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Perché abbiamo sempre voglia di storie di bambini spariti

In Bambini nel tempo, pubblicato 30 anni fa, Ian McEwan raccontava la storia un autore di libri per bambini e di sua moglie due anni dopo il rapimento della loro figlia di tre anni. Quest’anno Bbc One ha realizzato un film basato sul libro, che andrà in onda dal 24 settembre. In un bell’articolo del Guardian Alex Clark riflette sul perché le storie di bambini spariti sono in grado di colpirci così profondamente. Come nota Clark, in queste narrazioni difficilmente il figlio scomparso è dotato di un’identità propria: immediatamente diventa un simbolo, e la sua scomparsa la miccia che causa l’esplosione di una serie di tensioni familiari e sociali. Un’ondata di complicazioni emotive e psicologiche si riversano immediatamente nello spazio lasciato vuoto. Il bambino assente diventa così l’incarnazione delle nostre peggiori paure, un catalizzatore delle nostre ansie più profonde: i dubbi sulla reale possibilità di proteggere le persone amate, il modo che abbiamo di relazionarci con la società nel suo complesso, il timore dell’ignoto e dell’altro.

Facendo l’esempio di The Missing, serie del 2014 che racconta dell’esaurimento del padre di una bambina dispersa, e di Broadchurch, un’altra serie tv britannica in cui l’omicidio di un bambino provoca il crollo psicologico del padre, Clark sottolinea come le reazioni dei due componenti della coppia seguano il più delle volte gli stessi pattern basati sulla differenza uomo/donna. I padri ritornano compulsivamente, metaforicamente e letteralmente, sulla scena del crimine, rifiutando di arrendersi, mentre le madri più spesso si ritirano in loro stesse e, passando attraverso un processo di elaborazione del dolore, approdano alla fine a una qualche forma di accettazione o ricostruzione. Mentre l’uomo reagisce con l’azione e eventualmente con la violenza, la donna assicura la continuità e tenta di mantenere l’unità familiare. Ma esistono delle eccezioni, come il personaggio interpretato da Winona Ryder in Stranger Things o quello di Julie Christie nel terrificante horror di Nicolas Roeg del 1973, Don’t Look Now, in cui una coppia sposata, la cui figlia è morta da poco per un incidente, si trasferisce a Venezia dopo che il marito accetta la commissione di ristrutturare una chiesa.

Tra i tanti esempi Clark cita Amabili resti e anche Lincoln nel Bardo (di cui avevamo parlato qui), il romanzo di George Saunders finalista al Man Booker Prize di quest’anno, che comincia con la morte del figlio del presidente degli Stati Uniti. Un libro che, secondo Clark, «ci fa capire come, per mano dell’immaginazione giusta, l’orrore della perdita individuale può diventare un’esplorazione straordinariamente umana della bellezza e del valore della vita, per quanto dolorosa».