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8 libri per sconfiggere lo snob che è in te

Parlare male di un libro che in realtà ci è piaciuto. Qui alcuni libri di cui iniziare, finalmente, a parlare bene per fare coming out.

di Arnaldo Greco

Un amico dice che quando dovranno catalogare questi anni della narrativa italiana non troveranno nulla di condiviso. Nessuna adesione a uno stile, nessuna passione comune per un certo argomento. Solo un aspetto marginale terrà assieme questo decennio: parlare male in privato di libri di cui poi parlare bene in pubblico.

Non so se sia vero – tuttavia il tema del fingere che ci sia piaciuto un libro che in realtà non ci è piaciuto meriterebbe davvero un lungo trattamento – ma a me pare che, più piccina, esista pure una tendenza a dire che sono brutti alcuni libri che in realtà ci sono piaciuti. E mi incuriosisce di più. Parlo di libri che fa molto più fico e sofisticato deridere, ma che poi, nell’intimo, quando riesci a dimenticare il nome dell’autore, o ciò che comporterebbe dire la verità all’aperitivo e sui social, sei in grado apprezzare con serenità.

1. Il Piccolo Principe

Visto che dal primo gennaio non è più protetto dal diritto d’autore e, in più, in autunno uscirà anche il film, prevedo un 2015 di disprezzo particolarmente diffuso per questo «ometto francamente insopportabile» come ebbe a definirlo Carlo Fruttero in quella che resta la più nota demolizione del Principe: «è triste, piagnucola; tutta questa sapienza si riduce al concetto che i bambini sono migliori dei grandi, vedono l’invisibile, accettano tranquillamente i miracoli e trovano assurdo e ridicolo il mondo di noi adulti. Capirai che scoperta; ci vedo il discount, nel suo Piccolo Principe. Milioni e milioni di barattoli di melassa disponibili negli anni per l’acquirente che vuole sentirsi quel lirico saporino in bocca».

D’accordo. Le ragioni di Fruttero sembrano inattaccabili. Però, a parte che la possibilità di fare provocazioni dovrebbe essere limitata per legge a chi può permettersele, ma poi è davvero così terribile? Se non fossimo circondati da pubblicità di multinazionali con figli che corrono coi genitori nel grano e sottofondo di musica classica; video di handicappati improvvisamente aiutati da tutto il condominio; bambini sordi che a due anni ascoltano un suono per la prima volta e piangono, giustamente, potrei anche capirlo. Ma Il Piccolo Principe non ha praticamente già stravinto col nostro appoggio? Tra la pubblicità del Samsung e Saint-Exupéry non è ancora meglio il secondo?

2. Siddharta

Quelli che credono sia vero che la propria grandezza si misuri dalla grandezza dei propri avversari amano deridere il genere “libro sapienziale” perché, in fondo, è un po’ come bestemmiare, ti fai beffe di Dio e lui non può dirti niente. Poi Siddharta è lì inerme, che non si difende, che si vanta di non difendersi, e quello dà ai nervi. Te lo sa tirare proprio fuori il disprezzo. Vale lo stesso discorso per Tagore, per Gibran, per Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Lo Zen e il tiro con l’arco, Un altro giro di giostra e ogni altro libro sapienziale, tra l’altro tutti anche tremendamente colpevoli – l’orrore, l’orrore – di vendere parecchio. In realtà questi libri sono davvero come Siddharta, cioè sanno aspettare pazientemente. Si fanno da parte e si fanno prendere per il culo. Tanto sanno che prima o poi nella vita quel momento di smarrimento ti capiterà e loro saranno lì a blandirti. A darti quella frasetta sull’amicizia, sull’accontentarsi, sulla rassegnazione pacifica così rassicurante che in un niente ti avranno fatto, di nuovo, loro.

3. Tokyo Blues. Norwegian Wood

Più riabilitiamo l’infanzia, i ricordi, anche i rullini delle foto e persino la merce che ci rifilavano, più ci fa schifo l’adolescenza, gli anni in cui siamo stati teenager. Nell’odio proprio viscerale per ciò che siamo stati finiscono anche i libri che amavamo allora. Quelli che mettevano tra i libri preferiti nelle nostre descrizioni in chat (c’è anche questo di cui vergognarsi, sì). Metto perciò in lista Tokyo Blues in rappresentanza di libro che piace da matti a 18 anni e che dopo diventa opportuno vergognarsi ci sia piaciuto.

Così tocca evitare gli amici dell’adolescenza e ricostruirsi un proprio fantasioso passato. Ci si guarda attorno, si verifica bene che non ci sia nessuno che ti ha sentito magnificarlo quindici anni fa e avutane la certezza, si va giù duri. Con espressioni inorridite e sarcasmi su Murakami come giapponese d’esportazione: è come la Vallelata, ti piace fin quando non scopri la vera mozzarella di bufala, cioè xxx (mettete il nome che preferite, io non mi azzardo a paragonare Mishima alla mozzarella).

