Attualità

C’è Londra dopo Brexit?

Il presente, le paure, il futuro della città più internazionale d'Europa, a un anno dal referendum.

di Davide Coppo

Il 27 luglio 2012 David Cameron, allora primo ministro inglese, utilizzò le parole «il più grande spettacolo del mondo» per descrivere le Olimpiadi che, di lì a qualche ora, si sarebbero inaugurate a Londra, per la seconda volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli ultimi Giochi olimpici a tenersi nel Regno Unito, prima, erano stati quelli che segnarono la fine del conflitto, nel 1948. Fu un evento ricco di simbolismo politico, oltre che sportivo: non venne costruito nessun villaggio ma furono sfruttate le strutture esistenti, scuole e caserme soprattutto; molti Paesi dell’Europa ormai in pace contribuirono a inviare generi di prima necessità per nutrire gli atleti di ogni nazione; le famiglie londinesi aprirono le loro case ai partecipanti che non riuscivano a trovare un alloggio. Furono i primi Giochi a essere trasmessi in televisione, ma esistevano soltanto 88 mila apparecchi, all’epoca, in tutto il Regno.

Sessantaquattro anni dopo, tutto lasciava intuire un potenziale simbolico altrettanto forte, ancorché di segno differente. La Grecia, il Paese che più pagò – e paga tuttora – la crisi finanziaria, aveva organizzato i Giochi nel 2004, e dopo soltanto pochi anni i giornali di ogni parte del mondo avevano testimoniato lo stato disastroso delle infrastrutture olimpiche ateniesi abbandonate. Londra si proponeva di ribaltare il paradigma: sarebbero state le prime Olimpiadi sostenibili, le strutture sarebbero state riutilizzate, anche a fini abitativi, immediatamente dopo la fine della manifestazione, la riqualificazione di intere aree – il quartiere di Stratford, al confine tra le zone 2 e 3, in particolare – avrebbe giovato alla città nei decenni a venire. Era soprattutto il 2012, e la manifestazione sarebbe stata insieme una metafora e un auspicio di rinascita dopo la crisi del 2008. I problemi, per Londra e per l’Inghilterra, non sarebbero scomparsi: soltanto nel 2011 quattro giorni di riots avevano provocato cinque morti, quasi duemila arresti, centinaia tra automobili, negozi e interi edifici dati alle fiamme. Le sommosse presero avvio nei quartieri più a nord della capitale e si estesero poi a sud e a est, anche nei boroughs in fase di gentrificazione come Brixton e Hackney. Su un articolo dell’Independent scritto poche ore dopo l’inaugurazione del 27 luglio si può leggere: «Non possiamo ancora sapere cosa ci porteranno queste Olimpiadi, […] ma si è avvertito il peso di tutte le possibilità – e la speranza di un popolo, piuttosto malconcio negli ultimi anni, siamo onesti, che questo possa essere il momento giusto per cambiare passo».

George Wharf, Vauxhall, Londra
Nuovi appartamenti a St George Wharf, Vauxhall, Londra (foto di Jason Hawkes)

Quattro anni dopo, a poche ore dal volo che mi avrebbe portato a Londra per alcuni giorni, mettendo in valigia il passaporto, per la prima volta ho avuto una sensazione di straniamento. Nelle decine di volte in cui avevo frequentato Londra da turista o visitatore, negli anni precedenti, non mi ero mai preoccupato troppo di avere con me il passaporto. Più volte ero semplicemente stato sgridato dall’ufficiale di frontiera per la mia carta d’identità troppo sgualcita. In quegli stessi giorni, per coincidenza, a causa del G7 di Taormina l’Italia aveva temporaneamente sospeso l’applicazione dei trattati di Schengen. Mi avviavo all’aeroporto con la sottile ansia che tempi considerati passati per sempre potessero ritornare. Quel che è peggio è che io, come l’intera mia generazione, non li avevo mai vissuti.

