Attualità

† 2.0

Fotografie, articoli, status, tweet. Cosa rimane della nostra (massiccia) presenza online quando moriamo, e soprattutto chi può disporne?

di Davide Coppo

Finché morte non ci separi. Dalle nostre email, dalle nostre foto Instagram, dai nostri commenti sagaci sulla finale di X-factor, ovviamente.
Il punto non è che la vita si stia spostando su internet, quanto piuttosto che internet sia diventato parte normale della vita. Ciò che non è tangibile (una proprietà, un diario, un account, persino un’amicizia) è posto sullo stesso medesimo piano di dignità e “serietà” di ciò che è oggetto solido, fisicamente presente nel mondo sensibile. Dunque è il caso di pensare, nell’eventualità di una nostra dipartita futura prossima o remota, a chi indirizzare non soltanto il nostro taccuino, il nostro libro nel cassetto, la nostra automobile o il nostro orologio preferito, ma il nostro account Facebook, le nostre testimonianze Canon Eos su Flickr, la nostra villetta con steccato bianco di Second Life. Ancora più importante, è il caso di pensare a chi impedirne l’uso, e a chi invece affidare l’accesso esclusivo delle tracce di noi che lasciamo online. O meglio, della parte online della nostra vita. Password e username sono le nuove chiavi e lucchetto.

Le lotte familiari dopo la morte del caro papà o del caro nonno passeranno anche online, a contendersi una password di Gmail o un blog, per, a seconda dei casi, proteggerlo, rinnovando costantemente l’abbonamento e tagliando l’erbaccia dello spam, o occultarlo, cancellandolo o rendendolo privato. Esistono decine di casi di controversie legate all’eredità virtuale di un defunto, ma ancora nessuna regolamentazione. Un caso esemplare fu quello di Mac Tonnies, raccontato dal New York Times Magazine nel gennaio dello scorso anno: blogger, scrittore, grande “assiduo” della rete, Tonnies era riuscito a creare negli anni con la sua attività – prevalentemente scrittura scientifica e fantascientifica – una discreta fan base di appassionati che costantemente discuteva con lui, o più semplicemente interagiva attraverso commenti e condivisioni. Uno di loro si chiamava Mark Plattner. Plattner non era un amico di Mac Tonnies, almeno non amico come lo si intende comunemente, nel mondo “qua fuori”. Si erano visti soltanto una volta, dodici anni prima della morte di Tonnies, rimanendo poi in contatto. Fu proprio Plattner a salvare il blog del defunto (si chiamava Posthuman Blues, guarda un po’) attraverso un software chiamato Sitesucker, che gli permise di creare un backup dell’intera creatura e salvarla su disco. Più tardi, quando i genitori di Tonnies iniziarono effettivamente ad utilizzare il computer del figlio – che avevano ricevuto, essendo i parenti più stretti, diretti eredi – si accorsero di qual era la popolarità online del figlio. Ne furono positivamente sorpresi, e positivo fu il giudizio dato all’impresa di salvare il suo blog (la madre non l’aveva mai letto, e ha iniziato con grande piacere a farlo dalla scomparsa del figlio in poi. Quando, letteralmente, impararono ad utilizzare internet grazie al laptop di Mac). Tutto bene, benissimo. Ma se i genitori non avessero voluto? Avessero preferito vedere Posthuman Blues distrutto? O se lo stesso Mac Tonnies avesse voluto distruggerlo?

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Negli Stati Uniti, precisamente nel Massachussets, il senatore Cynthia Creem sta cercando di portare chiarezza nei coni d’ombra della legislazione, con una proposta di legge (già presentata) che vuole dare agli esecutori testamentari il diritto di entrare nella casella email del caro estinto. «Se fosse una scrivania, avrebbero di certo il diritto di accesso. Non dovrebbero esserci differenza» è il (saggio) statement del senatore. Ma Google non ha mostrato di gradire, e ha annunciato che si opporrà alla legge – ed è probabile che anche le altre grandi compagnie non siano in prima fila ad appoggiare la proposta di Creem, considerata l’attenzione degli utenti, in special modo negli ultimi anni, a tematiche di privacy. La controversia alla base di tutto (verosimilmente quello che impedirà, ancora per molto, di riuscire a scrivere una legge che accontenti tutti, o quasi) sta nella valutazione di cosa può essere o non può essere un “lascito digitale”. Naomi Cahn, professore di legge alla George Washington University, spiega: «Non è soltanto questione di valore economico. Anche di valore emotivo, personale».

Certo non tutto quello che produciamo sul web può essere considerato come potenziale eredità – c’è davvero un po’ troppa roba: due miliardi di tweet al mese, 5 miliardi di foto su Flickr. E Facebook? Può essere considerato a tutti gli effetti come un diario (reale)? In realtà Zuckerberg ha dimostrato di aver preso in considerazione il problema qualche tempo fa, quando creò l’opzione “memorial”. Che però, più che un diario, diventa una sorta di lapide, di muro del pianto, in cui l’unica interazione possibile consiste nel lasciare un messaggio all’amico scomparso, mentre il profilo del defunto automaticamente alza delle barriere di privacy per limitare le visite di chi non è amico. Un cimitero vero e proprio all’interno del social network, considerato che si calcolano in 400.000 gli utenti che ogni anno passano a miglior vita.

