Attualità

A proposito di Bieber

Dentro il fenomeno musicale (e non solo) degli ultimi anni. Icona, bravo ragazzo, ragazzo cattivo, soprattutto estremamente ricco e potente. Ritratto per cercare di capire chi è il Bieber di cui parliamo, ma che musicalmente ci è sconosciuto.

di Mattia Carzaniga

«Mi fai quindicimila battute su Justin Bieber?».
Justin Bieber è un tipo da 140 caratteri, penso io.
Justin Bieber è uno che meriterebbe tutte le pagine della Recherche, penso un secondo dopo.
Alla ricerca. E sia.

 

Capitolo I: L’icona

Dovrebbe essere l’ultimo capitolo, direte voi. L’arrivo, la conclusione, la controreplica da Direzione del Partito Democratico. M’iscrivo a parlare e dissento. Justin Bieber è un’icona prima di tutto. Come si costruisce un’icona? Come si diventa un’icona, quando ancora si è un adolescente, anche per gli adulti? (Perché stiamo parlando tra adulti, vero?) Riformulo: conoscete una, due canzoni di Justin Bieber? Conoscete un titolo, un ritornello, il bridge manco m’azzardo a chiedervelo. Io ne conosco più di una, ma è un problema mio, mi tiro fuori dalla media. Conosco soprattutto l’album acustico, perché gli album acustici rivelano sempre più di tutti gli altri se l’artista (il famigerato artista) ha stoffa, che sia David Byrne o Taylor Swift – entrambi peraltro superlativi nell’acustico. Ebbene, Justin Bieber ha più di un titolo, più di un ritornello, pure più di un bridge. Ha stoffa, persino quella.

Conoscete una, due canzoni di Justin Bieber? No, eppure conoscete lui, conoscete la sua faccia, le notizie da colonnino destro di quotidiano online ics che lo riguardano. Ne parlate in pausa pranzo, è il vostro nuovo benchmark – tra un tupperware di mezze penne al pesto riscaldato al microonde e un’insalata con lo jocca – quando c’è da discutere di gioventù bruciate, di dio-fa’-che-mio-figlio-non-cresca-così, di star consumate alla velocità di un nuovo post. Di icone, appunto. (Aggiornamenti in ordine sparso – «Mi passi l’olio?»). L’hanno fermato per guida oltre i limiti di velocità; ha bisticciato coi poliziotti; era ubriaco; era drogato; era fatto di Xanax. Quel giorno (il giorno in cui è risultato positivo ai test tossicologici) ce la siamo rubata a vicenda, quell’assonanza perfetta: Blue Justin, il pensiero alla protagonista dell’ultimo sopravvalutato Woody Allen, la Cate Blanchett/Jasmine che lamenta «For some reason my Xanax isn’t kicking in», ci sembrava di sentire il cantante diciannovenne dire lo stesso agli agenti.

Avete visto il mugshot in cui sorride come neanche Lindsay Lohan è mai riuscita a fare, «Guarda che cosa nuova mi sta capitando». Avete visto le foto in cui, insieme a uno dei tanti compagni di merende (merendine: nastrine, Kinder colazione più, roba così), succhia le tette di plastica di una spogliarellista, come un Titta diAmarcord che affoga la faccia dentro i seni della tabacchiera. E poi forse avete visto la stessa foto senza le tette, coi due amichetti fotoscioppati in modo da farli baciare tra loro, la ragazzata della ragazzata, un grafico del Wisconsin che si burla con un colpo di mouse della burla di questi ragazzini invitati alle feste per grandi.

Perché Justin Bieber è un’icona di qualunque cosa, è un’icona per tutte le stagioni, nel tempo del web durano qualche ora appena. È un novello James Dean e un attimo dopo un frocetto qualsiasi, è Pinocchio nel paese dei balocchi e poi un grillino anti-kasta, è una vecchia volpe del palcoscenico e poi l’adolescente che posta, twitta, instagramma, come tutti. È una faccia e un corpo su cui puoi scrivere qualunque cosa, basta che tu lo voglia. Lui sembra volerlo, passa da un poster appeso nella cameretta di una piccola fan a una foto segnaletica con la disinvoltura e l’abilità del professionista.

