Attualità

In difesa di 1993

In un cinema italiano quasi sempre ripetitivo, la nuova serie «da un'idea di Stefano Accorsi» dimostra di voler raccontare una storia più grande e complessa.

di Mattia Carzaniga

Ci piacciono i processi a O.J. Simpson. Ci piacciono Bette Davis e Joan Crawford che bisticciano sul set. Ultimamente ci piacciono moltissimo le serie che raccontano la storia come vogliono loro, quelle che mettono insieme realtà e romanzo, e poi diciamo “ma allora è andata proprio così”, anche se sappiamo che probabilmente no, solo ci piace crederci. Sono bravi a convincerci di quello che a scuola non ci è stato insegnato, a margine delle noiosissime ore sul Manzoni: il verosimile è meglio della verità. Però ci piacciono le serie degli altri, “sono fatte meglio”, e sarà pure vero. Vale come premessa per costituirmi da subito: sì, a me piacciono tutti questi titoli (per capirci, le prime stagioni di American Crime Story e Feud) e mi piace pure 1993. E mi piaceva 1992. E insomma continuerò a sedere sul banco della difesa, nella grande class action contro la serie nata da un’idea di Stefano Accorsi (e giù a ridere).

1993, da questa sera su Sky Atlantic, riparte laddove s’era interrotto il precedente, anzi giusto pochi mesi dopo. Il prologo è il lancio delle monetine contro Craxi fuori dall’Hotel Raphaël, era il 30 aprile. Il punto principale della mia arringa in tribunale sarà: essere capaci di rendere telegenica la pelata di Bettino, di trasformare quei pochi minuti nel perfetto avvio di un action politico, di farti pensare che forse anche noi abbiamo qualcosa da raccontare, ecco tutto questo mi sembra ancora un buon punto di partenza. Poi viene il resto. A molti di voi non piacerà, già vi sento. C’è la diretta di «Milano, Italia» con un finto Gad Lerner (ma la voce è di quello vero) che intervista i leghisti. C’è Gianfranco Miglio sulle scale del Parlamento («senti come parla difficile, è per questo che lo chiamano l’ideologo del partito», dicono i colleghi venuti giù dalle valli). C’è un giovane Massimo D’Alema (lo interpreta Vinicio Marchioni) nei flashback bolognesi in bianco e nero, quando cercava di tenere a bada gli studenti teste calde. C’è di nuovo Marcello Dell’Utri, e anche il suo gemello. C’è, soprattutto, Silvio Berlusconi (Paolo Pierobon, immenso), che sonda gli eventuali numeri di un eventuale partito, corre con la tuta bianca nel parco di Villa San Martino, fa battute sessiste sulle mogli degli altri. C’è la commedia umana, quella che ci siamo meritati e che ci meritiamo ancora, e c’è la grande bellezza, e Roma che però fa (faceva già) schifo, e le ragazzine di Non è la Rai, e i cantieri milanesi messi sotto sequestro da Tangentopoli, e il segno viola attorno ai sieropositivi, e il Bagaglino, saluti e baci per dirti che ti penso e che mi piaci.

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Ci sono le tante (troppe?) sottotrame private, tutti i protagonisti che scopano tra loro e lì un po’ davvero non ci credi, qualche coincidenza è un po’ forzata ma a un certo punto chi se ne frega, ci siamo bevuti di peggio. C’è Leonardo Notte (cioè Accorsi) con certi fantasmi edipici forse troppo facili, e Veronica Castello/Miriam Leone che tira di coca e sogna il Maurizio Costanzo Show: non spoilero (non sia mai) il finale della seconda puntata, dico solo che si intravede persino la nuca di Maria De Filippi. C’è Tea Falco che adesso la fanno parlare pochissimo, ma nei panni della rampolla milanese per me continua a essere perfetta, al mio liceo le palincule erano fatte esattamente così. C’è un occhio preciso su quegli anni precisi che è un po’ come Francesco Vezzoli che guarda la Rai dei Settanta nella sontuosa mostra da poco inaugurata alla Fondazione Prada di Milano. Che è imperfetta, ma arriva dritta al punto: consegnare il quadro caotico e sgangherato di quello che siamo stati per un momento.

C’è la voglia di raccontare qualcosa di più grande del solito, di più complicato, di più difficile, di più coraggioso, che non è così scontata dalle nostre parti. Sono il più severo che conosca, in materia di cinema italiano. Anche perché, a differenza vostra, i film italiani io li vedo tutti. Nessuno escluso. È la mia specialità olimpica. Negli ultimi mesi ho registrato il ritorno di una moda che sembrava dimenticata: l’Urgenza e la Necessità che restano tutte sulle carta (e nelle recensioni di qualche amico critico), il racconto delle periferie disagiate sempre pietista (anche perché operato quasi sempre da registi borghesissimi: poveri cristi di borgata, costretti a decolorarsi i capelli), l’impegno civile solo se dolente. Sono film che incassano poco o niente, ma a quest’ultimo giro è andata male pure alla commedia, che sembra sempre l’investimento sicuro e invece – che scoperta – di Checco Zalone ce n’è uno solo. Sono il più severo che conosca, non difendo 1993 per capriccio. In questo annaspare di racconto e di racconti, ritrovo fiducia nelle nostre (caotiche, sgangherate) possibilità: allora anche noi abbiamo qualcosa da dire e quando vogliamo lo sappiamo fare. Poi litighiamo pure, perché no, finalmente c’è una serie su cui farlo: anche questo, dalle nostre parti, non è scontato. Ma se vi va bene solo la fiaschetta di Joan Crawford perché si porta meglio in società, allora ve lo meritate davvero, il cinema italiano.

Immagini courtesy Sky