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Al di là delle leggi, sono molte le app (o i siti, in generale) che già pensano a “dare una mano” nella gestione del sé online post-mortem. Ovviamente, senza alcun valore legale.
Per quanto riguarda la mera memoria cimiteriale, uno dei primi esempi di camposanto globale digitalizzato è rappresentato da cemetery.org, prodotto (come si evince dalla grafica) da medioevo digitale, progetto evidentemente fallito: una ricerca di tombe per nazione porta a soltanto due risultati in Italia. Più interessante è l’operazione di Lifenaut, sito che permette di creare un “mind file”, ovvero un “backup digitale della tua personalità”. Come funziona? Ci si iscrive, si inseriscono le proprie fotografie, video, ogni tipo di documento che ci riguardi e possa fornire informazioni sulla nostra personalità. Il programma poi crea un avatar del nostro volto, che come in una videochat su Skype ci guarda e interagisce (con il nostro carattere, cioè ciò che Lifenaut ha pensato di poter riprodurre deducendo informazioni sul nostro carattere), o meglio, guarda e interagisce con i nostri figli o amici o parenti sopravvissuti (l’aspetto più inquietante è il progetto BioFile, che funziona così: fai richiesta, ti arriva a casa un colluttorio, fai i gargarismi, sputi il colluttorio in un apposito vasetto, lo spedisci a quelli di Lifenaut, loro estraggono il tuo dna e lo criogenizzano per clonarti appena sarà possibile).

Ma concentrandoci più strettamente sull’eredità virtuale troviamo servizi come Entrustet o Legacy Locker che permettono di custodire le tue password o i tuoi “voleri digitali” per “le persone amate” (sic). Ma ancora, nessuna di queste società opera seguendo una qualche direttiva legale. In fondo, gli usi che si possono fare dei dati digitali di un individuo sono molteplici, anche in considerazione delle diverse forme di lasciti che esistono. Ci sono le email, account protetti da password. È a tutti gli effetti una corrispondenza, e si può dividere e scorporare e cedere a diversi destinatari, per questioni affettive. Ma nelle email, come in un diario segreto, può essere custodita, in caso di testamento incompleto, la chiave per l’assegnazione di un immobile, o di un prezioso, o di un’azienda. Stesso discorso può essere fatto per un blog. Se Mac Tonnies avesse voluto fare come Kafka, e fosse stato tradito dal suo personale Max Brod? Gli status di Facebook possono, invece, servire per i futuri storici. È quanto sostiene Dave Winer, uno dei primi blogger, che da tempo sostiene la necessità di una fondazione per preservare ogni tipo di dato che possa essere utile per ricostruire un certo spirito del tempo odierno in un futuro indeterminato. Il problema, nel caso di Winer e più in generale in molti altri casi, è quello di conservare ciò che intendiamo conservare (ipoteticamente, tra molti anni, i tweet del trisavolo) in un hardware cui sia possibile accedere sempre, e che non diventi un macchinario obsoleto e quindi indecifrabile.

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Mac Tonnies possedeva un account Flickr Pro, scaduto dopo la sua morte. Chiaramente, nessuno si è preoccupato di aggiornare il pagamento dell’abbonamento e moltissime delle fotografie sono andate perse (il passaggio all’account normale prevede uno spazio di archivio più limitato). Se un suo parente avesse voluto però continuare, o salvare delle fotografie, sarebbe stato necessario richiedere a Yahoo le chiavi di accesso di Tonnies. E niente (o poco) avrebbe potuto impedire al gruppo di rifiutarsi. Questione di normativa della privacy, accettata da ogni utente alla propria iscrizione (sapete, quel form che nessuno legge ma è obbligatorio flaggare l’opzione “ho letto e acconsento” per procedere). Un caso controverso è quello della famiglia Stassen, una coppia del Winsconsin che perse il figlio, morto suicida nel 2010. Chiesero a Google e Facebook di poter accedere ai suoi account. Finirono in tribunale. Google accettò, Facebook no. La causa durò mesi, e alla fine Helen e Jay Stassen acconsentirono a firmare un documento in cui si impegnavano a non mostrare il contenuto del profilo del figlio a nessuno fuori dai familiari più stretti.

La proposta di legge del senatore Creem, sostanzialmente, punta a scavalcare ogni form flaggato dall’utente. Il problema, per quanto riguarda gli Stati Uniti, riguarda la forma federale dello stato: ci potrebbero essere 50 leggi e tutte differenti l’una dall’altra, particolare che andrebbe a creare non pochi “imbarazzi legali” nelle cause. La proposta di Naomi Cahn è quella di bypassare le leggi, e far sì che i provider stessi aggiungano una postilla nelle procedure di iscrizione che suoni più o meno così: «In caso di morte, vuoi A) che nessuno acceda mai ai tuoi messaggi/informazioni/dati B) darne accesso all’esecutore testamentario?».

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Certo, la quantità di dati personali che ogni persona immette in internet ogni giorno, e di conseguenza la quantità di dati (foto, status, messaggi email, messaggi Facebook, articoli) che un erede si troverebbe a gestire è gigantesca. Difficile sarebbe anche per il defunto in potenza (leggi: tutti noi) scremare tra la propria attività vita natural durante, o alla compilazione di un testamento. Un problema che non si pone – o si pone in maniera estremamente più limitata – con gli oggetti fisici, le memorie della vita tangibile.

C’è da pensarci, se non vogliamo che il nostro blog sia infestato dai vermi della virtualità, lo spam di eventi, le foglie che nessuno spazzerà dalla nostra lapide virtuale. Il desiderio di “durare” un po’ più a lungo, nella memoria di pochi o di molti, della mera esistenza fisica è ancestrale. Si scrivono libri, si realizzano sculture, ci si faceva costruire palazzi dorati e monumenti colossali. Anche una foto con filtro Brannan ora può servire.