Londra, Babele

General Aerial Views Across London
Visione aerea di Londra (Getty)

Durante vari soggiorni a Londra negli anni successivi al 2012, mi sono ritrovato più volte ad alloggiare in uno degli appartamenti costruiti in occasione delle Olimpiadi, a Stratford, con vista sull’Olympic Park e sul nuovo stadio da calcio e atletica. Ho imparato a conoscere la zona circostante – Hackney Wick, al tempo l’avamposto di gentrificazione più orientale della città – con una certa familiarità, muovendomi dalla grande brewery artigianale ai ristoranti affacciati sul canale, passeggiando tra le houseboat e i joggers mattutini. Quando iniziai, circa dieci anni fa, a frequentare le zone di Brick Lane, e successivamente Shoreditch, e successivamente Hackney, mi imbattevo sempre più spesso in decine di europei. È normale, a Londra, non aspettarsi di incontrare principalmente inglesi, ma anche inglesi: se, secondo l’ultimo censimento condotto nel 2011, un ottavo dei residenti britannici sono nati fuori dal Regno Unito, a Londra il rapporto si trasforma in uno a tre. In una sola città di otto milioni di abitanti convivono 270 diverse nazionalità, con trecento lingue che vengono parlate.

In un congresso dello Uk Independence Party nel 2014 Nigel Farage, all’epoca leader del partito, impugnò proprio il dato linguistico per attaccare le politiche migratorie del governo: «L’altra sera ho preso un treno, era l’ora di punta», raccontò, «da Charing Cross. Il treno ha fatto alcune fermate, a London Bridge, New Cross, Hither Green, e soltanto dopo aver oltrepassato Grove Park sono riuscito a sentire qualcuno che parlasse inglese in carrozza». Il tragitto del treno – che il viaggio sia accaduto davvero o meno – descritto da Farage era anche una sottile metafora, e anticipava molto di ciò che sarebbe successo il 23 giugno 2016. Dalla partenza a Charing Cross, stretta tra Soho e Covent Garden, il centro più turistico della capitale, Farage si è mosso in direzione sud-est attraversando il Tamigi e uscendo dalla Zone 1, poi dalla Zone 2, e così via, sentendosi finalmente sicuro, cioè riuscendo a udire una lingua che fosse inglese, soltanto una volta lasciata la Zone 4, a venti chilometri dalla partenza: la lotta contro l’Unione europea è anche una lotta contro Londra, che dell’Europa era in questi anni diventata, in modo naturale quanto incontestabile, una specie di capitale.

3876. 20 Fenchurch Street, also know as the The Walkie-Talkie’ is the 12th tallest building in London at 525 ft tall. It was designed by architect Rafael Viñoly and cost over £200 million. A large viewing deck 155 metres up, the spectacular Sky Garden offers views across the capital and far beyond.
Questo edificio di Fenchurch Street, soprannominato “Walkie-Talkie”, è il 12esimo più alto a Londra (Jason Hawkes)

Nel cuore della City, il polmone finanziario londinese ed europeo, sorge la sede del Financial Times, uno dei quotidiani che si è più speso, un anno fa, per il Remain. James Blitz, giornalista per il Ft, si occupa tra le altre cose del “Brexit Briefing”, la speciale guida che, giorno per giorno, segue gli sviluppi dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. «La politica di Theresa May, e questa è una cosa incredibile per un governo conservatore, non è particolarmente pro-City», mi dice. «È un cambiamento epocale. I temi più importanti per May sono l’immigrazione, l’identità, la frontiera». Dopo le dimissioni di David Cameron, un conservatore che aveva appoggiato l’opzione Remain, Theresa May si è impegnata nel portare il Paese fuori dall’Europa. Mentre scrivo mancano pochi giorni alle elezioni anticipate convocate da May per giovedì 8 giugno. I suoi toni, oggi, cercano soprattutto l’elettorato che votò la soluzione Brexit, facendo suoi alcuni appelli populisti già utilizzati da Boris Johnson o Farage durante la campagna referendaria. «Con Brexit abbiamo scoperto come Paese una grande divisione economica e sociale: tra Londra, il sud-est ricco e internazionale, e il nord e l’est dell’Inghilterra, dove non c’è crescita. Sono luoghi che guardano a Londra, alla City, e vedono il mondo della globalizzazione che si prende tutto e non redistribuisce. Ma non è un problema di immigrazione: soltanto di povertà», continua Blitz. L’immigrazione ha invece un legame diverso, più ancestrale, con Brexit e i suoi votanti: «È importante ricordare che nel 2004, quando c’è stato l’allargamento dell’Unione a est, Blair era al potere. E ha deciso di non fare una cosa che altri Paesi dell’Unione europea hanno fatto: mettere restrizioni transitorie alla frontiera. Il governo aveva previsto un livello di immigrazione che si è rivelato una sottostima: il flusso è stato molte volte più alto. E questa è una cosa che i britannici non hanno mai dimenticato».

