Stili di vita | Estate

L’abbronzatura, l’ultimo dei tabù

Abbronzarsi è di moda oppure no? Forse il miglior modo per esporsi al sole è non farlo.

di Silvia Schirinzi

Questo articolo fa parte di “Studio estate”, una serie di pezzi dedicati ai simboli e ai luoghi dell’estate. Potete leggerli tutti qui.

 

Sono stata bambina negli anni Novanta e adolescente nei primi Duemila, ciò significa che ho vissuto quasi per intero – mi son scappati gli anni Ottanta, per fortuna – la stagione lunghissima della santificazione dell’abbronzatura, l’esaltazione massima della doratura corporea e la tiratura illimitata delle terre e degli autoabbronzanti, prima che si ri-brandizzassero come bronzer, highlighter e pure “Lava Gold”, nel caso di quel genio di Rihanna. Ho vissuto insomma almeno un decennio abbondante in cui abbronzarsi era ritenuto una pratica sacrosanta, sinonimo di benessere e sexytudine, un periodo storico in cui i bikini fluo, persino il topless, venivano caldamente incoraggiati, quando non propugnati con insistenza, da pubblicità, magazine e personaggi celebri perché mettessero in risalto il colorito della bella stagione.

Essendo nata in una località di mare, da piccola mi abbronzavo piuttosto in fretta, complici le estati lunghissime che andavano da metà maggio a settembre e quella capacità tutta infantile di non uscire mai dall’acqua, una competenza che svanisce inesorabilmente superati i quattordici anni. Ricordo benissimo l’iter istituito da mia madre per non farmi scottare: per i primi bagni, quelli fatti ancora insieme ai compagni di scuola in attesa degli amici dell’estate, crema su corpo e viso con fattore di protezione 50+, perché ero più chiara del resto della famiglia, riapplicata dopo ogni bagno con costanza e tanto fastidio, pena l’ira genitoriale che non faceva sconti a nessuno, neanche alle insolazioni.

Con l’insistenza della preadolescenza, avevo ottenuto un fortunoso passaggio alla più socialmente accettabile 30, che un po’ mi vergognavo della mia carnagione mozzarella e del fatto stesso di aver bisogno di proteggermi dal sole, colpevole un errore genetico che non prevedeva l’upgrade nella scala dei marroni perenni come invece succedeva a cugini e amici, le cui abbronzature leggendarie erano oggetto di continui complimenti e di un’ammirazione sincera, al limite della venerazione. Passata senza intoppi la prima settimana, si poteva quindi scalare a una protezione più blanda, la 15, distribuita in flaconi più accattivanti nel design e generalmente parecchio aggressiva nelle profumazioni. Era la crema delle ragazze grandi, quella leggerissima che non ungeva e non lasciava imbarazzanti macchie bianche che si appiccicavano con l’acqua salata, al contrario odorava sempre di cose esotiche e buone come il cocco o l’olio di jojoba.

abbronzatura creme solari

Se arrivavi alla crema con protezione 15 significava una cosa sola: ce l’avevi fatta. Avevi superato la prima, cruciale, settimana di esposizione al solleone senza riportare ferite sul campo, ovvero senza arrostire brutalmente almeno due strati della pelle e sottoporti perciò all’infamante pratica del bagno con la maglietta bianca, seguita com’era ovvio dalla spellatura selvaggia, che ti avrebbe attirato sguardi di compassione misti a un malcelato disgusto. Da lì in poi, l’estate sarebbe stata tutta in discesa. Una volta passata con nonchalance la 15 per qualche giorno, la pelle biscottata era perfetta per essere messa in mostra, lisciata dai brufoletti e dalle mille imperfezioni dell’inverno, arrossata al punto da farti sembrare più viva, anche più magra, ma soprattutto conforme. Era estate e tu eri abbronzata, cosa poteva esserci di più logico. Alla fine della seconda settimana eri già “nera” e le creme si potevano finalmente lasciare a casa: fino a non troppo tempo fa, infatti, eravamo tutti d’accordo sul fatto che il sole fosse cattivo solo alle prime esposizioni, poi una volta conquistato il grado di rosolo necessario che male avrebbe mai potuto fare un po’ di abbronzatura? Era la prova inconfutabile che si era in vacanza, spensierati, con tanto tempo da perdere. Fino a che.

Fino a che non cresci e le amiche di tua madre, che hanno preso il sole ininterrottamente dal 1975 al 2001, non sono entrate in quella fase della vita in cui ogni ora passata senza la protezione di un ombrellone è diventata un solco pesante sul volto, testimone suo malgrado dello sprezzo scriteriato verso la crema protettiva e dell’amore clandestino verso gli olii di più varia natura, da quello Johnson a quello d’oliva, i composti di birra e qualsiasi altro unguento si pensava, sconsideratamente, potesse abbronzare più in fretta. Abbiamo passato decenni a friggere sulle spiagge e sui lastroni scuri degli scogli, prendendoci gioco senza pietà dei turisti stranieri bianchi all’inverosimile, prima di renderci conto che qualcosa di irreparabile stava succedendo ai nostri corpi inconsapevoli. Manco a dirlo, avevano ragione i turisti prudenti. Mentre le estati della mia vita, come quelle di tutti, andavano accorciandosi sempre di più, la melanina nel mio corpo compiva un percorso inverso a quello sapientemente coltivato negli anni dell’infanzia dai rituali materni.

Poi è successo l’inverosimile, e cioè che l’abbronzatura è stata demonizzata. Ormai lo dicono anche i make-up artist professionali e le estetiste, pure quelli che vantano un nutrito seguito social: abbronzarsi non fa bene, il miglior modo per esporsi al sole è non farlo. A un certo punto, abbiamo fatto dietrofront: i flaconi arroganti con le palme e i culi in vista, di marchi dai nomi evocativi come Bilboa o Piz Buin, sono stati sostituiti da una caterva di prodotti con il sex-appeal di un colluttorio, dal design minimalista se non prosaicamente farmaceutico. Abbiamo iniziato a usare cose come lo “schermo totale” (che non esiste) e a incremarci come mai avremmo pensato di fare a quindici anni, perché ci hanno finalmente spiegato i rischi di un’esposizione prolungata, abbiamo rivalutato le alternative improponibili come gli autoabbronzanti che per essere applicati bene bisogna essere fisioterapisti e pure le lampade al collagene, che quelle degli anni Duemila se le potevano permettere solo Paris Hilton e Nicole Richie. Eppure, almeno a guardare Instagram, il segno del costume mantiene ancora intatta tutta la sua pruriginosa carica erotica: meglio procurarselo con qualche filtro e ritocco in più, però, che farsi lo sbattimento di doversi abbronzare per davvero.

 

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