Conoscete una, due canzoni di Justin Bieber? No, perché siete (siamo: che io le conosca è del tutto casuale) vecchi. Da ragazzini, le canzoni dei Take That le sapevate a memoria, probabilmente anticipereste, oggi, le parole di certi testi minori delle Spice Girls. Come andare in bicicletta: una volta che hai imparato da piccolo non lo dimentichi più. Ricordo che la mia classe, in seconda media, propose Thunder degli East 17 come colonna sonora dello spettacolo di fine anno (il professore di musica approvò la scelta). La so oggi come la sapevo allora. Non conoscete le canzoni di Justin Bieber perché vi struggete sui Perturbazione invitati nel cast del prossimo Festival di Sanremo, sull’ultimo album dell’ultimo hipster islandese, sui produttori che stanno dietro le Haim. Siete vecchi, siamo vecchi. Non conoscete Justin Bieber, però conoscete Justin Bieber. L’icona. Perché ci avete sempre creduto. Non lo sapete, ma siete anche voi (lo siamo noi tutti) dei belieber.

Capitolo II: Lo sdraiato

A volte m’immagino il padre di Justin Bieber (non il vero padre di Justin Bieber, che si gode la casa da poco meno di un milione di dollari che gli ha comprato il figlio qualche mese fa); a volte m’immagino il padre di Justin Bieber dirgli: «Dovresti venire con me al Colle della Nasca». Facciamo sul Monte Tallac, California, per essere geograficamente più attendibili. Ma il succo del mio slancio immaginifico rimane lo scenario raccontato negli Sdraiati da Michele Serra, ovvero un padre che non mette a fuoco il figlio adolescente e la sua generazione, che al tempo stesso sbertuccia la generazione dei cinquantenni, che sogna un dialogo tra le due generazioni, quella dei padri e quella dei figli finalmente uniti, in una silenziosa valle di montagna, appunto.

A volte m’immagino il padre di Justin Bieber (non il vero padre di Justin Bieber, che si è rifiutato di accogliere la richiesta dell’ultimo disgraziato pilota d’aereo che trasportava lui e suo figlio da chissà quale posto a chissà quale altro di non fumare marijuana durante l’ultimo disgraziato volo) lamentarsi dei calzini sporchi lasciati in giro dallo sdraiato di casa, dei wurstel crudi ripescati giorni dopo dietro il divano, delle conversazioni rese impossibili dalle cuffiette dell’iPod costantemente cacciate dentro le orecchie.

Ma Justin Bieber è tutto fuorché uno sdraiato. Produce da solo gli introiti annui di tutti gli adolescenti con «un lavoretto» di tutti i paesi del mondo messi insieme. Fossero tutti così, non esisterebbero i Michele Serra, i talk-show del pomeriggio con lo psicologo Meluzzi, le column di allerta sui quotidiani locali. Lui e Miley Cyrus, altra gran lavoratrice di poco più grande, come non-specchio di una generazione, se non fosse per le canne, i vodkaredbull il sabato sera, di tanto in tanto qualche ragazzata, direbbero i padri sbozzati da Serra.

In una delle ultime foto di Justin Bieber comparse in rete ho visto, finalmente, uno sdraiato. Lo sguardo assente (anche se coperto dagli occhiali da sole: ma si capiva che era assente), la maglia levata perché in quel locale fa evidentemente troppo caldo, un tatuaggio mal disegnato sul petto, una croce che sembrava un trasferello, come quelli che trovi sulle braccia degli aspiranti rapper di Rozzano. Accanto a lui c’è Puff Daddy, insomma Sean “Diddy” Combs, insomma sempre quello, e nessuno dei due sembra una star. Sembrano lo sdraiato Justin Bieber insieme al fratello maggiore, brotha, quello che d’estate ti fa entrare in discoteca a Ibiza perché c’ha gli agganci giusti collezionati negli anni, quello che ha percorso mille volte la strada su cui ti ha instradato.