Una bandiera diversa

Camminando lungo il Regent’s Canal, risalendo poi verso Barnsbury, nel cuore di Islington, noto su molte finestre gli adesivi rossi che invitano a votare Labour alle elezioni generali di giugno. Altri hanno piantato dei cartelli nei giardini davanti all’ingresso. Altri ancora, quasi la metà, dichiarano invece l’intenzione di votare Liberal Democrats («Lib Dem Winning Here», recita lo slogan, lasciando al passante facili battute). Su alcune finestre rimangono ancora gli sticker, sempre rossi, che dicono «Vote Remain», un’opzione che in questo borough aveva raggiunto il 75,2 per cento. Soltanto più a nord, davanti la stazione di Caledonian Road, vedo delle Union Jack appese, al posto delle tende, al piano terra di una council house. «Nel 2012, con le Olimpiadi, ci sembrò che il Regno Unito fosse davvero unito», mi dice Robert Bound, Culture editor del mensile Monocle, che ha sede a Londra, quando gli chiedo come è cambiato il “sentirsi britannici” negli ultimi anni. «Dopo è diventato tutto più divisivo, anche prima di Brexit, con il referendum sull’indipendenza della Scozia. Oggi ho dei sentimenti confusi, diversi, pensando alla Union Jack: guardo quella bandiera, e ho paura che significhi qualcos’altro».

The Shard, River Thames and Tower Bridge, London.
Il Tamigi all’altezza del Tower Bridge (Jason Hawkes)

Nessun altro Paese, in Europa, vive un rapporto così schizofrenico con la sua capitale come succede alla Gran Bretagna. Quanto una nazione può essere separata dalla sua città più importante? Ci sono diversi esempi: Berlino, una città storicamente caratterizzata da un forte debito pubblico ma in piena ripresa – il Pil della città nel 2016 è cresciuto del 2,7 per cento, più di ogni altro Land; Parigi, in cui Emmanuel Macron ha raggiunto il 90 per cento contro Marine Le Pen, pur nel contesto di una vittoria schiacciante in tutta la Francia; la semi-anomalia di Roma, la più grande città italiana, guidata da un sindaco del populista Movimento 5 Stelle, in un Paese governato da una maggioranza di centro-sinistra. Eppure ognuna di queste città rappresenta, in qualche modo, l’anima della nazione di cui è capitale. Per Londra il discorso è ancora più estremo, come dimostrano le analisi demografiche. «Ho paura che Londra stia diventando un’isola, e mi sembra stia succedendo», dice Robert Bound. «Una capitale non dovrebbe essere l’opposto del resto del Paese. La mattina dopo il voto di Brexit, per la prima volta ho avuto l’impressione che le persone che mi governavano non fossero come me, ma dei fanatici. È stato strano, trovarsi tutto sommato in una posizione privilegiata, e allo stesso tempo sentirsi così». Avevo parlato dello stesso argomento, poco prima, con Haroon Mirza, artista londinese vincitore di diversi premi internazionali, tra cui il Leone d’argento alla Biennale del 2011 e il Calder prize nel 2015. «Che Londra sia diventata una megalopoli completamente staccata dal resto del Regno Unito è evidente», mi ha detto, «ed è una cosa che mi fa pensare perché mette in discussione il ruolo di uno Stato. Non lo dico per nazionalismo, piuttosto penso che questo crei un altro tipo di confine, ed è una cosa che potrebbe essere problematica come Brexit, pur in maniera diversa».

