Attualità

Cosa c’è dentro l’insonnia

I pensieri, i tentativi di razionalizzare, gli incubi: un personal essay sul peggior nemico dell'uomo.

di Giordano Tedoldi

Una sera, presentando una mia raccolta di racconti, sono finito a parlare di insonnia. Ho percepito tanto nel pubblico che negli scrittori che mi erano accanto un risveglio d’attenzione, come avessi introdotto un tema molto più urgente e generale rispetto a quelli tipici di una presentazione letteraria. Il passaggio dai miei racconti (in cui pure se ne parla perché diversi personaggi ne soffrono, ne sono affezionati e ci lottano) al tema dell’insonnia era brusco, e non del tutto pertinente all’argomento che stavo trattando, che era il rapporto tra l’uomo e il mondo. Mi era venuto in mente che nulla sembrava rimarcare meglio la separazione tra Io e mondo dell’insonnia. Il fatto è che io, che soffro d’insonnia dall’adolescenza, insonnia che è andata peggiorando con gli anni fino a un punto non lontano dalla disintegrazione psicofisica, ricordavo perfettamente quel senso di attrito che si genera tra l’Io e il mondo quando non si riesce a dormire. Ma poiché ogni attrito è anche una messa a confronto, un’estraniazione, solo grazie all’insonnia mi sono accorto quanto Io e il mondo fossimo in conflitto e, per così dire, ho potuto pesare le ragioni dell’uno e dell’altro.

La sofferenza dell’insonnia è il prezzo da pagare per vedere lo spettacolo, riservato a pochi eletti, in cui il mondo si torce davanti a noi. Cosa si guadagna nel guardare, nel perfetto silenzio e solitudine che dice Kafka, le contorsioni del cosmo?

Chi dorme facilmente, potrà avere mille problemi nel suo rapporto col mondo, problemi affettivi, economici, di salute, ma infine, dormendo, troverà la sua pace. Per lui, di notte, il mondo è una culla, un’incubatrice rigenerante e un luogo che, malgrado le preoccupazioni, non riesce a considerare inospitale. Per l’insonne, che è costretto letteralmente a guardare il mondo nelle lunghe interminabili notti, il mondo è quello che si dice in un aforisma di Kafka: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e in solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te». La sofferenza dell’insonnia è il prezzo da pagare per vedere lo spettacolo, riservato a pochi eletti, in cui il mondo si torce davanti a noi. Cosa si guadagna, oltre al brivido di superare una soglia estrema, nel guardare, diciamo dalle due alle cinque di mattina, nel perfetto silenzio e solitudine che dice Kafka, le contorsioni del cosmo? Io direi questo: una forma immediata, pura, di conoscenza del mondo, e dunque di sé. Un’intimità con il mondo che è tanto più stretta quanto più il mondo – il nostro quotidiano, onnipresente, solido e vivificante mondo – ci si mostra alieno e, rispetto alle nostre necessità fisiologiche, non collaborativo, ostile.

 

Prendiamo il cielo stellato, come esempio scontato quanto volete, di porzione di mondo tradizionalmente disponibile all’insonne, come accade, nella Coscienza di Zeno, nella scena che precede la morte del padre di Zeno, dove, seduto in poltrona accanto alla finestra, il vecchio malato fissa le stelle oltre i vetri, e crede di vedere qualcosa, ma non sa precisamente cosa, e chiede al figlio: «Hai visto? Hai visto?», e Zeno, non ammesso a quel suo stato allucinato, non può rispondergli. L’angosciata meraviglia dell’insonne e malato padre di Zeno è l’opposto di ciò che si prova in condizioni psicofisiche normali, guardando lo stesso spettacolo celeste. Alla sera, dopo cena, guardare le stelle è riposante, e spesso viene naturale lasciarsi andare a applicare le nozioni di astronomia di cui siamo a conoscenza, ricettivi come siamo, se non altro per un senso di dignità e aggiornamento culturale, alla massiccia divulgazione delle scienze fisico-matematiche. In quel momento, senza alcuna speciale angoscia, intendiamo l’immane cielo stellato come lo intende la riflessione scientifica: un fenomeno privo di anima, un oggetto da catturare nella rete delle nostre più o meno raffinate e complesse griglie soggettive e progettuali. Qualunque cosa mettiamo a fuoco, quando siamo ben svegli e riposati, si sottomette con docilità ai nostri progetti o, per meglio dire, al nostro modo normale, cioè progettuale, di vedere. Il cielo stellato, per gli innamorati non insonni, è lì per loro, per i loro progetti e per consacrare la loro unione.