4. Lezioni Americane

Uno dei migliori Momenti di trascurabile infelicità è «Quando qualcuno alla parola leggerezza, mentre spero che non lo faccia, fa seguire automaticamente la parola: calviniana». Mi ha fatto subito pensare che mentre Fellini era così contento, dagli torto, di felliniano «avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo», calviniano suscita tanti pruriti. Ovviamente non per colpa di Calvino ma di chi usa “leggerezza calviniana” con gli stessi scrupoli con cui adopera la crema per le mani secche. Cercando “leggerezza calviniana” su Google, infatti, appaiono le più impensabili occorrenze. Allora scatta la gelosia da primo disco di una band. Quella per cui dici che quel gruppo lì era avanguardia culturale solo fin quando lo ascoltavi tu e altri dodici, ma ora che lo può citare perfino un politico rispondendo a una domanda sul pantheon della nuova destra, ora che lo studiano a scuola, è solo commercio. Poi, quando hai finito di dirlo, torni in macchina a casa ascoltandolo a tutto volume.

5. Gomorra

Ogni tanto mi capita una certa situazione. Quando conosco qualcuno e gli dico che sono di Caserta e ho lavorato a una trasmissione Tv con Saviano, lui ci tiene a darmi la sua opinione sul programma in questione e su Gomorra. Mi sono sempre chiesto il perché. A me non verrebbe mai in mente di dire a qualcuno che lavora per la Galbani, sai che il Belpaese mi fa cacare?; o a un tizio che lavora per Fiat che non comprerei mai una delle loro automobili perché le rubano. E non per buona educazione, giusto perché, più semplicemente, chissenefrega. Gomorra ha quella maledizione lì. Non si può mai dire perché sia bello, al massimo che ha venduto tanto come se le due cose coincidessero. Ma in ogni manifestazione pubblica, dall’intervista al quotidiano, alla presentazione in libreria di Storie pazzeschissime di cammorristi si deve dire che però Gomorra, e che però Saviano… Poi chiedi, ma com’è stata la prima volta che hai letto Gomorra e tutti “folgorati”. Un secondo dopo, “però Roberto…”. E si ricomincia.

6. I barbari

«Si aggirano nel salotto letterario, incantando il loro uditorio con la raffinatezza delle loro chiacchiere, e poi, con un’aria un po’ infastidita, lasciano cadere lì che lo champagne che stanno bevendo sa di piedi. Risatine complici dell’uditorio, deliziato. Io sarei lo champagne». Scriveva Baricco di se stesso senza poter ancora sapere che quando avrebbero inventato i social network lo schema sarebbe stato simile.

Lì almeno Baricco alludeva a critici con una qualche affermazione. Oggi lo schema prevede che chi è in cerca di legittimazione lo insulta. La specificità di Baricco è, però, un’altra. Vorrei tanto che un giorno esistesse un algoritmo in grado di dimostrare che nel 90% dei casi gli odiatori di Baricco sono esattamente dei Baricco wannabe. Del Baricco dei Barbari soprattutto. La stessa superbia, curiosità per il futuro, passione per l’imprenditoria e insolenza solo amalgamate senza lo stesso appeal. Infatti lo vedi il detrattore di Baricco che deride Baricco e poi nei dieci status successivi ti consiglia i libri degli amici di Baricco, vota l’amico di Baricco, esalta gli imprenditori che si fidano di Baricco, esalta i conti in banca di chi ce l’ha fatta, quindi pure Baricco. Insomma, lo so che lo sentite che è ormai nella fase “venerato maestro”, vi tocca solo accettarlo.

7. Harry Potter

Non si può più dire sinceramente che ti piacciono i blockbuster perché va di moda dire che piacciono i blockbuster. Quindi se ti piace Harry Potter è inevitabilmente ah sì, ho capito il suo gioco, fa l’ultrapop, dice che gli piace Harry Potter. E niente, non puoi insistere, o provare a convincere qualcuno che ti piace davvero perché ormai credono di averti sgamato. Allora le soluzioni sono due, o trasformarsi in fanatici: Harry Potter lo adoro, ho avuto dei figli solo per leggergli Harry Potter, il mio luogo del cuore è il binario nove e tre quarti della stazione di Londra, sono un nerd di Harry Potter o fingere che di Harry Potter non ce ne freghi granché. In questo modo l’interlocutore potrà, indisturbato, sperticarsi in lodi assolute che nella stragrande maggioranza dei casi coinvolgeranno Shakespeare, Barrie e l’angelicalizzazione di J.K. Rowling.

8. Il trono di spade

«Mi piace, anche se è un libro di genere». Ecco. Anche come esercizio di autocoscienza, occorre uno sforzo di editing di se stessi. «Mi piace». Punto. Senza la limitazione dell’anche se (che fa molto Biagio Antonacci, poi). Può piacere. Anche un libro di genere, ammesso che significhi ancora qualcosa, può piacere e basta. Senza che sia necessario ridimensionarlo. Non c’è niente di male. Non vi buttate giù. «Io leggevo Il trono di spade da prima che ci facessero la serie Tv e mi piace». (Poi qualcuno vi dirà comunque “anche se” ma quello è inevitabile).

 

Nell’immagine in evidenza, Gatsby fa lo snob in piscina nel 1974