Attualità

A lunch with Paolo Filo della Torre

Un ricordo del genius loci degli expat italiani a Londra, corrispondente storico e fondatore di Repubblica: Paolo Filo della Torre. Il racconto di una giornata in sua compagnia nel suo esclusivissimo club, il Garrick.

di Michele Masneri

È scomparso il 9 marzo, a 80 anni, Paolo Filo della Torre, “decano dei giornalisti italiani” a Londra, uno degli otto fondatori di Repubblica, rinomato gentleman. Questo articolo di Michele Masneri apparso su Studio numero 9 nel luglio 2012 racconta di una giornata passata in sua compagnia al celebre ed esclusivissimo Garrick Club londinese (di cui Paolo era habitué).


Mentre aspetto Paolo Filo della Torre davanti alla National Portrait Gallery, dove abbiamo appuntamento una mattina semi-assolata di giugno per vedere insieme la mostra sui ritratti della regina Elisabetta, ho la possibilità di assistere a un Vero Ingorgo Inglese: il traffico, da Charing Cross Road e dallo Strand, è completamente paralizzato, i veicoli non si muovono per più di tre quarti d’ora. La cosa surreale, venendo da Roma, è che in 45 minuti non si sente neanche un clacson. Tutti fermi, immobili, nessuno impreca, nemmeno un tamarro che guida uno dei numerosissimi camioncini di plumber, e che ascolta musica anni Novanta tipo New Kids on The Block a un volume spropositato. Nell’indifferenza degli altri, e non pensando nemmeno a fare qualche furbata da pilota all’italiana. Fermo, con la sua musica cafonal, e tutt’intorno il silenzio: mentre intanto passano frotte di studentesche a visitare questa mostra dedicata alla Regina: e gruppi di bambini deliziosi nelle loro uniformi (c’è la scuola ebraica, c’è la scuola cristiana, ci sono blazerini e felpette sopravvissuti a qualunque riforma scolastica, tutti entusiasti di andare a vedere la mostra della sovrana più pop della storia).

Per incontrare Filo, gentiluomo napoletano per oltre quarant’anni corrispondente di Repubblica da Londra, nonché intimo della famiglia reale e genius loci degli expats italiani nella city, si era posta subito una questione d’abito. Saremmo andati poi a colazione nel suo club, che poi è il Garrick, forse il più illustre di quelli londinesi vietatissimi alle signore, presieduto dal duca di Edimburgo, dove lo stesso duca, insieme al principe Carlo, si reca spesso. Dunque naturalmente cravatta, ma niente Regimental, poiché ogni club ha le sue righine, e qui si rischiano situazioni surreali, come essere fermati da qualche vecchio don di Oxford che ti riconosce come suo compagno di canottaggio ed esige giustamente spiegazioni: la cravatta del Garrick, per esempio, è rosa a righine verdi (anzi “salmon pink and cucumber green”). Altro problema, il sopra, perché le previsioni davano brutto e freddo; si era scartata  – per insicurezza – l’ipotesi di un vecchio Barbour consunto verde dei tempi del liceo; Filo arriva invece, scusandosi molto per l’ingorgo, con un impeccabile Barbour verdone sbrindellato e una cravatta bordeaux con dei disegni di ferri di cavallo (su cui mi interrogherò per tutta la colazione). Paolo Filo della Torre è un’istituzione: gran frequentatore di Buckingham Palace e della season: invitato al Royal Wedding e al Royal Pageant (la grande regata celebrativa di questo Diamond Jubilee) insieme ad altri due soli italiani ammessi a Corte, i fiorentini Vittorio e Bona Frescobaldi. Per qualche anno è stato anche Lord Mayor of Westminster, una di queste cariche stranissime inglesi – mi spiega che essendo fidanzato con una signora che è stata sindachessa onoraria di Westminster, a lui spettava di diritto il titolo. E ad aprile, per un pranzo qui al Garrick col principe Filippo c’è stato un bel duetto: «Lei è il principe consorte, io il conte consorte». Anche in quell’occasione, che pure era dedicata al giubileo di Diamante, con un centinaio di ospiti attorno al presidente onorario, il duca di Edimburgo appunto, la Regina non ha potuto mettere piede al Garrick, perché qui le signore possono entrare solo in alcune stanze, come la foresteria e il bar (e qui, solo da un anno a questa parte, per decisione della Corte suprema inglese; prima neanche). Al bar, Filo va diretto al bancone – sono le dodici – e non possiamo che condividere la celebre massima di Kingsley Amis, secondo cui “shall we go straight in”, cioè andiamo direttamente in tavola (senza drinks preparatori) è la frase più deprimente dell’intera lingua inglese – chiedendo semplicemente «Two glasses» – al barman (italiano), che risponde: «Champagne?» – Risposta: «Of course». E poi ci andiamo a sedere in una grande e magnifica sala di lettura con le nostre flûte in mano, passando da una scalinata di legno con magnifici ritratti: sono un migliaio, perlopiù ritratti di attori celebri dell’Ottocento (una sorta di Dagospia d’epoca) perché il club fu fondato nel 1831 dal duca del Sussex in onore di John Garrick, il più grande attore shakespeariano del Settecento. In passato, sono stati soci quindi tutti i più grandi attori britannici (tra cui Laurence Olivier e John Gielgud) ma anche scrittori come Charles Dickens, William Makepeace Thackeray, Anthony Trollope, H.G. Wells; e celebrità varie come Noël Coward, e oggi Roger Moore, ma comunque tutte legate al mondo dello spettacolo o delle lettere o della carta stampata, perché se ogni club ha la sua specializzazione questo è quello degli attori e dei giornalisti: e siamo del resto a poche centinaia di metri da Fleet Street, la strada del Times e dei grandi quotidiani.

