Attualità

A spasso per Roma col creatore di House of Cards

Già consigliere della Thatcher (che una volta ha provato a far ubriacare), Michael Dobbs ha inventato la storia da cui è tratta una delle serie Tv più celebrate. Ritratto dell'uomo che chiama Underwood per nome.

di Michele Masneri

Michael Dobbs ha l’aria felice degli inglesi colti a Roma. Il nome per intero sarebbe Lord Michael Dobbs of Wylye, barone di Wylye, piccolo paese del Wiltshire dove ha una casa di campagna; il baronato risale al 2010, per quella bizzarra usanza introdotta negli anni Cinquanta e molto implementata in seguito da Blair in poi di creare per politici eminenti dei “life peerage”, dei titoli a vita non ereditari, per infiltrare la Camera Alta, con effetti sistemici imprevedibili (in una intervista, Dobbs ha raccontato che gli piace molto stare a Wylye, lì scrive i suoi libri, rigorosamente a letto, e lì c’è un vero senso di comunità, mica come a Londra che è un bordello. A Wylye c’è poi un vecchietto di 93 anni suo vicino di casa, che non guida più, e ogni tanto lord Dobbs lo accompagna a fare delle compere. Un giorno Dobbs ha raccontato l’edificante storiella a un suo compagno di banco alla Camera dei Lord, e lui lo ha guardato strano; quello è un conte, un peer vero, un possidente terriero, e gli ha detto sdegnato: «Ma io non ho vicini di casa»).

Michael Dobbs, 66 anni compiuti la settimana scorsa (“sono nato il 14 novembre 1948, lo stesso giorno del principe Carlo”, tiene a precisare) ha la pelle liscia e facile all’arrossamento di chi è cresciuto con le piogge continue e gelide inglesi, non con le bombe d’acqua italiche. Ha capelli talmente fini da sembrare quelli di un neonato; e la faccia di un vero peer, e non di un barone nuovo di zecca. Però nasce figlio di un agricoltore, e nipote di poliziotto, e ha fatto tanti lavori diversi prima di diventare “quello che ha inventato House of Cards“, la serie televisiva ambientata alla Casa Bianca col cattivo più adorabile degli ultimi 40 anni, dopo Gordon Gekko di Wall Street (1987). Ha fatto il giornalista politico in America, al Boston Globe, l’analista (con un dottorato in politica di difesa nucleare), il consigliere di Margaret Thatcher, il vice presidente del partito conservatore, il pubblicitario (numero due del colosso Saatchi & Saatchi), l’anchorman televisivo, il lord, e poi lo scrittore e lo sceneggiatore, inventando un genere, il thriller parlamentare, che non si declina solo nella fortunata serie tv ma anche in un vasto numero di romanzi il cui protagonista è un deputato, miliardario, già membro dei servizi segreti.

Dobbs si inserisce insomma in una grande tradizione delle migliori eccentricità inglesi; come Ian Fleming dice di aver scritto la sua saga più famosa “a bordo piscina”; ma probabilmente non la racconta quasi mai giusta. Gli si addice perfettamente la definizione di Mordecai Richler: «gli americani sono come li vedi. Ma immaginate di sedervi su un 747 in partenza da Heathrow e di avere vicino il tipico vecchio trombone anglico, magari un pezzo grosso della city col triplo mento, balbettio ereditario, e parole crociate del Times sulle ginocchia. Che non vi passi nemmeno per la testa di prendervi una confidenza. Probabilmente Mr. Té alle cinque è cintura nera di judo, ma non solo, nel 1943 è stato paracadutato in Dordogna, dove ha fatto saltare un paio di ponti, ed è sopravvissuto alle galere della Gestapo concentrandosi su quella che sarebbe un giorno diventata la traduzione ufficiale inglese dell’Epopea di Gilgames, e adesso, col sacco da viaggio di cellofan pieno di vestiti da sera “vedo-e-non-vedo” e di lingerie di sua moglie, sta andando alla convention di travestiti che si tiene ogni anno a Saskatoon».