La cattiva letteratura, ad esempio, fa questo: sottomette e asservisce il mondo. Il mondo, in quei casi, è come un animale addomesticato in modo così efficiente da escludere ogni pericolo di insubordinazione. Il mondo degli insonni, al contrario, è una belva feroce. Difficilmente troverete, nella letteratura degli scrittori seriamente insonni, un’immagine triviale e subordinata del mondo. La stessa sezione di cielo che prima, alle dieci di sera, confortava il nostro fantasticare per metà scientifico e per metà emotivo e poetico, intorno alle quattro del mattino, sotto il carico dell’insonnia, diventa una condanna morale e insieme una pena corporale, emanata da una legge imperscrutabile, intraducibile al nostro codice soggettivo, alle nostre conoscenze scientifiche (che di certo la neutralizzerebbero) e indisponibile al nostro benessere. L’unica domanda che si può rivolgerle è: «Hai visto? Hai visto?», ben sapendo che, come il padre di Zeno, non avremo mai risposta.

 

 

Il mondo dell’insonne fa male: resiste, e dunque è più oggettivo, più vero, del mondo modellistico, elegante, dell’immagine scientifica. Uno scienziato potrà conoscere ogni dato e calcolo di quell’immagine scientifica che per lui è la realtà, ma la verità è che solo l’insonne è stato costretto a guardare in tutta la sua estraneità e dunque obiettività la realtà, perché la realtà gli si è presentata ostile, la notte gli ha negato i suoi piaceri, il silenzio non ha favorito il sonno, l’oscurità ha smesso di rappresentare un segnale di riposo per l’occhio che resta a scrutare come in pieno giorno. Soltanto l’insonne sa quello che dice quando afferma: qui ero Io, là era il mondo, e non andavamo affatto d’accordo. Solo lui ha veramente osservato, attraverso il cannocchiale del suo disturbo, un fenomeno “celeste”, vale a dire, oltre e sopra l’umano. Ma proprio grazie a questo disaccordo, a questo shock cognitivo è possibile, dopo, andare liberamente e non efficientemente verso il mondo, non per irretirlo nel proprio modello matematico, ma per studiarlo nella sua indocilità, per contemplarlo davvero imparzialmente con quella visione panoramica di cui parla Burckhardt a proposito dei Greci.

E persino se ricorre a dei sonniferi, quel sonno indotto sarà un sonno per lui inconfutabilmente alieno, in cui resterà la traccia indelebile dell’insonnia che l’ha determinato

Solo l’insonne, oggi, può sperare di sentirsi un po’ come dovettero essere gli antichi Greci, nel loro rapporto per natura differenziato tra uomo, che è il mortale, e il mondo che, come racconta un frammento di Eraclito, da sempre esiste e sempre esisterà. L’identificazione che noi facciamo con colpevole leggerezza, tra storia umana e storia del mondo, è un’identificazione dovuta al fatto che, in ogni senso, dormiamo troppo bene. Se l’uomo non dormisse per un tempo sufficientemente prolungato, finirebbe per essere scaraventato dalla sua storia e riassorbito nella storia del mondo (mentre è evidente che il contrario è impossibile), la quale procede a un ritmo non quantificabile e molto più che vertiginoso: è solo il sonno che ci illude di essere i padroni del cielo, i matematizzatori del cosmo, in grado di spiegare dal principio (in cui non si sa nemmeno cosa abbia avuto principio) alla fine la vicenda del mondo. La vicenda del mondo, invece, su un piano differente (e appunto, da principio come intuitiva differenza) è immediatamente nota all’insonne, cui basta, per essere certo di questa conoscenza intuitiva, un solo sguardo al buio greve nel quale è immersa la stanza in cui non riesce, malgrado ogni sforzo, a prendere sonno.

E persino se ricorre a dei sonniferi, quel sonno indotto sarà un sonno per lui inconfutabilmente alieno, in cui resterà la traccia indelebile dell’insonnia che l’ha determinato. In quella specie di prigionia, dovuta all’insonnia, in un tempo che sembra aver cessato di durare, e in uno spazio che, nel momento stesso in cui lo contiene, rivela di non essere stato organizzato per il suo bene, di non appartenergli, in ultima analisi di non essere umano – eppure la camera da letto è così che viene pensata e progettata: il luogo del riposo, del benessere psicofisico, e certamente lo è, purché non si sia insonni – l’insonne si sgancia dalle false sicurezze, dalle seduzioni di una conoscenza del mondo in cui ogni asperità può essere smussata, ogni verità perseguita e afferrata, ogni problema, a tempo debito, risolto. Svanisce l’illusione che il mondo sia un grande utero in simbiotica e provvidenziale o razionale connessione con il feto del nostro Io. Si dissolve la visione di un mondo arredato, proprio come lo sono le abitazioni, per noi. Una formidabile confutazione filosofica, di complessità inestimabile, si consuma nella presa di coscienza istantanea che obbliga l’insonne a  confrontarsi, per la prima volta senza protezione, col mondo, l’unico e vero “altro” o “diverso” di cui saremmo legittimati a parlare.