L’originale regola del club del 1831, anno di fondazione, era «that it would be better that ten unobjectionable men should be excluded than one terrible bore should be admitted».

Ci sono anche molte statuette, miniature, ventagli, in apposite piccole bachechine: doni degli stessi soci negli anni. E una grande biblioteca. Intorno a noi, gentiluomini che bevono e conversano (ma assolutamente non al cellulare, vietatissimo in tutto il club, c’è un telefono a gettone nell’atrio). Anche in questo gentleman’s club, vige il sistema della palla bianca e di quella nera (la prima sanziona l’ammissione, la seconda la bocciatura) dei nuovi membri, e l’originale regola del 1831, anno di fondazione, era «that it would be better that ten unobjectionable men should be excluded than one terrible bore should be admitted». Oggi i soci sono circa 1.300, tra questi Lord Richard Attemborough (il regista di Gandhi) e diversi principi della famiglia reale saudita, e per tutti appena varcato l’ingresso del palazzetto al 15 di Garrick Street c’è una rastrelliera per inviti e lettere che qui vengono recapitati, e l’occasionale visitatore può spiare con spirito da voyeur. Filo è naturalmente l’unico socio italiano, non ne era membro neanche Luigi Amaduzzi, indimenticato rappresentante diplomatico qui a Londra, da poco venuto a mancare, e che lui rimpiange; apparteneva invece all’Athenaeum («però con lui fumavamo nei weekend di campagna certi sigari cubani che Fidel Castro mandava al Quirinale con regolarità da molti anni. Da quando aveva conosciuto in una famosa visita in Italia del novembre 1996, Marianna Scalfaro. Ne era rimasto molto molto colpito, e da allora inviava regolarmente sigari, che al Quirinale nessuno fumava, e venivano inviati per corriere diplomatico all’ambasciatore Amaduzzi a Londra»). Londra del resto è sempre stata sede ambita destinata ai nostri migliori rappresentanti: da Nicolò Carandini, che arriva alla fine della seconda Guerra mondiale, con il Governo britannico più che mai ostile all’Italia dell’entrata in guerra a fianco della Germania; mandato in virtù del suo aplomb e del suo stile più inglese degli inglesi. E qui, come racconta Edgardo Bartoli nel bellissimo Milord, Avventure dell’anglomania italiana, Neri Pozza (Bartoli, corrispondente del Corriere da Londra, e poi grande inviato di Repubblica, altro amico rimpianto di Paolo Filo), viene accolto con sospetto da inviati volutamente di secondo piano del ministero degli Esteri britannico che quando si trovano al cospetto della signorilità, dell’altezza e del chiarore di occhi e carnagione del patrizio italiano, attendendosi invece qualche simil-pizzaiolo imbrillantinato, esclamano una frase che rimarrà mitica: «Impossible!». Poi naturalmente Boris Biancheri, diplomatico e scrittore, nipote di Tomasi di Lampedusa che a sua volta era nipote di un altro importante ambasciatore a Londra, Tomasi della Torretta (poi presidente del Senato).