I giornalisti italiani gli chiedono solo di Matteo Renzi, e lui, che dopotutto è un lord, anche se a vita, dà le risposte che può, non conoscendo molto il presidente del Consiglio, e forse non essendo neanche molto interessato

Non si sa se ami i travestimenti, almeno in senso letterale, Dobbs, di sicuro gli piace impersonare tante vite. «Di professione passa molto tempo a fare cospirazioni politiche al Parlamento, e nel tempo libero abita in campagna vicino a una chiesa e vicino a molti pub. Passa più tempo nei pub, perché hanno orari d’apertura più comodi», scrive sul suo sito Internet. Ha tanti figli da qualche moglie diversa, e «se volete un consiglio per restare giovani, fatene molti» dice al suo editore italiano, Elido Fazi, che pubblica la saga di House of Cards, nella tappa romana del suo tour europeo. A Roma Michael Dobbs è felice: si fa tanti selfie coi lettori/spettatori, ha una giacca gessata blu, una camicia di lino rosa, e l’aria estasiata di trovarsi in una città immaginaria che ha prodotto molto thriller politici, però in altre epoche molto lontane. I giornalisti italiani invece gli chiedono solo di Matteo Renzi, suo lettore, anche con domande assai circostanziate («ha spaccato il Pd?»; «è davvero thatcheriano?»; «come farà con la base?») e lui, che dopotutto è un lord, anche se a vita, dà le risposte che può, non conoscendo molto il presidente del Consiglio, e forse non essendo neanche molto interessato. Preferisce parlare di Augusto, di Bruto, di Marc’Antonio, e il giorno dopo lo si ritrova infatti molto attento a un convegno all’Eur sulla comunicazione del patrimonio culturale, con anziane giornaliste a parlare di Domus Aurea, e il direttore del museo nazionale di Atene.

Il convegno si tiene nella sede di Confindustria, c’è questa atmosfera di modernità usurata, palazzone tutto-specchi, moquette lise, poltroncine da Enterprise, e banchi un po’ scheggiati, mentre alle pareti foto d’epoca testimoniano di successi meccanici italiani: la Nave dei Baci Perugina, un Dc10 Alitalia, una Littorina. Per Dobbs, invece, Roma è quella imperiale e antica, e quando una cronista gli chiede: qual è il personaggio letterario con cui andrebbe più volentieri a cena, o a letto, non ha dubbi: Maria Maddalena. Poi si siede in un angoletto a rispondere a altre domande, gli chiedono se vuole qualcosa da bere, lui ordina un bicchiere di vino bianco, e poi un altro, e «Dove c’è Dobbs c’è sempre un drink» sostiene un altro lord suo amico, come lui ex pubblicitario, ex consigliere di Margaret Thatcher, Timothy Bell, in una sua autobiografia appena uscita in Gran Bretagna (Right or Wrong, edizioni Bloomsbury).

Lord Bell, che è stato suo capo a Saatchi and Saatchi, racconta un aneddoto gustoso in cui i due consiglieri fanno pesantemente ubriacare – o meglio, credono di aver fatto pesantemente ubriacare – Margaret Thatcher, rifilandole uno scotch dopo l’altro per evitare incazzature furibonde alla lettura di certi sondaggi. Dopodiché, quando i due sono (loro) ubriachi e convinti di averla sfangata, la Thatcher va in bagno, si lava la faccia, torna perfettamente lucida e fa un cazziatone leggendario a tutti e due.

Ma cosa c’è della Thatcher in House of Cards? «Mica tanto», dice lord Dobbs. «Certo, Maggie non era tenera. Non era simpatica. Era ossessionata dal potere e dalla politica. Al di fuori della politica non le interessava proprio niente. Ma i politici (almeno quelli che passano alla storia) sono così. Sono ossessivi e sfrenatamente ambiziosi. Però non è che ci siano dei lati del suo carattere che ho utilizzato; piuttosto ho usato quel clima cupo di violenza, di delitto, che nella serie tv sembra esagerato, invece la politica sparge un sacco di morti sul suo cammino, sa. Io ho visto morire un sacco di gente. Un sacco di miei amici. Io stesso sono vivo per miracolo» dice Dobbs, scampato al famoso attentato dell’Ira al Grand Hotel di Brighton, quando Margaret Thatcher si salvò ma morirono cinque persone; mentre nel 1990 anche Ian Gow, uno degli uomini più vicini alla Thatcher, fu assassinato con un’autobomba.