Ho pensato, nel finale del mio slancio immaginifico, a Justin Bieber che torna nella casa da poco meno di un milione di dollari di papà, butta la maglietta per terra, si sfila i calzini e li lascia appallottolati ai piedi del letto, si butta sulle lenzuola così come capita, stonato dall’alcol e dalla musica troppo alta che ancora pompa dentro le orecchie. Il giorno dopo nessuna conferenza stampa, nessun volo per Parigi o per Tokyo, nessuna tappa in un negozio di dischi di Manhattan per autografare dischi e poster da cameretta. Il giorno dopo è domenica, e Justin Bieber vuole dormire fino alle tre del pomeriggio. E suo padre (non il suo vero padre) dovrà mettersi in testa che neanche quel weekend lo convincerà ad andare con lui sul Colle della Nasca, volevo dire sul Monte Tallac.

Capitolo III: Io e Justin Bieber, Santa Monica, esterno giorno

Ci ho sbattuto la faccia contro (il caso, il fenomeno, l’icona: scegli un sostantivo a caso per il sottopancia da Domenica Live) esattamente due estati fa. Passeggiavo sul molo di Santa Monica (tutto vero: è il destino a consentirmi di vantarmi, anni dopo, di quell’allora pressoché insignificante episodio) e c’era un tizio che distribuiva volantini azzurri. C’era stampato sopra Justin Bieber, insieme alle parole “Leave it to Bieber”. Parafrasando il famoso cartone animato per fighi, ti spiegavano che da quella brutta malattia, la bieberite, si poteva guarire.

Da noi Justin Bieber non se lo filava ancora nessuno, manco il colonnino destro di quotidiano online ics. Non era ancora il giovane bruciato dalla marijuana e dallo Xanax, figurarsi se a qualcuno importavano i milioni di dischi e i miliardi di un Amico di Maria De Filippi che registrava canzoncine per ragazzette di quinta elementare di Detroit. Da noi arriva tutto in ritardo: per Facebook ci sono voluti quattro anni secchi, per Justin Bieber un paio di stagioni buone – gli italiani ancora si passavano cavoli e pannocchie su FarmVille, riposi in pace.

Per un momento siamo stati io e lui, soli, sul molo di Santa Monica, la ruota panoramica da una parte, dall’altra losangelini che surfavano, l’oceano davanti. Ho aspettato di essere fuori dal campo visivo del tizio dei volantini azzurri, e ti ho domandato:

– Chi sei?
– Justin Bieber.
– Volevo dire un’altra cosa. Lo so chi sei, ti passavano ieri all’autoradio, mentre venivo qui da Las Vegas.
– Quest’estate passano solo i Maroon 5, è una cazzo di impresa superarli nella classifica di Billboard.
– Intendevo: non posso essere qui con te per caso. Santa Monica, l’oceano, questo volantino. Tu sai perché sono arrivato in questo posto proprio adesso.
– Tra due anni ti chiederanno di scrivere quindicimila battute su di me.
– Questo lo escludo. In Italia la gente come te non arriva, come dicono a X-Factor.
– Tra due anni ti chiederanno di scrivere quindicimila cazzo di battute su di me, fidati, e Matteo Renzi sarà il segretario del Partito Democratico.
– Sì, d’accordo, come no.
– V’interesserà la storia di questo ragazzetto del cazzo, rottamerò tutte le Lady Gaga del cazzo in tutti i cazzo di colonnini destri di quotidiano online ics.
– Guarda che ci conto, Justin Bieber.
– Chiamami solo Justin.
– Scusami, è che ancora non ci riesco. Sai, in Italia abbiamo impiegato anni per far familiarizzare i vari Mario Luzzatto Fegiz con Justin Timberlake.
–Fortuna quest’estate non mi sta rompendo i coglioni coi passaggi radio, quel fighetto. Comunque tra due anni penserai: cazzo, aveva ragione. Ti ricorderai di questo momento. Bella, vado a registrare un pezzo con Nicki Minaj, un’altra che ora sembra una strafiga e tra due anni – mi darai ragione anche su questo – sarà scomparsa. Ma questa è un’altra storia, e adesso non c’ho tempo.

Quella sera ho mangiato uno degli hamburger più buoni della mia vita.
Di questa conversazione tra me e Justin Bieber sul molo di Santa Monica non ho mai parlato a nessuno prima d’ora.

Capitolo finale: Inside Justin Bieber

Mi chiedo: Justin Bieber voleva davvero fare il musicista? Insomma, il cantante. La popstar. Il «grande artista!», come lo annuncerebbero a una trasmissione italiana. Mi chiedo: ha mai imbracciato una chitarra (come fa sulla copertina del disco acustico che sto riascoltando durante questa scalata alle quindicimila battute) pensando, per un attimo precisissimo: «È questa la vita che sognavo da bambino», cioè tre anni fa?

