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La crisi di American Apparel

Dov Charney aveva iniziato a vendere magliette negli anni ’80, quando era ancora uno studente della Tufts University, per poi fondare un brand che ha fatto il giro del mondo. L’ideatore, amministratore delegato e azionista di maggioranza di American Apparel (possiede il 27 per cento delle quote in borsa), è stato però licenziato dalla stessa azienda da lui lanciata e sostituito con l’a.d. ad interim John Luttrell. Il consiglio di amministrazione di American Apparel, che gode di 249 store distribuiti in venti paesi, non ha specificato le accuse rivolte a Charney, ma ha sottolineato che è stato licenziato per giusta causa allo scadere di quei trenta giorni che, come previsto nel suo contratto, devono trascorrere per risolvere i conflitti, e quindi prima di qualsiasi decisione definitiva.

La motivazione ufficiale del licenziamento è «un’indagine in corso sulla sua presunta cattiva condotta», hanno fatto sapere da American Apparel. Il personaggio, in effetti, è controverso. I suoi comportamenti e le scelte nelle campagne pubblicitarie, per molti troppo votate a un certo sdoganamento sessuale, hanno generato numerose polemiche. Inoltre Charney è stato accusato più volte di violenza sessuale, aggressione, percosse e diffamazione.

Oltre a tutto questo, hanno forse pesato nella scelta di licenziarlo i guai economici in cui, da qualche tempo, si barcamena American Apparel. Dal 2008 l’azienda ha perso in borsa il 95 per cento del suo valore e, nel primo trimestre del 2014, ha registrato una perdita di 5,5 milioni di dollari. A questi vanno sommati i 46,5 milioni persi nel 2013, e un calo delle vendite del sette per cento rispetto agli anni precedenti. Inoltre nel 2010 la borsa di New York aveva inviato una lettera ad American Apparel, rivelando l’intenzione di eliminare le azioni dell’azienda, dopo che questa aveva reso nota la possibilità di finire in bancarotta. Il crollo dei profitti è stato legato anche al licenziamento di circa 1.500 dipendenti.

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