Naturalmente il Garrick è una summa di britishness che passa anche per eccentricità strepitosamente insulari: al pianterreno, poco dopo la reception e un corridoietto scricchiolante dove depositare bastoni, ombrelli, luggage, una porta a vetri a molla immette in un grande locale arioso che solo in un secondo tempo si capisce essere il restroom (naturalmente, vietato chiamarlo toilet), con dettagli magnifici – spazzoline per le scarpe Kent, water navali o da sommergibile, e poi molti signori che entrano ed escono molto disinvolti dalla porta a molla tipo saloon, e conversano amabilmente tra molti jokes tirandosi fuori tutto un po’ davanti a tutti, facendo la pipì mentre sorridono e ascoltano e chiacchierano, e forse anche dirigendo il getto un po’ sui piedi del vicino che però non protesta perché abituato e a sua volta concentrato su altro – e poi fuori, verso il ristorante, forse senza neanche lavarsi le mani. Qui il maître (italiano), viene subito a omaggiare “il conte”, che chiede subito se c’è della cacciagione. Si prendono allora delle carni succulente e con una magnifica béarnaise, il tutto servito nei piatti di porcellana del club con il suo motto stampato sopra “All the world is a stage”, perché siamo tra gente di teatro – così come sui calici di cristallo. Dei ferri di cavallo della cravatta del mio ospite non c’è traccia. Perdura il mistero.

Il tutto è servito nei piatti di porcellana del club con il suo motto stampato sopra “All the world is a stage”, perché siamo tra gente di teatro – così come sui calici di cristallo.

Le posate d’argento lucide, invece non hanno stemma e vengono appoggiate su piccole tovagliette di lacca, quadrate, verdoni, grandi poco più del piatto, che poi una signorina biondissima e piccolissima (breve small talk tra il Conte Filo della Torre e la signorina: «Where are you from?»; «Leeds!»; «Lovely») viene a spazzolare e a togliere finito il lunch. Come antipasto ci sono degli asparagi, verdissimi, e buonissimi, su un lettino di sale grosso; violando tutte le regole internazionali li mangiamo col coltello. A sovrintendere alla sala il maître comanda implacabile squadroni di giovani velocissimi e bruttini con facce dickensiane e grandi speranze negli occhi, tranne uno bonazzo e altissimo che cammina piano, guarda tutti con aria superiore e si fa guardare da qualche vecchio lord, e dev’essere questo il suo compito, e sorride molto, e non fa altro, fiero di come gli sta l’uniforme bianca; come in un romanzetto d’Alan Hollinghurst, come nella migliore tradizione inglese.

Però dobbiamo parlare della famiglia reale. Ne avevamo già accennato durante la mostra. Soprattutto mi ero fatto aiutare da Paolo a decifrare un ritratto di famiglia molto allargata degli anni Settanta in cui la royal family posa un po’ smandrappata in un salone di palazzo, bambini con dita nel naso, signori seduti direttamente su una moquette, come in una pubblicità di nuovi ricchi  del Chivas. Soprattutto questo signore in dolcevita, molto lampadato, che avevo sospettato, e adesso Paolo me lo conferma, essere Tony Armstrong-Jones, poi Lord Snowdon, già marito della “povera Margaret”, sorella sfortunata e vivace di Elisabetta; a sua volta fotografo reale e “molto ambidestro”. È ancora vivo anche se non sta molto bene, dice Paolo, «ma se vieni la prossima volta andiamo a colazione insieme e te lo presento».

Filo ha esordito a Londra come studente alla (non lontana da qui) London School of Economics: poi non se ne è più andato: prima con un incarico all’Ambasciata d’Italia, poi come corrispondente free lance del 24 Ore (non ancora fuso col Sole) e infine come “ambasciatore” di Rep., di cui è anche uno degli otto fondatori. Ma prima ancora come inviato di Cavallo: e l’equitazione rimane una delle sue grandi passioni: non solo ad Ascot, dove naturalmente è invitato nel Royal Enclosure, ma anche a Roma alle Capannelle. E l’equitazione è stato naturalmente un buon asset agli esordi con Sua Maestà: la prima volta che le venne presentato, invece di qualificarsi come corrispondente del 24 Ore, si disse sapientemente in ruolo a Cavallo. E la sovrana gli chiese molte informazioni su alcuni purosangue di comune conoscenza, incroci, pedigree, stalle, soffermandosi molto più a lungo che con colleghi all’epoca più prestigiosi (lui in cambio poi ha scritto un bel libro anni fa su di lei che è stato anche un bestseller, Elisabetta II, la donna e la regina, negli Oscar Mondadori, con in copertina il ritratto di Dorothy Wilding in mostra qui alla National Portrait Gallery).