[Una notte insonne, al momento decisivo del non risveglio, cioè il rassegnato uscire dal letto come da una scialuppa che fa acqua, per decidersi a farsela a nuoto finché ce la si fa, tutto quello che si è pensato fino al giorno precedente, e tutto quello che si è scritto, diventa un pastone immondo, si detestano tutti quei punti molli e cedevoli che solo il giorno prima sembravano ben mimetizzati, e invece si mostrano a eterna vergogna, ma figurarsi se non capitava una cosa del genere parlando di una questione tanto intima e personale come l’insonnia, figurarsi se adesso il persecutore diurno non mi assilla finché non confesso che la relazione sull’insonnia finora fornita non tiene da nessuna parte, è un’esperienza al limite estremamente individuale che non può dire nulla di sensato per altri lettori che non sia io stesso, tutto ciò è inevitabile eppure a questo punto irreversibile; non voglio polemizzare con nessuno, non voglio polemizzare soprattutto col persecutore interno, non voglio persuaderlo del suo avere ragione o torto, ma domandargli solo questo: chi è nell’insonnia l’Altro?

Chi è il nemico? Chi è che non mi fa dormire? Io stesso? Un’ansia recondita? Questione genetica o ambientale? Sono preoccupato? E da che? Perché detesto tanto nella narrativa italiana le interrogative retoriche? O forse le detesto quando le uso io? Perché a dir la verità nella narrativa italiana altrui capisco che possano scappare di mano, ma, sono anche utili, funzionali, dopotutto ognuno ha i suoi espedienti per arrivare fino in fondo, per svolgere i pensieri, no? Chi è l’Altro nella veglia notturna? Non è un sogno, nei sogni tutto è Altro, e d’accordo, fin qui siamo d’accordo io e il persecutore interno, ma chi è l’Altro quando rifletto disteso a letto con le tende tirate sopra gli scuri chiusi sopra la finestra chiusa sopra le persiane chiuse? Perché non mi posso sigillare di più? Perché è così orrenda l’idea di dormire in una cassa metallica ermetica grande esattamente quanto il proprio corpo solo con qualche millimetro in più di ampiezza per lasciare quella minuscola illusione di respirazione che, ovviamente, nell’ipotesi, sarebbe così breve, prima del soffocamento? Una volta ho provato, per dormire, a tapparmi naso e bocca, svenire, e quindi dormire.

Avevo finito l’Ansiolin e anche lo Stilnox, in seguito al cui sovradosaggio già una volta ho provocato un crollo delle difese immunitarie e una conseguente bronchite durata tre mesi, e cos’altro potevo fare? Il giorno dopo dovevo essere fresco perché avevo delle cose importanti da fare, non potevo mica alzarmi dal letto come lo zombi che sono quando passo la notte insonne, e allora ho tentato così con l’autosoffocamento e naturalmente a un certo momento ho dovuto respirare, e alla fine, dopo due ore ancora, ho dormito, così poi almeno tre orette me le sono fatte, e con tre orette la trasformazione in zombi, lo sanno anche a Haiti, non è possibile. Ma chi è l’Altro, quando non dormi? Dici la donna che ami e che non c’è? Allora non dovrei dormire mai. Allora il fratello perduto, oppure il padre perduto, oppure l’infanzia perduta, o la giovinezza perduta, o il dottorato di ricerca non fatto, o il lavoro giusto mai trovato, o la casa di merda, o il gas che non è chiuso, o il frigorifero che non è sigillato e fa il ghiaccio, oppure il fatto che non ho più i capelli biondi come da bambino quando mettevo le mani in bocca al cane, sarà uno di questi l’Altro. Cosa dici? Il persecutore ha un pensiero, sentiamo. Di’! Di’ pure non c’è censura di notte, non c’è censura nell’insonnia, tutti i pensieri schizzano e sono tutti belli eretti, belli osceni. Di’ pure, spara come si dice(va) nei film.

Il persecutore interno sostiene che questa è la vera insonnia. Questa attenzione, questa concentrazione, questa cura per ogni rapporto non ricambiato

Perla di saggezza del persecutore interno, silenzio assoluto tranne la sua voce ovviamente profonda: «Quando desideri fortemente una donna, cui non sei indifferente, ma che non ti desidera altrettanto, questa discrepanza ti impone un’attenzione, una concentrazione, una cura per il rapporto molto superiore che nel caso lei ti amasse disperatamente e follemente». Il persecutore interno sostiene che questa è la vera insonnia. Questa attenzione, questa concentrazione, questa cura per ogni rapporto non ricambiato. Geniale, davvero, no? Io mi sbilancio: geniale. Il persecutore, sostiene, addirittura, essendo un cinefilo o cinefago come a volte pure scherzando dice, che questa attenzione e concentrazione e cura, sono simili al modo in cui Orson Welles, nei film in cui fa l’attore, soprattutto nei suoi ma non solo, guarda gli altri attori. Ad esempio come guarda Loretta Young in The Stranger. La guarda come se non avesse mai dormito, da secoli. Con quella cura, quella concentrazione e attenzione. Guarda gli occhi di Orson Welles, un poco esoftalmici (problemi alla tiroide?) gli occhi di un insonne da una vita.