Lasciare Londra

A general view of the inside of the new
Foto Getty

Incontro alla Tate Modern Andrea Lissoni, italiano, senior curator of Film and International Art. Andrea vive a Londra dal 2014, ma il suo lavoro, per festival e non soltanto, lo porta a muoversi attraverso, anche, la stessa Inghilterra. È mattina, e il Terrace Bar della Tate ha appena aperto. Gruppi di visitatori, o di studenti, entrano a poco a poco, parlando diverse lingue. «Ho visto i paesi di provincia», racconta Lissoni, «e sono posti massacrati. Li ho visti vicino Newcastle, e mi sono accorto della stessa cosa nel Kent, nel Somerset. A Londra non si vede, ma fuori è un’altra cosa. Questo è un Paese povero». Nonostante i toni anti-globalisti e venati, nemmeno troppo blandamente, di razzismo dei Tory, il problema della disoccupazione in Inghilterra è uno dei meno urgenti e gravi. James Blitz, al Financial Times, aveva spiegato: «Le persone lavorano, ma hanno un livello di reddito estremamente basso, soprattutto quando lo paragoni con l’inflazione: il livello reale di reddito sta andando in picchiata. È questo il problema. Se potessi scegliere, servirebbe una grande riforma di politica domestica per riequilibrare il bilancio tra Londra e il nord. Ma non è mai stata fatta». Anche Londra non è immune da un generale abbassamento del livello di reddito. Con la vittoria del Leave ad aggiungersi ai problemi, una soluzione trovata da molti è semplice e drastica: lasciare il Paese. «A livello di classe creativa il movimento verso Lisbona è sconvolgente», dice Lissoni. «Soltanto ieri sera, a casa di amici, ho incontrato altre due persone che si stanno spostando. La cosa che mi colpisce di più è che non sono giovani, come ci si aspetterebbe. Hanno 35, 40, 45 anni». È una cosa che anche il Financial Times ha messo in conto, secondo uno studio di cui mi ha parlato James Blitz: «La prospettiva è di 50 mila persone circa che andranno a spostarsi da Londra per andare in Europa. Il mercato immobiliare a Londra sta indebolendosi, perché si inizia a sentire il flusso di europei che se ne stanno andando. La grande paura è ora per il nuovo rapporto tra la Gran Bretagna e l’Unione europea nel settore dei financial services. Nel settore dei goods non ci saranno grandi problemi, l’idea di alzare i dazi non c’è, non mi aspetto questo. Ma la Gran Bretagna è un Paese che punta sui servizi: l’80 per cento di tutto l’export britannico è nel settore dei servizi».

Dusk aerial viewover the City of London. Heron Tower / Sales Force Tower, Swiss Re Tower, The Leadenhall Building, The Shard, skyscrapers of London. England, UK .Aerial view .
La City al tramonto, con alcuni dei grattacieli più riconoscibili, inclusi The Gherkin e Heron Tower (Jason Hawkes)

La popolazione di Londra, oggi, non è mai stata così alta nella sua storia. Eppure supera soltanto di poco quella degli anni Trenta del Novecento, appena prima della Seconda guerra mondiale, il tasso più alto raggiunto prima del Ventunesimo secolo. Come è accaduto per altre città pesantemente coinvolte nel conflitto – Berlino su tutte – anche Londra, nel Dopoguerra, ha vissuto un progressivo spopolamento: negli anni Settanta, gli abitanti erano scesi poco sopra i sei milioni. La ripresa, oggi diventata esponenziale, è iniziata negli anni Novanta. La deregulation introdotta da Margaret Thatcher nel 1986 – il cosiddetto Big Bang – portò a un effetto valanga di investimenti e ricchezza che cambiarono la faccia di Londra, e della City soprattutto, per sempre. Negli stessi anni in cui Londra esplodeva – i metà Novanta – W.G. Sebald pubblicava Gli anelli di Saturno, il racconto di un viaggio a piedi nel Suffolk, soggiornando presso alcune tra le cosiddette “Seaside town”. Già Sebald, più di vent’anni fa, descriveva il denso, silenzioso senso di apocalisse di zone che, un tempo ricche di industrie e turismo, stavano vivendo la discesa in una depressione irrimediabile: «Non lontano dalla costa, tra Southwold e la località di Walberswick, uno stretto ponte di ferro collega le due rive del Blyth, sul quale viaggiavano un tempo in direzione della foce pesanti battelli carichi di lana», si legge in apertura della Parte sesta. «Oggi, sul fiume in larga parte già insabbiato, il traffico è in pratica inesistente. Capita tutt’al più di vedere qualche barca a vela ormeggiata a riva in prossimità del mare tra una moltitudine di imbarcazione sfasciate. Verso l’entroterra, nient’altro che acqua grigia, acquitrini e vuoto». Quegli stessi tratti di costa, il 29 marzo 2016, votarono per l’uscita dall’Unione europea come nessun’altra zona in tutto il Regno Unito.