Filo ha esordito a Londra come studente alla (non lontana da qui) London School of Economics: poi non se ne è più andato: prima con un incarico all’Ambasciata d’Italia, poi come corrispondente free lance del 24 Ore (non ancora fuso col Sole) e infine come “ambasciatore” di Rep., di cui è anche uno degli otto fondatori.

In questi giorni si discute invece molto dei malanni del Duca di Edimburgo: che a novant’anni suonati, entra ed esce dagli ospedali per problemi cardiaci; che qualche giorno fa all’ennesima parata per il giubileo ha dato forfait facendosi sostituire (con grande delizia dei media) da Kate, Duchessa di Cambridge. Paolo sospetta che fosse semplicemente stufo, e si è dato malato, perché lui è uno così. Così come? Ma poi soprattutto gli espongo il dubbio che mi attanaglia: sarà stato davvero lui a ordire la micidiale trama per far fuori Diana? Filo avanza una tesi originale, secondo lui effettivamente quello del tunnel dell’Alma potrebbe non essere stato un incidente, e i Servizi (ma non quelli inglesi, forse piuttosto quelli americani) c’entrano qualcosa: ma non tanto per questioni di sciovinismo – come il fatto che la madre del futuro Re d’Inghilterra nonché Defender of the Faith potesse dare alla luce un musulmano marmocchio. Quanto perché Dodi al-Fayed (cui già prima della triste faccenda non era mai stata concessa la cittadinanza britannica,  e che oggi ha venduto Harrods e i suoi interessi a Londra e praticamente è stato messo al bando dall’Inghilterra) era – sostiene Filo – sostanzialmente uno dei più grandi mercanti d’armi internazionali, con un “giro” che avrebbe potuto ulteriormente allargare utilizzando connessioni reali.

Dunque Filippo non è stato mandante di un progetto efferato. Meno male: non si sarebbe accettato questo lato oscuro da quello che in fondo è uno dei personaggi più simpatici di questa soap opera che va in onda da sessant’anni con alti e bassi ma con grande, straordinario successo di pubblico e di critica. In fondo Filippo è anche lui in un certo modo un Kate Middleton ante litteram: certo, con sangue reale nelle vene, e non discendente di minatori. E però  al contrario di Kate, spiantatissimo; e che tutto deve al genio e alle ambizioni dello zio, Lord Mountbatten, ultimo viceré d’India nonché vittima successivamente dall’Ira, che tanto si è speso per presentare a Corte e alla piccola Elisabetta questo marinaio bellone di sangue tedesco senza una lira in tasca (come ricorda Filo, il padre era scappato a Montecarlo con una cocotte, dunque una storia tutta alla Max Ophüls, alla Lola Montès). Una vita avventurosa, quella di Filippo: nipote dell’ex re Costantino I di Grecia, arrestato insieme alla famiglia a Corfù nel golpe militare greco del 1922, per salvarlo venne mandata una nave da guerra britannica, la HMS Calypso, in cui il neonato fu calato in una cassetta della frutta. Poi spalla per tutta la vita di Elisabetta; della quale non si conoscono scarti alla regola, nemmeno in materia di fedeltà coniugale. Anche se negli ultimi mesi la Elisabetta-mania ha fatto riemergere l’ipotesi ormai archeologica di una torrida liaison (l’unica) della sovrana con il capo delle scuderie di palazzo, il settimo conte di Carnarvon, Lord Porchester (detto Porchy), maggior esperto di cavalli del Regno, che dal 1969 fu a capo delle reali scuderie – e che secondo le malelingue sarebbe anche il padre naturale del principe Andrea.