Ora vedi amico mio, dice il persecutore interno, quando tu sei insonne, gravemente insonne, insonne ad esempio per il terzo giorno consecutivo (cioè la terza notte) per un’insonnia di cui soffri, con i suoi alti e bassi, dall’adolescenza, immagina se in quel momento sul letto ci fosse una donna, o anche un amico, non facciamo romanticismi, e immagina come lo potresti guardare. No, dico, guardarlo come una scena cruciale di un film. Ecco, alzi la testolina vuota, gli occhi che bruciano, il mondo che non torna da nessuna parte, in nessun calcolo, e lo vedi. L’Altro. Solo l’Altro. Finalmente, l’Altro. Del resto un insonne non può mica scopare. Provatici a scopare, da insonne. Con tutti quei muscoli d’acqua, i testicoli d’acqua. Il cervello che contiene un’idea di desiderio forse accettabile su un lontano esopianeta, ma non nella tua camera da letto, e non dall’Altro. Che poi basta un niente e schizza dentro un altro pensiero, un pensiero ad esempio di disintegrazione. Ed appena arriva quello, ecco che la donna o l’amico, insomma l’Altro, il Diverso, si fa premuroso, ti dice cose pietose come: «Non posso sentirti parlare così», e allora cos’altro puoi fare se non metterti per la milionesima volta come stavi quando ti sei messo a letto intorno all’una e provare a morire dormendo.

 

Il problema dell’Altro è che raramente, quando tu sei insonne, coglie le sfumature. Tu dici: voglio morire, e lui pensa che sei depresso, invece vorresti solo dormire a lungo, dieci ore. Dodici. Venticinque. Settanta anni. Milioni di secoli. La storia del cosmo. Far coincidere durata del sonno umano e durata cosmica. Se accadesse, molti problemi sarebbero risolti. In verità, come sappiamo («niente giochini», come dicono certe donne) nelle migliori insonnie, quelle d’annata, non c’è mai nessuno. Nessun Altro. Tutto il peso è su di te. Ti devi assumere tutte le responsabilità. Va bene: rivai all’infanzia. Rivai alla prima volta in cui si è manifestata l’insonnia. Afferra il trauma per il collo, esplicitalo: mamma mi voleva avvelenare con l’apparecchio mobile dei denti. Dopo averlo disinfettato con le apposite pasticche, lo avvelenava spennellandolo col fosforo bianco. Come riusciva a procurarsi il fosforo bianco? Ma è tua madre, la madre per il bambino e anche per l’adolescente non ancora psichicamente svezzato è onnipotente, dunque onniminacciosa. Perciò io, guardando quel bicchiere sul comodino da letto, terrorizzato, ignorando la raccomandazione materna di mettermi l’apparecchio, trascorrevo la notte insonne. La puttana voleva ammazzarmi, è molto semplice, quindi io sto sveglio per non farmi cogliere di sorpresa. Torna? Non torna niente.

A volte non dormo e c’è un silenzio che neanche nel vuoto cosmico. A volte non dormo per troppo senso del mondo e del mio farne parte

Che cazzo vuole questo mondo da me e perché non mi fa dormire? Perché tu, cioè io, non mi fai dormire? I rumori lo so che sono un alibi, sono troppo smagato per non saperlo. A volte non dormo e c’è un silenzio che neanche nel vuoto cosmico. A volte non dormo per troppo senso del mondo e del mio farne parte. A volte non dormo perché non conosco tutta la musica, e quella che conosco in fondo non mi sembra così bella a ripetuti riascolti, e poi la riascolto e purtroppo mi struggo. Naturalmente non dormo perché c’è gente che mi odia, mi disprezza, mi ignora. E io la ripago non dormendo. Cosa credete, che io sia insensibile? Io non dormo del vostro odio, disprezzo, indifferenza. Tutto l’Altro che si accumula in fondo alla giornata, come quella merda che esce e la vedi e hai capito subito da che punto viene dell’intestino, perché ha proprio quella forma di quel punto. Io le vedo le cose, da insonne poi. Ah, c’era una parentesi quadra da chiudere. La sbatto come una persiana dietro a una finestra dietro agli scuri dietro alle tende in una camera da letto di un uomo che a forza di non dormire si tappa il naso e la bocca].

Dal numero 31 di Studio
Illustrazioni di Elena Xausa