

Un processo che si sostanzia nelle annotazioni dei postini sul retro delle buste, e che già contiene gli elementi intorno cui ruoterà il lavoro di Boetti negli anni: il gioco combinatorio, la duplicazione e l’inversione della realtà, la produzione di modelli logici relativi al sistema culturale dominante. Tutti presenti anche nel tentativo – intrapreso nel 1969 per oltre otto anni – di classificare i mille fiumi più lunghi del mondo. “Un’operazione priva di rilevanza scientifica, dove la geografia non c’entra niente” ci racconta il collezionista e storico dell’arte Giorgio Maffei. Cosa vuole dirci dunque Boetti, lui che nel 1968 invia agli amici una cartolina in cui passeggia mano nella mano con il proprio gemello e che da allora inizia a firmarsi, come ricordato nel titolo della maratona, “Alighiero e Boetti”? Forse che “la realtà non è unica, ma esiste in tante versioni tutte ugualmente vere”, risponde Lawrence Weiner, anche lui ospite. E di conseguenza, l’uomo convive naturalmente con un’identità multipla, schizofrenica.

È di poco successiva la decisione di Boetti di “fare un passo a lato” – per usare le parole dell’amico e collega Piero Gilardi – cioè di partire per l’Afghanistan. È là che apre il celebre One Hotel (1971), una performance permanente dove è il viaggiatore, stanziato, ad accogliere gli ospiti locali, ed è là che inizia la realizzazione dei tappeti con la collaborazione delle ricamatrici Afghane, precorrendo una tendenza attualmente in atto nel sistema capitalistico avanzato sviluppato in questo ultimo decennio. Il perché lo spiega l’economista Pierluigi Sacco: “delocalizzando il suo lavoro a Kabul, Boetti sposta geograficamente il suo centro di attenzione e anticipa concettualmente una realtà in cui l’Occidente non è più al centro dell’universo, perchè la produzione di significato si è spostata altrove”.

Un’altra decisiva intuizione che lo inserisce nell’Olimpo degli artisti, avvalorata dal contributo di un assente Maurizio Cattelan, che delega a Massimiliano Gioni, suo doppio e ghost writer per anni, la scomoda confessione di aver letteralmente saccheggiato le sue interviste. Non senza suggerire, però, una compartecipazione alla colpa dell’artista scomparso, che alla Biennale di Venezia del 1990, in visita al Padiglione Americano di Jenny Holzer, avrebbe omaggiato il giovane e sconosciuto Cattelan di un suo profetico truismo: “Non scrivere cazzate”. E ci spinge a credere che lui, Cattelan, con quelle appropriazioni letterarie, abbia effettivamente colto l’avvertimento.