La violenza e il futuro

Floating Market on Regent's Canal in London
Mercato sul Regent’s Canal (Getty)

È impossibile prevedere che ne sarà di Londra nei prossimi anni, principalmente per due motivi: perché le discussioni su come Brexit verrà affrontato sono ancora in fase embrionale, innanzitutto; perché è una città che, negli ultimi secoli, ha cambiato volto e identità, in modo radicale, decine di volte. Tra cui due devastanti incendi, nel 1212 e nel 1666, tra cui le bombe naziste, nel 1940. Dopo la Guerra, Londra si trasformò ancora, in una delle capitali culturali dell’Occidente. La globalizzazione della moda e della musica stabilì in Londra e New York, più che in ogni altra città, i cardini della cultura pop presente e futura. La modernità per come la conosciamo oggi – l’internazionalismo della città – arrivò con la deregulation degli anni Ottanta, e fu seguita da altri fenomeni culturali globali, sempre a cavallo tra moda, letteratura e musica (e infrastrutture: l’apertura del tunnel della Manica, nel 1994, fu un evento epocale anche soltanto per il suo simbolismo).

All’apparenza, Londra oggi è una città tranquilla. Sulla sua pelle, per le strade, dai barbecue di London Fields agli impiegati affannati a pranzare sulle panchine di St. Paul, non si avvertono brividi. Il suo respiro è regolare, e calmo, nella solita frenesia. Pochi piani sotto quello in cui parlo con James Blitz, la redazione del Financial Times affronta quotidianamente il fuoco incrociato dei tabloid più pro-Brexit. «Nel mondo della stampa britannica soltanto noi e il Guardian ci siamo schierati apertamente per il Remain», dice Blitz, «e il senso di orgoglio dei tabloid, Daily Mail, Daily Express, Sun, oggi è molto forte. Gridano, ogni giorno, contro ogni persona che si metta di traverso. Sono diventati ancora più nazionalisti e aggressivi, in un modo che non avevo mai visto prima. È difficile rispondere a questa violenza».  I più europeisti tra i londinesi, tuttavia, hanno un atteggiamento di segno diverso: «Il referendum è qualcosa di molto raro nella cultura politica britannica, a differenza, ad esempio, dell’Italia. Ha un peso politico impossibile da mettere da parte», spiega. «La maggior parte dei cittadini che hanno votato per rimanere adesso ha un solo pensiero: cercare di fare bene il lavoro per uscire».

Aerial view of the Leadenhall Building, London
Il Leadenhall Building vicino al Gherkin (Jason Hawkes)

Il 29 marzo 2017, il giorno in cui Theresa May ha consegnato al presidente del Consiglio europeo la “lettera” di inizio Brexit, il Daily Mail titolava: «Freedom!». Quando chiedo a Haroon Mirza come è stato l’indomani di Brexit, e come stanno scorrendo questi giorni successivi alla consegna della lettera, racconta: «Stavo viaggiando in Brasile con la mia famiglia quando uscirono i risultati del voto. Rimasi così scioccato dall’esito che cercai di rimanere lontano dal Regno Unito il più possibile. Andammo in Italia per un po’, prima di tornare a casa, e tutto sembrava stranamente normale. È ancora così. Mi sento un po’ a disagio, onestamente, con questa attitudine “business as usual”».

Nonostante gli attacchi a Manchester e a London Bridge, Londra non si è fatta prendere dal panico. Nonostante il governo abbia alzato il livello di allerta da “severe” a “critical”, e abbia puntellato le strade di militari. Nonostante gli attacchi dei brexiters più rabbiosi, come, ancora, Nigel Farage, che a poche ore dalla bomba al concerto di Ariana Grande ha incolpato «il multiculturalismo» che porterebbe a «gravi divisioni nelle comunità». Nonostante l’offensiva di Donald Trump contro Sadiq Khan, che della città, oggi, è più di un simbolo. Se Londra è una bolla, il suo futuro, e forse quello europeo, dipenderà da quanto si riveleranno solide le sue pareti. Una bolla è una cosa fragile, e bella, e può avere soltanto due destini opposti: scoppiare, oppure espandersi, e inglobare altre bolle, e rafforzarsi.

Articolo originariamente pubblicato sul numero 31 di Studio