Per inciso, i Porchester sono anche i padroni (dal 1689) di Highclere Castle, l’abbazia del Berkshire dove viene girata Downton Abbey, la serie sull’alta società inglese divenuta di culto. E ispirata pure alla storia dei Porchester. Porchy, defunto nel 2001, aveva una moglie americana del Wyoming, e oggi l’attuale contessa sua nuora, lady Fiona (che al Telegraph ha confessato, citando forse involontariamente il Gattopardo, che «se sai quante stanze hai non puoi dire di avere una casa veramente grande») ha scritto un libro, in vendita su internet insieme a tutto il merchandising del casato, che dimostra come la storia di Downton derivi dal matrimonio di convenienza – poi trasformatosi in vero amore come quella tra lord e lady Grantham – tra lady Almina de Rothschild, figlia illegittima ma molto liquida del banchiere Alfred  e lo squattrinato 5° conte di Carnarvon, George Edward Stanhope Molyneux Herbert. A Highclere (divenuto a fine ‘800 luogo di supreme eleganze e joie de vivre, tanto che Evelyn Waugh di cose molto cool aveva coniato la definizione di “very Highclere”) non ci sono solo le storie inventate da Julian Fellowes (sceneggiatore della serie, oltre che autore di un perfido libretto come Snob), ma anche un piccolo museo egizio dato che sempre il V conte Carnarvon era anche lo scopritore della mummia di Tutankamon, nonché committente della villa Altachiara di Portofino, quella dei conti-elicotteristi Agusta. Fine dell’inciso: ma la vulgata vuole che nell’unica grande crisi matrimoniale tra Elisabetta e Filippo, nel 1960, Porchy abbia avuto un ruolo non secondario. Erano i tempi – documentati – in cui Filippo minacciò il divorzio perché stufo «di non poter dare il proprio cognome ai suoi figli», essendo la discendenza di Elisabetta condannata a chiamarsi Windsor (e poi, con piccola riforma costituzionale, Mountbatten-Windsor, ma solo per i discendenti non HRH). Sarà vera questa storia? Filo è possibilista. Comunque Hugh Boneville, l’attore protagonista di Downton Abbey (interpreta Lord Grantham), è socio qui del Garrick e l’estate scorsa si era anche candidato alla presidenza, ma senza successo.

A proposito di Carlo: Filo è naturalmente carlista perché la persona, dice, è assolutamente molto meglio della sua fama. Bravo papà, soprattutto lodevoli tutte le sue battaglie, per prima la lotta senza quartiere alle archistar che stanno deturpando la City.

Oggi però alla tavola dei soci non c’è: questo è un lungo tavolone centrale da mensa di frati a cui i soci quando non hanno ospiti sono tenuti a desinare, aggiungendosi dall’estremità sinistra a quella destra riempiendo mano a mano tutti i posti. Ci si siedono sempre, mi dice Filo, sia il principe Filippo che Carlo. A proposito di Carlo: Filo è naturalmente carlista perché la persona, dice, è assolutamente molto meglio della sua fama. Bravo papà, soprattutto lodevoli tutte le sue battaglie, per prima la lotta senza quartiere alle archistar che stanno deturpando la City – Carlo è infatti odiatissimo da chi lamenta le sue ingerenze nei progetti urbanistici. Per esempio si è scagliato molto contro l’effettivamente incongruo pisellone di Norman Foster, e chissà cosa dirà adesso circa la “scheggia” di Renzo Piano. Carlo è anche il primo laureato della famiglia; e forse per questo è visto con tanto sospetto. (Filo sta invece pensando di scrivere un libro sul perché la monarchia britannica sia meglio della repubblica italiana. Non sembra una tesi contestabile).

 

P.S. Con Filo ci vediamo dopo una settimana, mi chiama, è a Roma, e mi invita a colazione insieme a un’amica simpatica al Circolo della Caccia, famoso per richiedere quattro quarti di nobiltà all’ammissione («il mio amico Rospigliosi è molto severo» – dice) e  per aver respinto Paul Getty con biglia nera. Si arriva nel mirabolante palazzo Borghese appena restaurato in una luce accecante di fine giugno, con quaranta gradi fuori, prendiamo l’ascensore ellissoidale con divanetto di pelle d’epoca e saliamo al secondo piano, sopra l’ambasciata di Spagna, dove un cameriere in polpe ci fa strada fino al “signor conte”, e mentre andiamo da lui in una miracolosa aria condizionata, dall’alto ci sorridono le aquile e i draghi Borghese ma anche i ritratti autografati di tutti i reali che son stati qui in visita, e quindi soprattutto anche Carlo e Filippo da fotografie in cornici con coroncine. Poi si vede lo stemma del circolo, ecco il ferro di cavallo della cravatta di Filo. Mistero risolto. Colazione fantastica, anche qui, e poi caffè sotto i cassettoni dorati, e anche  questa volta non si vorrebbe più andarsene. Attenzione, perché frequentare club può dare dipendenza.

 

Dal numero 9 di Studio

Caricatura di Giorgio di Salvo