«Maggie non è stata la prima a usare dei pubblicitari. È stata però la prima a fidarsi di loro» dice il lord. «E a farli entrare nella sua squadra in ruoli fondamentali»

Poi c’è questa cosa curiosa dei pubblicitari; a un certo punto la Thatcher, ancora all’opposizione, si rivolge all’agenzia più aggressiva d’Inghilterra, Saatchi and Saatchi, per “vendere” il partito conservatore. Una cosa abbastanza innovativa. Ma «Maggie non è stata la prima a usare dei pubblicitari. È stata però la prima a fidarsi di loro» dice il lord. «E a farli entrare nella sua squadra in ruoli fondamentali. Io ho lavorato per dieci anni sotto Tim Bell, che allora era a capo della Saatchi & Saatchi. Quelli erano anni gloriosi per la pubblicità, e Maggie per prima capiva l’importanza di parlare alla gente fuori dalla bolla di Westminster, e Saatchi & Saatchi, che era specializzata in campagne per pannolini e detersivi, fu molto utile». Lord Dobbs non lo dice, ma l’altro lord, lord Bell, sì, che i due fratelli ebrei iracheni Saatchi erano delle iene, e che insomma scorreva più sangue tra le agenzie pubblicitarie (non a caso, poi protagoniste dell’altra serie di massimo successo, Mad Men) che a Westminster.

Lord Dobbs (altro travestimento?) è poi molto legato alla famiglia, ha una seconda moglie che adora, anche se in questo tour romano (dove è relegato all’Hotel Sheraton, all’Eur) è solo. Però tutta la storia che ci fa sognare, la storia d’amore più bella degli ultimi anni, tra le due persone più orribili degli ultimi anni, quella insomma tra Frank Underwood e la moglie Claire, non l’ha inventata lui, dice. «Vorrei tanto. Ma questa cosa nella prima miniserie Bbc – andata in onda nel 1990 e da cui poi ha preso spunto quella americana – non c’era, in generale non c’era questa storia fortissima tra Francis e la moglie (che in origine si chiamava Elizabeth). L’hanno messa quelli di Hollywood» (li chiama sempre così, e curiosamente è poi l’unico a chiamare Underwood Francis, come solo la moglie nella finzione televisiva). «E sono stati geniali in questo; generalmente quando Hollywood compra i diritti per un tuo libro, è come vendere una casa, fai le valigie e te ne vai; invece lavorare con loro è la cosa più bella che sia capitata nella mia vita». A questo punto tocca fare la ferale domanda. Ma tutto questo parlare di serie, sono la nuova letteratura, eccetera. Che ne pensa. «Beh, decisamente siamo nell’epoca d’oro della televisione. Però il tema vero direi che è il tempo. Quando fai un film, il regista e lo sceneggiatore parlano solo di cosa hanno dovuto tagliare, di quello che è rimasto fuori, che hanno dovuto togliere, che non ci stava in un’ora e mezza, in due ore. Con una serie si lavora su una durata di tredici ore. É il tempo di lettura di un romanzo, se ci pensa. In questo senso sì, le serie sono la nuova letteratura, sicuramente molto più di quanto non sia il cinema. Con tredici ore a disposizione i personaggi si evolvono, cambiano, crescono, soprattutto entrano in noi. C’è una sedimentazione che è molto simile a quella dei personaggi dei romanzi. Si lavora sull’addizione, non sulla sottrazione».

E le sigarette? Tutta la storia delle sigarette (nella serie, i due cattivissimi, dopo aver rovinato un paio di persone al giorno, si affacciano alla finestra a fumare). È solo un modo per prendere un po’ di soldi da Big Tobacco, come le Marlboro in primo piano nella commedia all’italiana, o c’è dell’altro? Lord Dobbs è divertito. «Beh, è una debolezza. Come Obama, anche Francis Underwood non riesce a smettere di fumare. È una delle debolezze di Francis. Lui vorrebbe forse anche smettere di essere così perfido. Poi è il loro rito di autodisciplina. È il simbolo della loro relazione. Ne fumano una sola, alla finestra. È la loro limitazione del danno».

Tra gli altri travestimenti di lord Dobbs ci sono anche: il tifoso di calcio (tifa Arsenal); l’odiatore dell’Unione Europea («mi sembra che Ronaldo rappresenti molto meglio l’Europa che non Juncker»); l’appassionato lettore del commissario Montalbano; l’amatore di automobili; ne ha avute tante, sportive, adesso ha una Panda, rossa, come quella del sindaco Marino, dice che funziona benissimo e gli piace tantissimo; però la usa solo per andare da casa alla stazione, e prendere il treno per Wylye, il suo feudo: perché dopotutto è un lord, anche se solo per questa vita.