L’ultimo capolavoro dei fratelli Coen s’intitola Inside Llewyn Davis (da noi appena uscito come A proposito di Davis). Mi domando se si possa scrivere un Inside Justin Bieber, un film altrettanto capolavoro sulla storia di questo adolescente nato a Londra, di nazionalità canadese, per tutti eroe sbarbatello del pop statunitense. A proposito di Bieber, non suona neanche così male.

Facciamo così, per finta. Il talent scout Scooter Braun, un nome a metà strada tra un motorino e un minipimer, non l’ha scoperto nel 2008 guardando un video che il nostro giovinetto già avvezzo ai palcoscenici aveva caricato su YouTube. (Il motorino-minipimer è tutt’oggi il suo produttore, plurimiliardario di conseguenza.) Facciamo così, per finta. Le cose sono andate in quest’altro modo.

È stato Justin Bieber a presentarsi davanti a Braun con la chitarra in mano, pronto a suonare, come Llewyn Davis che se la carica in spalla e va in autostop fino a Chicago da Bud Grossman, titolare di un club di successo che lancia promesse del folk anni Sessanta (segue scena più struggente di tutti i tempi, la stessa scena struggente che sto scrivendo ora per Inside Justin Bieber). Justin Bieber fa esattamente la stessa cosa, nell’ormai lontanissimo 2008, perché ha voglia di farla. Vuole suonare a tutti i costi, vuole diventare a tutti i costi il cantante che è diventato.

Ecco che si siede di fronte al suo Bud Grossman, e attacca uno dei suoi pezzi accompagnandosi con la chitarra. Boyfriend, o As Long As You Love Me, o Beauty and a Beat – eccoli, i titoli (la mia preferita è She Don’t Like the Lights, so che v’interessava saperlo). Bud/Scooter lo ascolta, il volto che non tradisce un’emozione, sarà un sì o sarà un no?, alla fine le sue parole suonano più o meno così: sei bravino, ma non so se un solista come te oggi potrebbe funzionare. Come da sceneggiatura dei fratelli Coen. Hai presente quel gruppo inglese, come si chiamano, One Direction? Ecco. Avevo in mente di combinare una cosa simile anche qua. Le boy band erano morte e sepolte, e invece guarda qua, questi macinano miliardi, io voglio fare la stessa cosa, voglio fare gli stessi miliardi. Poi, se ti va bene, tra qualche anno potrai fare il solista pure tu. Come Justin Timberlake con gli ’N Sync. Vi chiamate pure uguale. Che ne dici? Ti ci vedrei bene, in una nuova boy band, magari nel ruolo del ragazzetto del coro col faccino pulito che però cede a qualche colpo di testa ogni tanto. Ho già in mente i servizi che possiamo organizzare, ho un amico bravissimo in ’ste cose. Pensaci.

E Justin Bieber dice a Scooter Braun che no, lui a entrare in un gruppo non ci pensa proprio, lui vuole fare il solista o niente. Justin Bieber vuole suonare a tutti i costi, vuole diventare a tutti i costi un cantante. Inside Justin Bieber: in quel momento struggente capiamo anche noi che è così.

Penso: e se le cose fossero andate veramente in questo modo? In un’immaginaria Chicago, o in qualunque altro posto, dentro un club vuoto, le sedie girate sopra i tavoli, la luce che taglia l’aria. Penso: e se Justin Bieber avesse davvero suonato la sua canzone più giusta, la canzone perfetta (a questo punto concedetemi She Don’t Like the Lights, a questo punto se devo immaginare voglio che ci sia la mia preferita)? E poi pausa, silenzio, fine.

Justin Bieber saluta il suo Bud Grossman, si carica la chitarra in spalla ed esce nella neve di Chicago o di qualunque altro posto. Se ne va così, a piedi, le scarpe fradice di ghiaccio sciolto, lì nel suo bozzolo di adolescente con un sogno più grande del successo facile, dei tatuaggi fatti male, dello Xanax, del sorriso rivolto a un agente di polizia pronto a scattare la foto. Più grande dell’icona. Una figurina piccola piccola, che piano piano scompare.